30/10 - 1/11

Pitchfork Music Festival Paris

Grande halle de la Villette, Parigi


Giunto ormai alla sua quarta edizione, il Pitchfork Music Festival Paris, costruito da e su uno dei brand giornalistici più d’impatto nell’editoria online, non è un festival per soli presenzialisti modaioli devoti al sito web americano più cool dell’interwebz musicale, tutt’altro. Il festival si erge oggi come un un’importante punto di riferimento per tutti gli appassionati, interessati a unificare non solo il piacere nel rivedere grandi/vecchi act come Mogwai, Belle & Sebastian, St. Vincent etc. ma anche il diletto di scoprire nuovi artisti in rampa di lancio (Shura, Movement) e altri addirittura al loro primo concerto assoluto (Tobias Jesso Jr.) dimostrando così di avere non solo coraggio ma anche estrema fiducia nella line-up proposta.

Svoltosi all’interno della Grande halle de la Villette, un’enorme struttura costituita di ferro e vetro capace di contenere più di 6.000 persone, l’evento parigino, che sebbene sia lontano dall’essere un festival tout-court per l’alternanza di tutti gli act su due palchi speculari dandoti così la possibilità di vedere tutta la line-up, ne conserva invece l’atmosfera mediante svariate aree destinate all’extra-musica, come la zona riservata ai giochi (biliardino, altalene, pacman, twisted etc.), gli ottimi mercatini interni e naturalmente la discreta area food/relax dalle esigue varietà (fish and chips, hot dog o hamburger - anche vegetariani) ma dalle code mai esagerate. Le uniche pecche a livello organizzativo sono state la quasi totale impossibiltà di portare al’interno della struttura cibo e acqua (neanche aperta con solito tappo nascosto) date le perquisizioni neanche fossimo in aeroporto e l’impossibilità di poter rientrare nella struttura una volta usciti.

Il compito di inaugurare il festival è affidato agli Ought, quartetto post-punk sotto l’ala di Constellation Records, che ha pubblicato quest’anno l’ottimo “More Than Any Other Day”. L’aria da ragazzi smarriti che si portano appresso scompare quasi immediatamente, non appena attaccano con la quasi title track “Today, More Than Any Other Day”. Il loro è un suono caldo, pieno, quasi in replica con ciò che si può sentire sul disco. Il frontman Tim Beeler si muove a scatti come il primo David Byrne, canta con voce piena e un po’ sghemba e funge da catalizzatore. Il loro è un set breve, davanti a un pubblico non numeroso (cosa che si verificherà in ogni giornata del festival per tutti gli artisti previsti nella prima parte del tabellone), ma anche uno dei più convincenti e trascinanti dell’intero Pitchfork Paris.

Il live di How To Dress Well per noi è come raggiungere il traguardo dopo una corsa infinita. Complici le varie date annunciate e poi annullate in Italia, finalmente riusciamo a confrontarci con Tom Krell. L’inizio è dei più promettenti, peccato che il suo già di per sé breve set venga interrotto da prolungati problemi tecnici. Tom prova anche a scherzarci su, ma l’atmosfera giusta fatica davvero molto a crearsi in questo modo.

I Notwist si confermano per quello che ci hanno dimostrato dal ritorno ai live in occasione del loro ultimo “Close To The Glass”: una grande live band. Divagazioni kraut, arrangiamenti del loro repertorio passato e presente e infine quello che tiene tutto insieme: il loro divertirsi nell'eseguire i pezzi, i cenni di intesa tra di loro, il sentirsi a loro agio sul palco. Unica pecca per i più nostalgici: avere eseguito soltanto “This Room” dal capolavoro “Neon Golden”.

