14/07/2014

Kraftwerk

Auditorium Parco della Musica, Roma


Un art-rave elettronico in 3D. Addirittura... a 67 anni suonati, herr Hütter? Già, perché l’ormai unico membro originale dei Kraftwerk, dopo il distacco dalla navicella di Florian Schneider nel 2008, ha deciso che non è ancora tempo di spegnere i motori e fermarsi a guardare la scia di questi mirabolanti 45 anni dei düsseldorfiani. Il futuro è adesso, per chi ha vissuto tutta la vita all’avanguardia, non è uno slogan da quattro soldi. E allora, eccolo lì, alla sua veneranda età, inguainato nella sua tuta spaziale, con il suo inseparabile vocoder, a dirigere le operazioni del nuovo equipaggio che atterra su Roma – anche plasticamente, come mostreranno le immagini di “Spacelab”, con tanto di disco volante in rotta sul Colosseo – per una performance che farà impallidire, per durata e intensità, quella, pur memorabile, di dieci anni prima al Gran Teatro.
Ad accoglierli c’è un multiforme pubblico occhialuto. E fa uno strano effetto, a dirla tutta, come se la Cavea dell’Auditorium si fosse trasformata in un gigantesco cine-arena, pronto a ospitare l’ultimo kolossal in 3D della stagione. E mentre l’immancabile Roberto D’Agostino prende posto nei paraggi, con look sdrucito da guru radical-chic, si spengono le luci. Teutonicamente puntualissimi, alle 21.20 i Kraftwerk salgono sul palco. E subito fuoriescono dallo schermo i loro impressionanti robot d’antan, con camicia rossa e cravattino nero d’ordinanza. C’era bisogno del 3D? Forse sì, forse è proprio la chiusura del cerchio: dalle manopole e dai transistor dei Kling-Klang Studios all’ultima frontiera della tecnica visuale, con lo stesso spirito pionieristico di sempre. Un 3D raffinato e mai invasivo – c’è da sottolineare – al punto che quando ci toglieremo gli occhialini, quasi non ce ne accorgeremo. Sul palco, ad affiancare il comandante Ralf Hütter, sono in tre: Henning Schmitz, Fritz Hilpert e il più giovane Falk Grieffenhagen (video-manipolatore, salito a bordo circa due anni fa).

Kraftwerk a Roma
Il suono cristallino sprigionato dalle tastiere fende come una lama il buio di una notte romana tra le più fresche dell’estate, complice anche un temporale pomeridiano. Il pubblico assiste ipnotizzato, prima di venire sommerso da una pioggia di numeri, elaborati da calcolatrici e computer della preistoria informatica: da “Numbers” a “Pocket Calculator”, passando per “It's More Fun to Compute” e “Computer Love” è una grande festa cibernetica: “Sono l’operatore con il mio calcolatore”, gigioneggia in italiano Hütter, ma senza mai perdere il suo teutonico aplomb. Ma c’è poco da scherzare, perché la sequenza che sta per arrivare è un uppercut che manda al tappeto i fan dal cuore tenero. Si parte da “The Man Machine” (title track di quello che sarà anche – giustamente - uno degli album più saccheggiati della serata) con il suo ibrido di vocalizzi robotici e rintocchi spaziali, mentre sullo sfondo si compone l’ormai mitica serie di scritte in bianco e rosso. Ma stavolta a strappare la lacrimuccia è “Spacelab”: la sua splendida melodia - quieta, quasi pastorale - commuove ancor di più perché avvolta in immagini d’incredibile tenerezza. Quella dei Kraftwerk è una fantascienza naif, alla “Spazio 1999”, che qui si compone di astronavi di cartone che solcano lo spazio, mentre la terra rosseggia all’orizzonte, e fanciulleschi Ufo, che, come detto, puntano dritto sul Colosseo.

Kraftwerk a Roma
Ma non c’è tempo di riprendersi dall’emozione, perché le tastiere di “The Model” - con quell’assolo che non fa mai prigionieri - sono pronte ad avvolgerti nella loro tela seducente, proprio come le vezzosissime pin-up in bianco e nero che scorrono sullo schermo. Poco da aggiungere: resta un macigno miliare della storia del pop elettronico. Una storia scritta con le luci al neon, che illuminano il nuovo scenario proto-futuristico (“Neon Lights”), fatto di colori sgargianti e insegne romantiche, come “Hotel Cristallo”. Poi quel motore che si accende, pronto a trasportarci tutti nell’“Autobahn” dei sogni, dove sfrecciano maggioloni e altri amabili catorci degli anni 70, tra le collinette verde-pastello sotto i raggi del sole. È l’anello di congiunzione tra il prima – gli esordi nella kosmische musik – e il dopo – la saga techno-pop (termine orgogliosamente rivendicato dai visuals dell’omonimo brano poco dopo). Sempre sospesi tra l’ottimismo per un futuro idealizzato e la consapevolezza delle contraddizioni della società tecnologica, i Kraftwerk snocciolano il triste rosario degli incubi nucleari (da Hiroshima a Fukushima, passando per Chernobyl e Sellafield), a mo’ di ormai consolidata intro per “Radioactivity”, altro classico senza tempo che scatena l’entusiasmo del pubblico.

Kraftwerk a Roma
Musique Non Stop, impone il rave party di questi attempati gentiluomini tedeschi. E così, senza soluzione di continuità, si viaggia ancora: sulle ruote gommate del “Tour de France”, tra le nebbie dei Pirenei e le valli d’oltralpe, e soprattutto sulle rotaie del “Trans-Europe Express”, quelle dove capitava d'incontrare Iggy Pop e David Bowie: “Il suono di un treno in corsa è musica”, teorizzava Ralf Hütter, e vallo a spiegare a noi, che su quei synth cigolanti abbiamo costruito un’esistenza musicale intera...
Ma l’idea del rave non è solo una suggestione: la sequenza “Electric Café”-“Boing Boom Tschak/Techno Pop/Musique Non Stop” trasporta direttamente in un dancefloor post-2000, al punto che c’è chi rompe definitivamente gli indugi e si tuffa sotto il palco, per dimenarsi al ritmo di quelle partiture meccaniche. Poi, man mano, ognuno dei quattro abbandona la sua postazione e saluta.

Kraftwerk a Roma
Quando tornano per i bis, la discoteca sotto-palco è ormai gremita. Ora non si coglie più la differenza tra passato e presente, è come se andasse in scena un set dell’ultimo dj sulla cresta dell’onda. Canzoni più recenti, come “Aéro Dynamik” (da “Tour de France Soundtracks”) e “Planet of Visions” (versione rielaborata di “Expo 2000”), sono in tutto e per tutto techno contemporanea e martellano la Cavea con i loro beat ossessivi, saldando definitivamente il legame spazio-temporale tra i pionieri di Düsseldorf e i loro emuli sparsi per le epoche e per il mondo. Si consuma davvero il più imprevedibile dei rave: musica che pompa dalle casse e dalle macchine degli imperturbabili cyborg. Finché, dopo 130 minuti di show, l'androide Hütter sibila i titoli di coda: “Goodnight, auf wiedersehen”. Si va a casa con la consapevolezza che il futuro è sì un'ipotesi, ma non sarà mai bello come lo immaginavano i Kraftwerk. Scriveva Eddy Cilia: “La loro è una visione del futuro che viene da un passato in cui era possibile immaginare tempi a venire prosperi e ordinati, fatti di città linde, immensi spazi verdi, autostrade a otto corsie, regolate da giganteschi cervelli elettronici”. Forse li amiamo così tanto anche perché non abbiamo mai smesso di sognarlo.