30/09/2013

Black Angels

Circolo degli Artisti, Roma


Sarà stata la mamma del cantante, o forse la zia. O forse solo una turista straniera finita lì per caso. Il dubbio mi rimarrà probabilmente per sempre, ma che bella cosa vedere quella signora paffutella, capelli biondi raccolti, sulla sessantina, giubbotto di pelle nero, una birra media a farle compagnia, gomiti sulle transenne, ferma di fronte al palco, dalla prima all’ultima nota.
Le prime note, in particolare, intorno alle 22, sono dei campionamenti di sitar su un ritmo dettato da una tabla (anch’essa campionata) con delle immagini psichedeliche in continuo movimento (a mo’ di screen saver) a fare da sfondo al palco. Mi aspetto allora che da un momento all’altro arrivino i Kula Shaker e invece si palesano i quattro giovanissimi Elephant Stone, da Montreal. Due presentano chiari tratti somatici indiani, tra cui il frontman, Rishi Dhir, anche al basso, che in una occasione sostituirà con un magnifico sitar, suonato divinamente nella posizione classica, seduto su una panca avvolta da un arazzo color porpora e con le gambe incrociate. La loro proposta è una godibile, efficace (anche a giudicare dalla divertita partecipazione del pubblico) miscela di (h-)indie rock dal respiro brit, forti riverberi, campionamenti allucinogeni ed elementi di musica popolare indiana. Vengono in mente gli Horrors immersi nelle acque del Gange. Degni di nota, da riascoltare con attenzione.

Ci vuole quasi mezz’ora perché la scena sia sgombrata dalla strumentazione degli Elephant Stone e tutto sia in ordine per il piatto forte della serata, i Black Angels, da Austin, Texas, tra i massimi esponenti mondiali della nuova psichedelia rock. Già 5 album alle spalle, di cui uno ("Another Nice Pair") è di fatto una raccolta dei primi due Ep. L’ultimo album, "Indigo Meadow", da poco rilasciato, sta riscuotendo unanimi consensi da parte di pubblico e critica, che li hanno consacrati protagonisti mondiali, quasi assoluti (adesso come adesso, direi assieme ai Clinic e ai Goat), della suddetta scena.

A introdurre il loro show ci sono niente meno che le note di basso più famose al mondo, quelle di "One Of These Days" dei Pink Floyd, condite dalla solita abbuffata di immagini caleidoscopiche, deliranti e altamente suggestive in sottofondo. Si comincia con “Mission District” da "Directions To See A Ghost" per poi passare in rassegna alcuni tra i loro pezzi più belli, in principal modo dall’ultimo "Indigo Meadow" (“Evil Things”, “Don’t Play With Guns”, “Indigo Meadow”, “I Hear Colors”, “Twisted Light”, “Always Maybe”, “Broken Soldier”) e da "Phosphene Dream" (“Yellow Elevator”, “Entrance Song”, “Haunting At 1300 Mc Kinley”, “Telephone”, “Bad Vibration”).
I picchi di delirio del pubblico, comunque costantemente su alti livelli di partecipazione, sembrano però toccarsi con “Black Grease”, da "Passover", il primo album della band, dal quale propongono pure l’ottima “Young Men Dead”.

Un’ora e mezzo di legnate psichedeliche sulle orecchie dei tanti accorsi al Circolo degli Artisti, per la prima delle due date italiane del combo-tour europeo di queste due valorose band. Tanta energia, tanto pathos (chiudendo gli occhi, si poteva pure ipotizzare un paragone tra la voce live di Jim Morrison e quella di Alex Maas, più di una volta a dire il vero prossimo alla plateale emulazione), tanti echi e riverberi volti a creare quell’atmosfera mistica e surreale che, fatta confluire negli schemi del rock e del blues, fulminò e continua a folgorare maree di ascoltatori a cavallo di diverse generazioni.
Una menzione particolare, però, la merita Stephanie Bailey, la (bellissima) batterista che segna continuamente un ritmo incalzante, un po’ marziale e un po’ tribale, con le sue bacchette quasi sempre in parallelo a sfondare contemporaneamente timpano e rullante, un po’ come usava fare Meg White, della quale ricorda un po’ lo stile oltre che la postura. È magnetica, pur avendo sempre lo sguardo rivolto verso il basso, fregandosene del pubblico e della gloria, perché tanto ciò che conta è pestare vigorosamente questa maledetta batteria. Nient’altro.

E se quella signora alla fine fosse stata la sua, di madre? Probabilmente non lo saprò mai, ma l’idea di lasciare la sala e serbare questo dubbio mi piace.