14/02/2013

Simone White & O. Children

Tender Club, Firenze


Il segreto per rovinare un bel concerto? A dire il vero, non è nemmeno così segreto. Basta organizzarlo in un luogo facilmente raggiungibile da tutti (e nessun posto si offre meglio del Tender Club, locale di recentissima apertura posto in prossimità della Stazione di Santa Maria Novella), renderlo gratuito, e la frittata è fatta. Perché se la gratuità dell'evento non è certo una giustificazione (e indubbiamente, le intenzioni degli organizzatori erano e rimangono le più nobili), è sufficiente che a causa di essa venga richiamato un pubblico non pagante totalmente indifferente, e per di più irrispettoso degli artisti che si esibiscono, che ci vuole poco per mandare tutto all'aria.
Peccato, perché l'occasione era davvero delle più ghiotte. Specie per chi come il sottoscritto segue da tempo la delicata poesia tessuta dalla cantautrice hawaiana Simone White, così come la fosca epica tra post-punk e gothic-rock dei londinesi O. Children, entrambi a portare per la prima volta in Italia la loro musica, l'evento era davvero dei più imperdibili. In due ore e mezza di live (imbastito in collaborazione col marchio dROME, invitato a presentare le sue ultime novità), nonostante il fastidiosissimo rumore di fondo, l'intensità emotiva si è mantenuta costantemente ad alti livelli, garantendo agli interessati un'esperienza dal vivo senz'altro soddisfacente.

Dopo qualche inconveniente tecnico (che ha visto la cantautrice utilizzare una chitarra totalmente diversa dalla sua), verso le 23.20 è Simone White a calcare per prima il palco del Tender Club, e presentare il suo ultimo lavoro “Silver Silver”, pubblicato lo scorso Maggio. La dimensione intima dell'album viene riproposta nella sua totale interezza (stacchi strumentali inclusi), anche grazie all'ausilio di due validissimi collaboratori alla batteria e alla tastiera, che hanno permesso di riprodurre tutte le sottigliezze ritmiche e le sfumature sonore del lavoro, ben più articolato rispetto alle prove precedenti.
E se non sono mancati all'appello richiami alla sua produzione passata (tra cui i due cavalli di battaglia “The Beep Beep Song” e “Bunny In A Bunny Suit”, con cui ha dato il la al concerto), sono stati i brani dell'ultimo lavoro ad ergersi a veri protagonisti dello show, a mostrare (non che ce ne fosse bisogno) il lato più coinvolgente e brioso di una musicista perfettamente a suo agio sopra un palcoscenico. Pur spiccando tra tutte, non fosse che per la peculiare scelta interpretativa, la versione integralmente cantata in italiano di “Never Be That Tough” (con una splendida pronuncia, tra l'altro!), l'effetto ipnotico sortito da “In The Water The City Ends” (chiusa da un sensazionale assolo di batteria), la consumata classe nel gestire i beat di “What The Devil Brings” e il soave trasporto della title-track ben immortalano il ritratto di un'artista splendidamente in forma, capace di coinvolgere con modestia e semplicità pur in un clima tutt'altro che ideale.

Decisamente diverso sin da subito si fa l'approccio del pubblico con gli O Children. Sarà per l'impostazione decisamente più rock e poderosa rispetto al fragile impianto folk dell'autrice statunitense, sarà anche forse proprio per un maggior numero d'interessati, ma il rapporto con i quattro ragazzi londinesi si fa sin dall'inizio decisamente più caldo e solido, riducendo se possibile il chiacchiericcio circostante. Chiacchiericcio che anche se presente, non tarda ad affogare nella poderosa coltre di suono prodotta dalla band.
Per la seconda tappa del suo mini-tour in giro per lo stivale, e con un'attitudine decisamente meno gotica rispetto a quanto i loro videoclip lasciassero intendere (col bassista Harry James a sfoggiare una maglietta dei connazionali Peace), il quartetto sfodera sin dall'attacco con “Holy Wood” tutta la poderosa carica epica della propria musica, alternando omogeneamente brani tratti dall'omonimo esordio con pezzi invece dal più recente “Apnea”.

Senza lanciarsi in istrionismi da quattro soldi, e andando invece dritti al sodo, i londinesi, capitanati dalla peculiarissima voce di Tobi O' Kandi, che dal vivo riesce a essere se possibile ancora più idiosincratica, danno sfoggio nell'ora e un quarto circa a loro disposizione del loro ottimo campionario di post-punk moderno, perfettamente al passo coi tempi. Col batterista Andrew Sleath a dare manforte all'impeccabile lavoro di basso e chitarra, la quale sotto le abili mani di Gauthier Ajarrista si toglie anche lo sfizio di qualche breve incursione in solitaria, la musica degli O Children, colma di un romanticismo lancinante e disperato, vibra per tutti i lati del locale con una forza che avvince sempre più col susseguirsi dei pezzi.
Dagli assalti gotici di “Dead Disco Dancer” e “Malo”, al gorgo vorticoso di “PT Cruiser”, passando per il taglio lirico, dai tratti quasi soul, con cui viene presentata “Oceanside”, i quattro baldi giovani mettono in mostra con grande semplicità un talento ancora criminosamente snobbato dalla critica, talento che con un pizzico di attenzione in più avrebbe potuto ricevere risposte sensibilmente più ampie da parte degli ascoltatori. E con O' Kandi a mostrarsi anche piuttosto divertito dalla danza convulsa abbozzata da parte di alcuni astanti delle prime file, si chiudono così due ore e mezzo che chi ha avuto il piacere e la voglia di assaporare hanno saputo soddisfare decisamente le aspettative. Non resta che sperare che sia l'una che gli altri tornino presto a calcare i palchi italiani, possibilmente con un pubblico più coinvolto e partecipe.