20/07/2013

Depeche Mode

Stadio Olimpico, Roma


C’erano una volta le grandi rock band che riempivano gli stadi e trascinavano le masse. Quelle che mettevano tutti d’accordo e ad ogni disco riuscivano a contagiare una nuova generazione. C’erano, ma nel caso dei Depeche Mode ci sono ancora. Centoventimila spettatori in due sole date italiane, Milano (San Siro) e Roma (Olimpico). Sessanta milioni di dollari incassati in meno di due mesi dal loro Delta Machine Tour, roba da far impallidire l’acclamato Bruce Springsteen, il cui Wrecking Ball 2013 non è arrivato a nemmeno un quarto della cifra.
E il bello della storia è che a riuscire nell’impresa è la band-simbolo del genere fatuo ed effimero per antonomasia (il synth-pop) del decennio fatuo ed effimero per antonomasia (gli anni 80). Alla faccia di tutti quei soloni che per anni hanno pontificato simili baggianate dall’alto della loro finta autorevolezza di critici del rock puro, quello senza compromessi, fatto di chitarre e sudore, e non di quelle diavolerie elettroniche che tanto basta pigiare un tasto, durano lo spazio di un hit etc. etc.
È con sadico piacere, quindi, che oggi assistiamo alle ultra-tardive rivalutazioni della band di Basildon da parte di chi per anni ha storto il naso davanti alla sua musica. Ma passiamo alle cose serie...

Ore 21 di un sabato sera afosissimo. Stadio Olimpico di Roma stracolmo, come non si vedeva dai tempi di Roma-Parma dello scudetto. Violiamo il santuario della Tribuna d’Onore grazie a un biglietto rimediato in extremis, al quale saremo eternamente grati. Seggiolini addirittura in pelle (umana?) e pubblico un po’ strano: molti sembrano capitati lì per caso, alcuni sembrano i classici scrocconi della domenica, quasi tutti impugnano minacciosamente i cellulari, mentre sotto, sul prato, c’è il vero delirio e una densità come neanche sulla tangenziale Est all’ora di punta. L’attesa è palpabile, ma breve, perché alle 21, 10, puntualissimi, i Depeche Mode irrompono in scena, preannunciati da una luce verde lampeggiante. Il gigantesco palco del Delta Machine Tour, disegnato dal loro amico Anton Corbjin, è uno spettacolo nello spettacolo: sovrastato da un enorme triangolo, sfoggia uno schermo gigante alle spalle della band e due altri monitor laterali, che proietteranno immagini tanto sobrie quanto suggestive, come si confà allo stile del regista olandese.
L’incipit, con l’accoppiata “Welcome To My World”-“Angel” (lo stesso di “Delta Machine”), mette subito in luce un Gahan in grande spolvero, pronto a piegare le sue cadenze baritonali al caldo elettro-blues dell’ultimo, pregevole lavoro della band. Ma si capisce subito che non sarà solo uno spot per l’ultimo disco da promuovere. Anzi. I Depeche Mode generosamente scavano nella loro ricchissima discografia, a cominciare da una splendida “Walking In My Shoes” (che conferma una volta di più come anche il discusso “Songs Of Faith And Devotion” fosse un grande album) per poi alternare frutti più recenti – una struggente “Precious” (da “Playing The Angel”, 2005) che inizia finalmente a scaldare gli spalti – a chicche dal glorioso decennio Eighties, come una inattesa, e forse anche per questo commovente, “Black Celebration”, dal loro classico omonimo del 1986.