Senza nasconderci, uno dei gruppi più attesi dell’intero festival sono i War On Drugs. La loro ultima fatica “Lost In The Dream” è uno degli album dell’anno e le aspettative sono davvero altissime. Granduciel e soci questo lo sanno e infatti la totalità della loro performance sarà incentrata su di esso. “Burning” e “Eyes To The Wind” scaldano l’ambiente e lo preparano per la micidiale doppietta “An Ocean In Between Two Waves” e “Under The Pressure”. Il pubblico è totalmente rapito, noi un pochino meno. L’hype è una brutta bestia, specie se ami visceralmente un album e la resa live dello stesso è meno performante. In questo caso, manca quella sensazione di eterea e sognante magia che si può assaporare in un ascolto in cuffia. I brani sono più essenziali, meno caldi, nonostante il grande affiatamento dei musicisti coinvolti. “Red Eyes” chiude il live in leggero rialzo, ma è come se mancasse ancora qualcosa. La portata principale è stata servita, il contorno no.

Arriva il momento degli artisti di punta della serata e lo si nota dal fatto che la folla si fa molto più fitta già da parecchi minuti prima dell'inizio dei set, con la circolazione parecchio compromessa. Salgono i Mogwai: il loro set ricalca quello degli ultimi anni, infarcito di brani da Mr Beast in poi che salvo un paio di incursioni ("Mogwai Fear Satan" e "Hunted By A Freak") può far storcere il naso ai fan di vecchia data, ma la natura relativamente giovane e non per così dire “purista” del pubblico e l'innata capacità di rimanere puliti nel suono e sbatterlo in faccia alla folla coi muri sonori rende ogni critica un mero vezzo da nostalgici; la preview del nuovo Ep "Teenage Exorcists", infine, dal vivo rende più di quanto ci si aspettava.

Il finale è in dote a due artisti di matrice elettronica: Jon Hopkins fa quello che sa fare, ovvero rendere la techno fruibile alle masse. Pur non variando niente del suo solito e collaudato set, in questo vi aggiunge una serie di visual tratti da scenari urbani e di periferia che abbelliscono il tutto. Una corsa veloce per prendere le posizioni migliori ed ecco spuntare James Blake col solito duo di batteria e chitarra/effetti osservato fin dalla prima apparizione italiana a Milano. Il britannico “mette le cose in chiaro”, per così dire, partendo con CMYK dall'omonimo Ep e la folla già è ai suoi piedi.
Ci si aspetta continui su toni dancey ma ecco spiazzare ancora con I "Never Learnt To Share" e "Limit To Your Love". Non saranno solo queste le uniche gemme proposte dall'esordio, che l'artista ci riserverà solo nel finale. Forse in contrapposizione o per precisa scelta, le proposte di Overgrown invece vertono su una selezione più  orientata alle influenze dub per cui ciò che magari non rende come il precedente capolavoro, lo fa la cassa: pezzi come "Digital Lion" e "Voyeur" finiscono per entrare di prepotenza nei nostri corpi, facendo risuonare la cassa toracica. Una “cura” per questo effetto ce la fornisce nel finale, con l'ascendente ed epica "The Wilhelm Scream" e soprattutto con la traccia conclusiva del self-titled "Measurement", gemma rara, summa delle capacità dell'artista di tirare fuori l'anima con solo la voce, ripetuta in sacrale loop.

Giorno due, stessa routine del precedente. Siamo in pochi sotto il palco per i Perfect Pussy e ancora nessun segno di maschere di Halloween nei dintorni (arriveranno). La band guidata da Meredith Graves offre una performance particolare, dove a contare di più è forse la presenza stessa della cantante sul palco piuttosto che le canzoni stesse. Via ogni parvenza melodica, l’intero set si basa sulla solidissima e tirata sezione strumentale e sul cantato (?) sguaiato della Graves. Ok il punk, ok il crossover fra musica e performance artistica, ma forse non è stata la scelta migliore quella di piazzarli all’inizio della giornata. L’aria che si respira proveniente dal palco è troppo grave per creare una qualsiasi connessione fra pubblico e band.

