10/04/2013

Hugo Race & Fatalists

Spazio 211, Torino


E adesso il gioco si fa interessante davvero, caro Hugo Race. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, ma quel che conta è che alla fine tu sia diventato il cantautore che sognavi di essere da chissà quanto tempo. Ebbene sì. Gli ci sono voluti forse diciassette dischi a proprio nome o intestati ai True Spirit, senza contare la sterminata rassegna dei progetti collaterali (Sepiatone, Transfargo, Merola Matrix, Dirtmusic, Songs With Other Strangers) che lo hanno visto spaziare nel corso di un quindicennio dall’elettronica kitsch ai meticciamenti maliani, per approdare alla sintesi esemplare tra rock e folk cui è giunto solo in tempi molto recenti. Tentativi ed errori secondo la più classica delle educazioni artistiche, affinando la tecnica e l’orecchio uno scarto alla volta, accogliendo influenze a lungo attanaglianti (almeno agli occhi della critica), lasciando decantare una voce che è già di suo una mezza benedizione e facendo tesoro di quelle fortunate esperienze giovanili (un lustro abbondante di militanza al fianco di Nick Cave a cavallo tra ultimi Birthday Party e primi Bad Seeds, oltre all’indimenticabile segmento dei Wreckery) che per altri senza il suo polso avrebbero pesato sempre e inevitabilmente come una dorata maledizione. Imparando dai propri sbagli e conservando un profilo umile che è merce rara, il cantante e musicista australiano si è perfezionato nell’assoluta sordina del suo ritiro italiano, coadiuvato dal valido collettivo forlivese dei Sacri Cuori (Antonio Gramentieri, Diego Sapignoli e Francesco Giampaoli), che da qualche anno lo accompagna in studio e in tour sotto le spoglie dei Fatalisti. Che questo incontro abbia portato una sferzata decisiva per il Nostro lo diceva già chiaramente il primo frutto della collaborazione, quel "Fatalists" – appunto – registrato tre anni fa in Romagna da un Race oltremodo provato (a causa di una polmonite), eppure intenso come di rado gli era capitato. Una vera e propria attrazione “fatale”, diremmo con spirito faceto, che dopo una raccolta di cover in acustico coprodotta dall’amico fraterno Cesare Basile ("No, But It’s True") ha portato alla grandissima sorpresa di "We Never Had Control", con ogni probabilità l’album più riuscito di tutta la sua carriera solista.

Scrivere di Hugo Race era stato fino ad oggi sempre un po’ ingeneroso nei suoi confronti. Non si poteva terminare una riflessione senza evitare di perdersi in un gioco di accostamenti pressoché inesorabile: dall’onda lunga della scapigliatura maudit di Re Inkiostro agli ovvi paralleli tra la sua vocalità e quella del ben più celebre Mark Lanegan, senza dimenticare l’ampio corollario di stereotipi folk desertici da sciorinare ordinatamente accanto a nomi altisonanti come Howe Gelb o David Eugene Edwards. Anche tutto giusto in fondo, perché la musica di Hugo ha recuperato senza farne mistero la lezione di questi maestri, uscendo però sempre svilita dalla pratica insana ma imperativa delle comparazioni. hugo270x220_i_01“We Never Had Control” ha finalmente sgravato il musicista giramondo dal suo recitare in perenne difetto la parte dell’artista ombra, della controfigura di maniera, versione in sedicesimi di qualche altro tizio sempre e comunque migliore di lui. Prima quel quid era sempre mancato, seppur presente nella sua dotazione genetica, nelle sue corde. La sorpresa di questo nuovo disco sta invece nella sua portata, nel respiro. Niente più accurati bozzetti fedeli ad altri originali, nessuna aderenza scolastica e squalificante a modelli mandati per forza a memoria, al bando il provincialismo in cui pareva essersi chiuso. Al loro posto un album scritto e suonato magnificamente da un protagonista d’alto rango, in quella scena che non ha confini e che sposa le più disparate declinazioni di tutto quel che, per comodità, viene ricondotto laconicamente all’Americana. La trasposizione dal vivo di questo sound così inconfondibile e così elusivo, messo alle strette dalla natura inequivocabile di certi suoi luoghi comuni eppure agile e avvincente come pochi altri, costituiva una sorta di prova d’appello che per nulla al mondo ci saremmo persi, alla ricerca di conferme nelle quali speravamo con forza.