Ma la vera scossa arriva con i bassi pompatissimi e il riff di chitarra prepotente di “Policy Of Truth”: Gahan, agghindato come un ballerino di flamenco – capelli impomatati all’indietro, baffetto da sparviero e gilet nero a pelle – ancheggia e occhieggia da par suo, mandando in visibilio i (e soprattutto le) fan. A 51 anni sembra persino ringiovanito: asciutto, addominali scolpiti, ostenta un’aria serena e spavalda, ben diversa da quella dei giorni neri del Devotional Tour. È lui il gran cerimoniere sul palco, perfettamente assecondato dai compari Martin Gore alla chitarra e Andy Fletcher alle tastiere, con Peter Gordeno (tastiere) e Christian Eigner (batteria) ormai stabilmente a supporto.
Dopo un’intensa “Should Be Higher” (sempre dall’ultimo “Delta Machine”) e una impeccabile “Barrel Of A Gun” (che riesuma anche il sottovalutato “Ultra”), Dave lascia la scena a Martin, il sodale di sempre, cui spetta il compito di interpretare i brani più intimisti, quasi unicamente in chiave acustica, come “The Child Inside”, sorta di dolente riflessione sull’infanzia rubata, e l’immortale “Shake The Disease”, che abbandona i suoi clangori metallici per ritrovarsi ballata da sessantamila accendini (o cellulari, nella nuova versione). Unghie dipinte di nero, ombretto grigio sugli occhi, Gore appare quasi intimidito, decisamente meno a suo agio del compare quando si tratta di dominare la scena, ma produce quell’effetto misto di intensità e tenerezza che gli vale un’ovazione.

Al ritorno di Gahan sul palco, è la volta di “Heaven”, il nuovo gioiello di famiglia (“Poterla cantare – ha raccontato – è la ragione per cui, dopo tanti anni, continuo a fare questo mestiere”), seguita da una martellante “Soothe My Soul”, che manda definitivamente in fiamme le tribune: tutti in piedi, a cantare e ballare, con l’ingessata Montemario che, da qui in poi, si trasforma in un rave party a cielo aperto. Si scorgono attempate donzelle dimenarsi senza freni, nostalgici stempiati in trance, ma anche tantissimi giovani, a conferma di come i Depeche Mode siano l’unica band degli anni 80 che è riuscita a mantenere un appeal fresco anche presso le generazioni successive, nonché, probabilmente, l’unica band synth-pop degli Eighties il cui capolavoro è degli anni 90: quel “Violator” (1990) che si rivela l’album più apprezzato anche dai sessantamila dell’Olimpico, in delirio sulla melodia da schianto della sempiterna “Enjoy The Silence” (cantata praticamente dal pubblico) e sul battito martellante di una “Personal Jesus” che parte lenta e poi divampa in tutta la sua carica adrenalinica, accompagnata sugli schermi da immagini di persone schiacciate contro un vetro.
La doppietta di “Violator” è come un tappo che fa esplodere definitivamente lo stadio: gli spalti sembrano crollare, e tutto, ormai, va bene per fare festa, anche quando si tratta di una “black celebration”, per riesumare un caro fantasma darkettone di nome “A Question Of Time”, o quando, su “Goodbye”, Corbijn si inventa un surreale videoclip in bianco e nero dei tre Mode, immobili e imperturbabili, intenti a scambiarsi cappelli su una panchina.

Ma non è ancora la fine: c’è spazio per un altro numero classico di Gore – la dolcissima “Somebody” – e per un altro tuffo nel passato remoto, addirittura agli albori della band, con le tastiere plasticatissime di “Just Can't Get Enough” che tornano a evocare quegli anni di deliziose (e un po’ ingenue) patinature, subito seguita – quasi per mostrare il contrasto stridente di stili nell’evoluzione della band – da quella “I Feel You” che incarnò forse il momento più “rock” e controverso della storia dei Depeche Mode, oltre che l’abisso più cupo di Gahan: quei tre minuti di morte apparente a Los Angeles, prima che i medici riuscissero a rianimarlo, segnano una delle tante sliding doors della storia del rock: da una parte c’era la fine, dall’altra la rinascita e un successo ancora più travolgente. Fortunatamente, sappiamo com’è andata a finire...
Vien da pensare all’incredibile juke-box che si portano dietro, in questo Delta Machine Tour, ma anche alle tantissime altre grandi canzoni che hanno lasciato a casa. C’è chi ripensa a “Stripped”, chi invoca una più recente “Home”, chi sognerebbe “Leave In Silence”. Ma a dare la buonanotte ai sessantamila dell’Olimpico sono i rintocchi solenni di un altro superclassico: “Never Let Me Down Again”, unico brano estratto dal bestseller del 1987 “Music For The Masses”. La messa laica dei Depeche Mode è finita. Si va in pace, ma con la consapevolezza di non averne ancora abbastanza: we just can’t get enough.