Le cose vanno invece molto meglio con D.D. Dumbo e successivamente con Son Lux. L’australiano fresco di contratto con la 4AD resetta il mood della Grande Halle, portandolo su velocità più adatte all’orario e alla situazione: solo su palco, loop di voce e chitarra appaiono sufficienti per elargire un’ottima performance. Son Lux rappresenta bene ciò che Pitchfork ha lanciato negi ultimi anni: hip-hop sperimentale, in una commistione di generi che vanno dal post-rock al jazz che affascina, anche se non si può dire sia la nostra più grande passione.

Torniamo a parlare di hype, questa volta con gli attesissimi Future Islands, inspiegabilmente posizionati molto presto in scaletta. L’ormai famosa esibizione da Letterman ha probabilmente fatto svoltare la loro carriera ma, va subito detto, che gli americani sul palco ci sanno davvero fare. E alla grande! Sono i primi a presentarsi in tema con la serata (travestiti rispettivamente mago, da Lerch della famiglia Addams, da lupo mannaro e il frontman Samuel Herring da Dracula) e la loro è una performance esplosiva, prepotente. Herring sul palco è una bestia indomita, si agita come un pazzo con il trucco che gli cola dal viso, ma la voce non trema mai, resta sempre salda. Si concede generosamente e sarà anche l’unico fra gli artisti del Pitchfork, a fare crowdsurfing. Tanti brani da “Singles”, ma anche diversi estratti dai primi album, tanto per dimostrare che la loro è una band viva e attiva da anni e non certo costruita sopra a una fortunata apparizione in tv.

La scaletta del secondo giorno (davvero pazzesca per qualità) prosegue con la danese . Grande pubblico per lei, truccata da scheletro, soprattutto fra i giovanissimi. Probabilmente il primo momento davvero “modaiolo” del Pitchfork. C’è da dire però che Karen Marie Ørsted le attenzioni se le è meritate a suon di singoli di successo e stasera dimostra di essere anche una performer convincente. Grande essenza pop, suoni moderni e presenza scenica. Le nostre aspettative non erano della più alte, ma ci siamo ricreduti.

L’esibizione di risulta propedeutica ai successivi Chvrches. Lauren Mayberry sale sul palco truccata di tutto punto, confessando candidamente però che il suo obiettivo era quello di travestirsi da Principessa Leila. Proposito poi accantonato dopo aver visto il fantastico travestimento dei Future Islands. Synth al massimo e tutti i singoli uno dietro l’altro a infarcire un set danzereccio da cui di più non si può chiedere, c’è spazio anche per la nuovissima “Get Away” che poco ci mette ad appiccicarsi come nastro adesivo alle nostre menti.

La combinazione che chiude questa seconda giornata è di quelle dei sogni. St. Vincent è ormai in tutto e per tutto una popstar di livello mondiale. Dimenticatevi la folker degli inizi, David Byrne l’ha cambiata (in meglio) e l’ultimo, omonimo, album sta lì a testimoniarlo. Certo la sua musica non è semplicemente catalogabile come “pop”: chiamiamolo art-rock, ma tant’è. Non è questo il punto.
Il mutamento di Annie Clark ha davvero del sorprendente: una sorta di strega post-moderna, sexy e ammaliante, capace di graffiare e sedurre insieme. Sul palco non più (solo) una questione di musica, ma un’esperienza a 360°: ci sono i balletti coordinati con la tastierista, c’è il monologo ispirato, ci sono le movenze di chi sa di essere una diva e di potersi permettere un po’ di fare ciò che vuole. Se poi, come nel suo caso, ci metti di mezzo la capacità di scrivere grandi canzoni, ecco che il quadro si può definire completo. Poche, pochissime artiste sono in grado di coinvolgere e attirare un pubblico così trasversale come St. Vincent.

