01/07/2013

The National

Ippodromo del Galoppo, Milano


L’attesa, da parte di chi vi scrive, per il concerto dei National è davvero tanta: la band di Cincinnati è ormai diventata grande, sia anagraficamente che in termini numerici. L’ultimo album “Trouble Will Find Me” è ormai da diverso tempo in loop nello stereo di casa, come d’altronde lo è da sempre la loro discografia.
Gli show dei National si succedono ormai con un sold out dietro l’altro e solo le imponenti dimensioni dell’Ippodromo del Galoppo impediscono che anche a Milano accada lo stesso. Molti raggiungeranno la venue giusto in tempo per assistere al concerto della band principale, a causa del lunedì lavorativo, ma alla fine il colpo d’occhio risulterà più che buono. Una volta aperti i cancelli, in leggero ritardo, guadagniamo la prima fila piuttosto agevolmente, scelta che si rivelerà ottima anche in virtù del fatto che - ci riferiranno in seguito - nelle retrovie arriverà un audio piuttosto deboluccio.

Il compito di riscaldare l’ambiente tocca a Colapesce; il suo “Meraviglioso Declino” è in realtà una costante ascesa e Lorenzo Urciullo pare non volersi proprio fermare. Ottima la scelta di puntare sulle canzoni più veloci del repertorio, oltre a una cover di "Anima Latina" di Lucio Battisti, per un set breve ma che si farà apprezzare. Sul palco con Colapesce in questa parte del tour anche Alessandro Raina degli (ormai ex?) Amor Fou, come chitarrista e voce aggiunta: sorpresa gradita, visto l’ottimo intesa fra le due voci.

“You can’t play what he plays. Even he can’t play what he plays”: parola di Noel Gallagher su Johnny Marr. Il Godlike Genius è il valore aggiunto di questa giornata, definirlo “spalla” ci sembra decisamente riduttivo e irrispettoso; gli stessi gemelli Dessner gli renderanno successivamente il giusto omaggio, con un pizzico d’invidia, dal palco.
Vero che il suo sarà un set ridotto rispetto agli standard abituali del tour europeo, ma l’ex chitarrista degli Smiths regalerà uno show molto vivace e si dimostrerà un vero animale da palcoscenico. L’esperienza ovviamente non gli manca, ma chiamato per la prima volta a interpretare anche i nuovi brani tratti dal suo primo disco solista “The Messenger”, Marr ci fa davvero un’ottima impressione: sul palco è dinamite pura, si muove ovunque, intrattiene il pubblico e pare abbia davvero trovato la propria “dimensione” vocale, con una particolare menzione per la title track dell’album e “New Town Velocity”. Certo non è un grande cantante e non lo sarà mai, ma quando si fanno certi numeri con la chitarra ci si può anche passare sopra.

Ovviamente non sono mancate le canzoni degli Smiths - non cover perché quelle canzoni sono tanto di Marr quanto di Morrissey - che hanno mandato in visibilio il pubblico e che ci invitano a fare un paio di riflessioni: la prima è che “l’effetto karaoke” di cui avevamo timore prima del concerto viene scongiurato dalla prova dello stesso Marr.
La seconda è tanto banale quanto lampante: se avete avuto la fortuna di assistere a un concerto di Morrissey, avrete certamente notato la mancanza di “qualcosa” dal punto di vista musicale. Quel “qualcosa” che si trova appunto nella dita di Marr, nel modo con cui gioca con lo strumento, mentre esegue e rielabora i riff che l’hanno reso immortale. Due facce separate della stessa medaglia: per carità va benissimo anche così, se Johnny Marr dedica solo ai presenti “There Is A Light That Never Goes Out” è giusto abbracciarsi e far partire il sing along. Lasciateci giusto fantasticare e sognare un po’ su cosa potrebbe succedere se...

Puntualissimi i National alle 21.30 salgono sul palco in formazione completa, con l’aggiunta di una sezione fiati che più volte si farà sentire e apprezzare nel corso del concerto (“This Is The Last Time” tanto per citarne una). La partenza è affidata a “I Should Live In Salt”, la stessa dell’ultimo album “Trouble Will Find Me” dal quale saranno estratte, com’è logico, la maggior parte dei brani in scaletta.
Le nuove canzoni sono già diventati degli instant classic per la maggior parte dei presenti e dal vivo si arricchiscono di soluzioni sonore (vedi la coda di “Graceless”) o semplicemente di maggiore impatto emotivo: sentire il tremolio nella voce di Berninger, in pezzi già di per sé intensi come “Sea Of Love” e “Pink Rabbits”, non può di certo lasciare indifferenti. I National sul palco sono una macchina pressoché perfetta che viaggia senza intoppi e sbavature al servizio della figura di Matt Berninger, vero catalizzatore d’attenzioni; proprio il cantante sarà l’autore dell’unico errore della serata, sbagliando l’attacco di “Fake Empire”, brano che conclude la prima parte dello show e che segna anche l’esaurimento della bottiglia di vino bianco che il frontman si è portato sul palco, con tanto di secchiello per il ghiaccio e calice.

Dei ventiquattro brani eseguiti questa sera poche saranno le sorprese; costante infatti sarà l’alternarsi fra pezzi nuovi e le canzoni pubblicate da Alligator in poi. Unica, ma graditissima eccezione è  “About Today” dal Cherry Tree Ep, che arriva a toccare vette quasi inarrivabili di intensità.

La band rientra per l’encore - Berninger è passato al rosso nel frattempo - annunciando una canzone che manca da un po’ dalla loro setlist: per un breve attimo abbiamo l’illusione di poter ascoltare dal vivo “Lucky You”. Invece si tratta  “semplicemente” di “Runaway” da High Violet, il disco che ha dato ai National la vera grande notorietà.
Segue “Humiliation” e poi l’ormai consueto  trittico conclusivo: su “Mr. November” Berninger si getta in mezzo alla folla per  ricevere come ogni sera l’abbraccio del pubblico, riguadagnando il palco proprio grazie all’aiuto di quest’ultimo. La versione di “Terrible Love” è quasi urlata, rabbiosa, in aperto contrasto con il finale acustico di “Vanderlyle Cry Baby Geeks”, momento altamente suggestivo ma che ha perso un po’ del fascino (e della sorpresa) del tour precedente.

I National sono ormai una delle più importanti band al mondo, sullo stesso livello di Wilco e Arcade Fire, tanto per fare due nomi contemporanei dai numeri e dall’importanza simile. Non avranno, forse mai, la perizia tecnica e l’abilità strumentale dei primi e non raggiungeranno la potenza sonora dei secondi: ma tutto ciò non serve e non importa. Le loro sono canzoni per cuori tristi e l’importanza di “sentire” il concerto a livello empatico va oltre questi aspetti; se non si è “dentro” al loro universo, è come sentire il live con un orecchio solo.
Per questo stasera è più frequente il sing along dell’handclapping - a proposito, non è sempre obbligatorio e se proprio se ne sente il bisogno, si cerchi di andare almeno a tempo - per questo stasera non si è qui per ballare, per questo non ci può importare se Berninger ogni tanto biascica eccessivamente le parole. I National live sono un modo per liberarsi dalle tensioni e dalle paure, un balsamo per l’anima. Di più non possiamo chiedere loro.