E la verifica ha avuto esiti assai incoraggianti, tocca chiarirlo senza la minima esitazione. Al termine di un concerto generosissimo dell’australiano e dei suoi tre compagni (cui si è aggregato in due lunghi frangenti anche il sassofonista Francesco Valtieri), l’impressione più vivida era di aver assistito all’esibizione di un “grande” a tutti gli effetti, nella forma di un’articolata e libera dissertazione sulle meraviglie di uno stile che ha dentro il sangue, il ferro, le ombre, un cuore che pulsa con inaudita energia e tanti aridi scenari di grande fascino. Desert Folk dunque, l’etichetta con la quale immediatamente si qualifica la posizione dell’ex soldatino cave-iano sui ricevitori GPS dell’attuale sfera alternative. Qualcosa più, tuttavia, che un’opaca convenzione, considerata la torma di suggestioni e sfumature con cui le varie canzoni sono arricchite ritagliandosi ognuna la propria decisa personalità. hugo270x220_ii_01Dall’avvio bruciante con le scudisciate in crescendo di “Dopefiends”, Hugo si è mostrato saldo al comando dell’eccellente flottiglia Sacri Cuori, accendendo fuochi con la sua magnetica Epiphone e aprendo strappi nell’ordito a maglie strettissime curato dalla Fender pirotecnica di Antonio Gramentieri, cesello elettrico di qualità superiore. Supportate da una base ritmica precisa quanto discreta (il drumming essenziale e molto in parte di Sapignoli, il basso morbido e schivo di Giampaoli), le due chitarre si sono imposte subito come protagoniste della serata e hanno dato vita ad una sorta di curioso certame, l’incontro-scontro tra due distinte filosofie sonore: quella aspra di Race, depositaria del marchio atmosferico che è la vera chiave espressiva del gruppo, e quella virtuosistica e muscolare del musicista romagnolo, fondamentale nel conferire profondità di campo e sussulti ai panorami riarsi tratteggiati dalla banda fatalista. La ricerca di un non semplice equilibrio tra queste due anime e una terza, la voce roca di Hugo, ha avuto buon gioco con il western crepuscolare di “The Serpent Egg” (che fa tanto “The Firstborn Is Dead”) dopo che l’apertura e la furibonda galoppata à la 16 Horsepower di “No Stereotype” avevano visto prevaricare in maniera un po’ troppo invadente la squillante sei corde dell’italiano.

Da questo punto in avanti Hugo Race è salito in cattedra come un sovrano illuminato.
Indulgente con gli altri attori in scena ma risoluto nel tracciare la strada attraverso quei paesaggi così caratterizzati, ora brulli e tenebrosi, ora impervi ma variopinti, sempre a proprio agio sia con registri particolarmente arrembanti (“Ghostwriter”) che con le cadenze più blande e introspettive di altri episodi (su tutti l’incredibile brano che ha prestato il titolo all’ultimo album). Riproposto quasi per intero “We Never Had Control”, insieme a significativi recuperi da “Fatalists” e nessuna incursione in pagine più datate della carriera, per poter scattare una fotografia il più possibile fedele della recente incarnazione del cantautore. hugo270x220_iii
Dal rock delle radici affondate in un terriccio fertile di ricordi di gioventù (“Will You Wake Up”) al minimalismo aguzzo e nervoso (“Slow Fry”), dall’epica al cristallo delle laneganiane “Field Songs” (“No Angels Fear To Tread”) alla magia dei Giant Sand rivisitati attraverso lo schermo della propria gentilezza (“Snowblind”, superba) è stato tutto un saliscendi emozionale, ma nel segno di una coesione di forma e di suoni semplicemente miracolosa. Una lezione di stile, si diceva, che non poteva esimersi dall’abbracciare nell’ampio segmento riservato agli encore coloriture più tipicamente alt-country (“Never Say Never”) o più scuri esorcismi di decisa impronta wovenhandiana , nel solco di un classicismo marchiato comunque a fuoco dal proprio pungente temperamento. E al termine di quasi due ore di intensissimo spettacolo, ecco lo spazio per la struggente ninnananna di “Cry Me A River”, congedo ideale da un pubblico estasiato dagli incantesimi arcaici di questo grande cultore del deserto.
Se saprà mantenere in studio le promesse che “We Never Had Control” ha posto anche nella sfera live, Hugo Race non potrà più essere snobbato come una figurina minore tra le tante o l’ennesimo personaggio in cerca d’autore all’interno di una nicchia già affollata di grandi talenti. La sua ricerca, più che altro, potrà dirsi felicemente conclusa.

Setlist

  1. Dopefiends
  2. No Stereotype
  3. The Serpent Egg
  4. Snowblind
  5. No angels Fear to Tread
  6. Slow Fry
  7. Will You Wake Up
  8. Coming Over
  9. Ghostwriter
  10. We Never Had control
  11. Meaning Gone
  12. Nightvision
  13. Never Say Never
  14. Shining Light
  15. Cry Me a River

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