Tutto il contrario i Belle & Sebastian, immutabili nei secoli dei secoli fin tanto che il registro rimane quello del vecchio repertorio. Difficile non sciogliersi su “Fox In The Snow”, impensabile rimanere immobili su “The Boy With the Arab Strap”, come arduo è non empatizzare su “Like Dylan In The Movie” o i classicissimi “Sleep The Clock Around” e “Get Me Away From Here I’m Dying”. Ma quello che fa storcere il naso sono i nuovi pezzi - “Allie”, “Perfect Couples” e la già rilasciata “The Paty Line” - che andranno a costituire quello che molto probabilmente sarà il peggiore album della band di Glasgow. “Perfect Couples”, in particolare, è una suite senza capo né coda di oltre sei minuti, infarcita da tamburelli world-music alquanto imbarazzanti. Se poi ci aggiungete Stevie al cantato (diciamocelo, non è il suo punto forte) che si alterna tra refrain estenuanti e crooner disagiato, i presagi di un album flop si trasformano quasi in certezza.

La terza giornata si preannuncia difficile per due motivi: fare meglio della seconda è impresa quasi impossibile e inoltre l’orario allargato (dalle 4 del pomeriggio alle 5 di mattina) la rende una maratona difficile da sostenere. Ci perdiamo Jessy Lanza per un po’ di sano turismo parigino e arriviamo in tempo per assistere alla performance di Charlotte OC. La cantante di Blackburn dimostra grande personalità, esibendo una potente voce soul sopra un’elettronica minimale dal sicuro impatto. Una sorta di BANKS a basso profilo (per ora), che ha conquistato lo sparuto pubblico presente alla Grande Halle già dalle 5 del pomeriggio.

L’artista successivo è uno dei più attesi da chi vi scrive. Tobias Jesso Jr. è un songwriter canadese che scrive canzoni piano/voce talmente struggenti da far uscire il cuore dal petto. La sua è una storia particolare: dopo aver vissuto per anni a Los Angeles cercando di fare carriera come autore di canzoni pop, si è riscoperto compositore per se stesso una volta tornato nella propria casa (grazie alla complicità dell’ex-Girls JR White). Questo è il suo primo concerto di sempre, eccezion fatta per una piccola esibizione live eseguita per La Blogothèque un mese prima, e Tobias sembra in tutto e per tutto il nerd della porta accanto che si può vedere in qualsiasi commedia americana. Solo che questo è una specie di fenomeno lirico, uno di quelli destinati a fare successo.
Le sue canzoni parlano d’amore, rotture sentimentali, fallimenti. Molte di queste sono nuove per la maggior parte del pubblico, ma il silenzio che accompagna la sua esibizione è impressionante. Segno che Tobias ha rapito il cuore di tutti.

Cambiamento radicale con Kwamie Liv, chiamata a sostituire il forfait di un altro esordiente, Ben Khan. Beat elettronici minimali, bassi al massimo e una voce RnB importante indirizzano il mood verso le sonorità che caratterizzeranno la restante parte della giornata.
Gli australiani Movement sono i primi a raccogliere un'audience vasta quest’oggi. Il loro è uno di quei nomi segnati con il circoletto rosso dai lettori assidui di Pitchfork. D’altronde, questo trio dalle sonorità trip-hop/elettroniche, che si rifà nemmeno troppo velatamente a James Blake, merita ogni attenzione fin qui rivoltagli. E gran parte del merito va a Lewis Wade, tasterista e cantante del gruppo. Grande presenza scenica per lui, ma soprattutto voce pazzesca, estremamente comunicativa e capace di raggiungere picchi altissimi. A fine festival, quasi tutti piazzeranno quella dei Movement fra le migliori performance della tre giorni.

