03/12/2014

Clark

Berghain, Berlino


Un report e un racconto immaginario, basato su interviste, dei pensieri del producer inglese.

A tredici anni implorai mia madre di lasciarmi andare ad un rave, chiamato "Tribal Gathering", dove suonavano i Kraftwerk. Quel suono ultraterreno, incredibilmente meccanico e umano, usciva in maniera straordinaria anche dalla mia radio da quattro soldi. La mia musica è diventata un incrocio del timing tedesco e dell'animo inglese.

"More Berghain than Guggenhaim", così la Warp Records ha preparato l’uscita del nuovo disco di Clark, uno degli esponenti più celebrati della nuova generazione idm. Mercoledì 6 dicembre ne è in programma la presentazione proprio a Berlino, la città dove si è trasferito da qualche anno.

Questa sera suono al Berghain. Non è la prima volta dal mio arrivo in città e dalla ricostruzione dello studio. Anche se, quindici anni fa, sarebbe stata forse uno specchio migliore. Nonostante le serate dubstep e techno, mi sento meglio a distanza, come per registrare il disco: per quattro mesi  in isolamento nella campagna inglese.

Primi giorni di gelo, dentro e fuori, costeggiando l’East Side Gallery e i nuovi edifici, semi grattacieli, costruiti ad un passo, anche meno, dal muro. Nessuno in coda, perché è un concerto e non la Klubnacht del sabato notte e della domenica. Clark sale sul palco alle 23: prima le installazioni di Gajek, una deviazione scura delle sperimentazioni di Oneohtrix Point Never e poi il dj set di Mondkopf, nelle coordinate ambient-techno di Clark, che inizia a scaldare il pubblico.

Ci siamo. Il club, nella sua imponente concezione dello spazio, è pieno. Scrivere musica mi è servito per affrontare alcuni fra i periodi più bui della mia vita. Credo che, senza di lei, avrei contratto problemi mentali anche abbastanza gravi, ma deve essere la verità, più o meno approssimata, di ogni musicista.

Il Berghain è pieno, come fosse un normale weekend berlinese. "Winter Linn" è la presentazione: uno dei migliori brani dell’ultimo Clark, fuoriuscita personale dance-sound, come ultimamente lo è Jon Hopkins. Cascate dentro edifici invernali, musica da ballare, ma non solo ritmo, anche flashback, melodia. Mentre il timing, quasi mai grezzo, può riempire da solo il trascendere, sensazioni prive di oggetto vengono riattivate dal crescere di una natura intorno alla sezione ritmica. Con questi brani il producer inglese respinge le critiche che lo vorrebbero soltanto un manierista, per quanto di grande talento. Poco dopo è "The Grift In The Pearl": più affine all’ambient del vecchio e nuovo Aphex Twin, anche se fanno incursione distorsioni e veemenze non presenti nel paesaggio dell’album. Poi il primo singolo "Unfurla".

Ancora una volta, semplicemente, non penso: nessuno lo sta facendo. Fermarsi su mani quasi tracciabili, su occhi che posso sezionare per un momento, sul sommarsi e dividersi delle forme.

La forza del temporale di "Beacon", acuita dal contorno industriale, spazza i residui del vento della campagna inglese: si procede veloci verso un live set sempre più robusto e con meno concessioni alla melodia, per quanto distorta, dell’ultimo Lp. Sentori di drum'n'bass in direzione del primo Squarepusher, ma mai così frenetica, quando piuttosto il compimento di un processo di depurazione e oscuramento, a lasciare deflagrare quasi isolato il battito: connotati e sfumature, nonostante tutto, più berlinesi, sia nella scelta dei brani, che nel modo di esecuzione live. Dopo una breve interruzione di silenzio, il concerto trova il suo epilogo, ripartendo da una batteria minimale, quasi acustica, prima di un'ultima spirale.

Adesso di nuovo silenzio. Mi piace vedere l’effetto che fa, come se fosse un’interruzione sbagliata, un corto circuito, un errore umano. Cerco di aprire uno spazio per fare entrare i suoni su cui è costruito il disco: la natura del mondo esterno nei rami che cadono, nei temporali che si formano. È il tutto che entra nella mia idea di musica elettronica.