Gli ultimi scampoli di rock’n’roll ci arrivano dai Foxygen, band che con l’ultimo disco “...And Star Power” ha tolto la polvere da quel vintage-rock degli anni Sessanta/Settanta (Beatles, Stones, Elton John ecc.), cercando di riproporlo in una chiave più moderna. Operazione riuscita a metà e possiamo dire lo stesso anche della loro esibizione di questa sera. Accantonata tutta la ricerca melodica proposta nel lavoro in studio, i Foxygen danno vita a un set ultra-tirato e vivace, con tanto di coriste/ballerine come le rock band da stadio. Sam France è la versione 2014 di Iggy Pop, torso nudo e mosse da rockstar consumata. Si danna e cerca di galvanizzare una folla che lo segue solo a tratti, forse spiazzata forse da questo tipo di esibizione. D’altronde i piatti forti di questa terza giornata (la prima da andare sold-out) sono tutti di matrice elettronica e possiamo immaginare che questo non sia il pubblico migliore possibile per gli americani. Da rivedere.

Tune-Yards si presenta con una formazione particolarmente eccentrica: un bassista in stile nerd, una collega percussionista e due coriste della quali una è vestita da scheletro in puro stile Halloween fuori tempo massimo. Nonostante del precedente "w h o k i l l" si limiti a tre soli brani, prediligendo il pur valido Nikki Nack, l'esibizione è più che valida, arricchita dalle campionature vocali di Merrill preparate sul posto e spesso intervallata da balletti e stacchi che ci fanno ritornare alla mente quanto accaduto la sera prima con St. Vincent.

Josè Gonzalez è bravo. Con una chitarra acustica e una voce dolce è capace di ammaliare un pubblico vasto come quello del Pitchfork. Contro di lui ha giocato il timing con cui è stato inserito fra gli artisti in programma. In un momento in cui la tensione musicale andava in continuo crescendo, le canzoni acustiche di Gonzalez hanno ammazzato tutto il mood. Se capita dalle vostre parti, però, in un club dalle giuste dimensioni, non perdetevelo.

Hanno gioco facile successivamente i Jungle a ravvivare la platea. Ce li gustiamo dalle prime file, dove il pubblico si fa selvaggio e la voglia di muoversi è ora ai massimi livelli. I due producer inglesi Josh Lloyd-Watson e Tom McFarland si sistemano davanti a synth adiacenti, entrambi con chitarra a tracolla. Sono accompagnati da una band di sei/sette elementi, inclusi i coristi. Fanno quello che ti aspetti, ovvero far ballare la gente. Il loro electro-funk è senza sbavature, anche troppo fedele alla riproposizione in studio, ma i brani sono accattivanti e non si può restare impassibili ascoltando canzoni come “The Heat”, “Busy Earnin”o “Julia”.

Per il finale di festival si ritorna in ambiti elettronici come giovedì, ma la situazione è decisamente più pensata per danzare. Caribou è l'artista di spicco della serata: accompagnato da musicisti come lui in total white stile "Arancia Meccanica", propone l'esibizione con la quale va in tour di questi tempi, imperniata su "Swim" e sull'ultimo "Our Love": sarà stata l'atmosfera, il guest di Jessy Lanza in "Second Chance", la mossa a sorpresa dei palloncini colorati fatti scendere dal soffitto durante "Can't Do Without You" o l'alcol in corpo dei più, ma la folla è in tripudio e non ballare risulta impossibile.

Il seguente Four Tet raccoglie lo zoccolo duro di pubblico (in tutta verità meno di quelli presenti da Dan Snaith e soci) deciso a fare propria la notte: sarà una sciorinatura del repertorio dell'artista tirati fuori in cassa dritta che, senza stupire, vanno comunque a segno nell'intento di fare ballare gli astanti.
Decidiamo di rinunciare a fare mattina con Kaytranada e aspettiamo di vedere dunque solo Jamie XX, che non brilla nel suo set di personalità (e di personalismi, dato che anche la sua "I Take Care Of You" fa “stupore” sulla gente solo nei primi secondi sulle prime note, perdendosi dopo poco) per cui tagliamo a metà di esibizione lasciando il resto ai più di bocca buona.

In coda trovate il nostro video report in collaborazione con Going Solo: