26-30/08/2015

Flussi 2015

Flussi 2015, Avellino


Il festival

Avellino, piccola città campana, è il capoluogo della provincia irpina. Sembra che da qualche anno, da queste parti, sia stia assistendo a una sorta di risveglio culturale, nonostante gli innumerevoli problemi che attanagliano il Mezzogiorno. Questo fervore che anima le nuove generazioni, produce i suoi frutti già da un bel po’, ma solo recentemente i più lo stanno notando. Come non citare il MasFest o il Laceno d’Oro International Film Festival che pian piano pare stia ritornando agli antichi splendori.
Ma ad Avellino c’è soprattutto Flussi – International Media Arts Festival.

Manifestazione che nasce dall’idea di un gruppo di persone, di amici, appassionati alle nuove frontiere delle arti elettroniche e digitali, in tutte le loro declinazioni. Flussi è organizzato dall’associazione culturale Magnitudo, che è una sorta di collettivo/rete che cerca di raggruppare intorno a sé tutti coloro che sono interessati a portare avanti questo ambizioso progetto. La prima edizione si è svolta nel 2009 e da allora il Festival è sempre più cresciuto, la rete di collaboratori che partecipa all’organizzazione insieme ai membri storici dell’associazione Magnitudo si è infittita, i consensi sono aumentati e i risultati dopo tanto lavoro sono finalmente arrivati. Flussi ogni anno propone un tema, che vuole essere una riflessione sull’influenza e sulle conseguenze che le moderne tecnologie hanno sulla vita quotidiana. Viene proposto un punto di vista ben definito dal quale esplorare la cultura digitale, diffondendola a un numero sempre maggiore di persone, cercando di far prevalere l’aspetto umano su quello tecnologico, con il fine di far comunicare gli uomini attraverso le tecnologie e creare una connessione fra i Bpm analogici dei cuori umani e quelli digitali delle macchine.

È facile capire che c’è un filo conduttore a legare tutte le edizioni, dalla prima “Digital Transition” fino all’ultima tenutasi dal 26 al 30 agosto 2015. È un festival che non offre solo una quantità notevole di live set e dj set, quest’anno la line-up ha incluso ben 36 artisti i cui spettacoli sono stati suddivisi tra tre location ragguardevoli: l’Indoor Stage ovvero il Teatro Carlo Gesualdo, l’Esp Stage, cioè la Casina del Principe, pezzo di storia della città già dall’epoca dei Caracciolo, e infine il Main Stage, la grande terrazza sovrastante il “Gesualdo” che permette vedute uniche sulla città, dal centro storico, al castello longobardo, fino al parco regionale dei Monti Picentini. A prezzi davvero bassi (l’abbonamento è costato solo 20€, la prima e l’ultima giornata di festival sono state completamente gratuite, come lo spettacolo al Teatro Gesualdo e tutte le perfomance all’Esp Stage) Flussi ha proposto sei workshop. Tra tutti il più coinvolgente è stato “Conduction” del Maestro Elio Martusciello, che alla direzione di un’orchestra, composta dai più disparati strumenti, senza l’utilizzo di alcuno spartito, ha tentato di stimolare la creatività musicale dei suoi componenti cercando di snidare dall’Iperuranio note perfette e immutabili, altrimenti irraggiungibili ai singoli musicisti.
Non sono mancate come ogni anno le installazioni, ben otto, le più intriganti: “La Linea” di Mauro Ferraro, tributo all’omonimo cartone animato degli anni 70 che ha permesso a chi ci ha “giocato” di entrare a far parte del mondo dei cartoon, e “Kitchen” di Rino Petroziello, che attraverso un connubio tra analogico e digitale ha esplorato le frequenze di stoviglie e alimenti, cercando di dar risalto alla dimensione uditiva, spesso tralasciata in cucina.

Flussi è anche attento al sociale, dalle passate edizioni con workshop estesi alle fasce più svantaggiate, e con la “Conduction” di quest’anno, aperta a persone e musicisti con disabilità.
L’essenza della settima edizione di Flussi, festival internazionale di musica elettronica e arti digitali, giunto ormai alla sua consacrazione, è tutta racchiusa in una sola parola. Realityvism. Come si legge dal sito della manifestazione “La cultura digitale, è ormai da molti dichiarata se non morta quantomeno in profonda crisi o di fatto transitata nella sua fase post–… Ormai è chiaro, le macchine digitali che usiamo per creare, comunicare, espanderci sono esattamente le stesse che ci posizionano in un quadro di sfruttamento ed estrazione di valore di cui a malapena percepiamo l’esistenza e i confini. Realityvism, a cento anni dalla teoria della relatività, è piuttosto un’idea di realismo radicale, di un materialismo spinto in cui l’uomo non è più misura di tutte le cose, e le cose (se prese sul serio) ci rivelano le molteplici singolarità del Reale, un universo–mondo paradossale, selvaggio, contraddittorio, che nelle sue pieghe, nei glitch, nei mille piani, offre ancora ampi spazi di resistenza ai processi di anestesia e omogeneizzazione prodotti dagli algoritmi del potere”.

La cronaca

È il 26 agosto, l’atto inaugurale del Festival è alle porte. Sono le 20.50 e sono in ritardo di mezz’ora. Fortunatamente trovo parcheggio a poche centinaia di metri dall’ingresso del Teatro Carlo Gesualdo, location d’occasione. Non c’è ressa, il tempo di far accomodare gli ultimi arrivati e si spengono le luci. L’organizzazione era stata chiara, alle 21 in punto si comincia: riescono a sforare di un solo minuto. Non verrà registrato il sold-out, ma le poltroncine non occupate saranno davvero poche.
Ad aprire la prima giornata del festival è Herman Kolgen, artista che vive e lavora a Montréal, in Canada. È un personaggio dalla carriera ultraventennale, conosciuto per le sue creazioni multimediali. Definito nell’ambiente come “a true audiocinetic sculptor”, plasma le sue opere con l’intento di far convergere in una sintesi carnale, spirituale, sinallagmatica il suono e l’immagine. Il risultato è straordinario, raro per qualità e singolare per estetica. La sua esibizione viene introdotta da uno speaker che preannuncia un set composto da tre atti, senza alcuna pausa.

Il primo atto è “Dust”, opera che si rifà alla fotografia di Man Ray e Marcel Duchamp e in particolare a “Élevage de poussière” del 1920. Nei primi 35 minuti dell’esibizione vengono esplorati i cambiamenti nello stato della materia. I pigmenti sono sospesi attorno a un campo magnetico. Scontri fortuiti danno vita a reti fibrose e oggetti compositi, ipnotici nella loro complessità. Le particelle sonore sono indissolubilmente accoppiate con aggregati luminosi in un ordine di cose che annulla tutti i punti di riferimento. È un’esplorazione del visibile e dell’invisibile, dell’udibile e dell’inaudibile. Si passa da immagini della materia nella sua dimensione più impercettibile a occhio umano ad altre, di oggetti e corpi in putrefazione, seppur ben visibili, mostrate da prospettive inusitate. Il suono manca categoricamente di melodia e a tratti di ritmo, peculiarità che ha caratterizzato anche il resto dell’esibizione, se non in un fugace e illusorio passaggio verso la fine di “Dust”, quando la materia senza vita mostrata durante tutta la prima parte dello spettacolo va a congiungersi con dell’acqua, la quale sembra poterla resuscitare. Ma una risposta definitiva l’artista non la dà, forse nemmeno c’è. Il primo atto si conclude riportando lo spettatore alla materia mostrata all’inizio dello spettacolo, la quale a sua volta ha preso forma e una sua “vita”, dando origine a quello che può sembrare un agglomerato di raggi X.

Il secondo atto è “Aftershock” , ispirato dalle conseguenze degli sbalzi nella forma di figure geometriche che non dipendono più dal concetto di misura, ma sono legate a problemi di deformazione delle stesse. Il canadese esplora scenari post-apocalittici, ricordano i paesaggi di film come “Mad Max”, nei quali però non viene data alcuna possibilità di sopravvivenza al genere umano. La terra è contaminata da scorie nucleari e sconvolta da brutali eventi sismici, è la “cartografia della rottura”. Le strutture sopravvissute all’uomo sono in declino, instabili, se sono riuscite a sfuggire alle loro fondamenta fluttuano nell’atmosfera, gli equilibri geo-fisici del pianeta sembrano essere irreparabilmente compromessi, la Terra ha perso la sua gravità (coincidenza buffa quanto singolare, il simbolo di Flussi 2015 è una mela). Quindici minuti di catastrofe.

La performance si conclude con “Seismik”. Per questa parte dello spettacolo Kolgen utilizza un software, di sua creazione, che registra campi magnetici e l’attività sismica, tramite degli strumenti posizionati dinanzi la sua postazione, ben evidenziati, nel buio del palcoscenico, dalla luce dei proiettori. La peculiarità è data dal fatto che questi segnali a ogni live sono differenti, perché intercettati dal vivo. Ad ogni spettacolo “Seismik” è sempre diverso e la performance avellinese è stata caratterizzata da segnali provenienti da Indonesia, Honduras e Alaska. I segnali captati vengono convertiti in un suono astratto e implacabile. È una inesorabile e drammatica discesa nel sottosuolo, nelle macerie di quel che rimane della materia e della Terra. In questa visione distopica, l’unica forma di vita sembra essere data dalla collisione delle onde generate dai campi magnetici, che ormai dominano il pianeta. È un atto che invita il pubblico del Teatro Gesualdo, in quasi quarantacinque minuti, a fare un salto nell’ignoto, il canadese gioca con concetti fisici, creando una tensione celebrale ed emotiva, che lascia gli spettatori senza fiato.
Quello di Herman Kolgen, ritornando al concetto di “Realityvism”, è stato sicuramente lo spettacolo che ha maggiormente coinciso con esso attraverso una riflessione, che non ha imposto alcuna morale su quelle che potrebbero essere le conseguenze del “mondo moderno”. Termina con cinque minuti di applausi scroscianti di un “Gesualdo” in estasi e con l’artista, forse anche un po’ sorpreso, che ringrazia vivacemente.

La prima giornata di Flussi è stata anche quella che ha dato il via alle esibizioni al Main Stage, la terrazza del Teatro Carlo Gesualdo. Dalle 23 si sono esibiti i Jealous Party con la loro “punca”, duo formato da Mat Pogo e Roberta WJM, che nasce a Firenze nel ’95 e si è stabilito ormai da diversi anni a Berlino. Il loro live è caratterizzato musicalmente dalla sperimentazione e dall’improvvisazione, c’è il funky, l’ r&b, l’error music, il noise. Ma soprattutto c’è Matteo ad attirare l’attenzione del pubblico con la sua fisicità, i suoi balletti, le urla e gli interrogativi posti durante il live, con i quali tenta di instaurare una sorta di dialogo con gli spettatori. Il primo giorno di festival si conclude con la performance di SendeFlos, trio composto da Stefano Moretti (Sender) che gestisce i sintetizzatori analogici e le drum-machine e il duo dei Flos (Stefano Castagna e Luca Formentini) che intessono melodie attraverso particolari strumenti di loro creazione, strumenti classici e vari modi di processamento del suono. La loro esibizione risulterà quella più emotiva e intima della prima giornata di Flussi 2015.

Il 27 agosto dà il via ai set all’Esp Stage. Spesso le sorprese del Festival sono proprio gli artisti che si esibiscono nell’intimo cortile della “Casina”. In scaletta ci sono i White Noise Generator, Alessandra Eramo e infine John Duncan. Quest’ultimo è tra i massimi esponenti della “sound art” e da più di un ventennio sonda i limiti psicofisici dell’individuo attraverso registrazioni elettroacustiche, installazioni sonore e performance art. Il suo set è ricerca esistenziale, metafisica. Alle 22 è previsto l’inizio delle esibizioni al Main Stage, fatto l’abbonamento (il braccialetto è fantastico) e superate le porte d’ingresso, mi dirigo verso il palco che domina la terrazza, il parterre è molto ampio tant’è che gli organizzatori hanno pensato bene di disporre delle poltroncine che sembrano quasi un’installazione. Di fronte alla terrazza sorge Palazzo De Conciliis, più noto per il periodo in cui vi dimorò a inizio ‘800 Victor Hugo, su una delle sue facciate, che sembra essere stata progettata ad hoc, vengono proiettati per tutta la durata del festival dei visual che letteralmente incollano alla balaustra della terrazza chi li osserva. È la serata di Gondwana, all’anagrafe Andrea Taeggi, che da qualche anno vive a Berlino ed è anche membro dei Lumisokea. Il suo set si basa sull’improvvisazione, sono vari gli elementi che lo caratterizzano: suoni elettro-acustici, strutture techno, ritmi espansi a tratti accelerati. Sento l’influenza dei lavori di Ben Frost. Quello che va a creare è un ambiente oscuro, ipnotico.

Subito dopo è il momento di Janek Schaefer, che durante il suo live utilizza vinili modificati, sorgenti sonore dal vivo e shruti box. Anche questo è un live set caratterizzato dall’improvvisazione dell’artista, che dà vita a un paesaggio sonoro evocativo.
Leafcutter John è il progetto solista di John Burton, membro anche dei Polar Bear, che non appena salito sul palco cattura l’attenzione dei presenti. Alle sue spalle, dove si solito ogni artista è accompagnato dai visual, vengono proiettate le immagini della sua strumentazione. Si serve di una sorta di Theremin versione 2.0 da lui ideato, l’input alla macchina non è dato dal movimento delle mani, ma dalla luce proiettata verso essa. Impugna delle luci al led che nelle sue mani danzano: a ogni cambio di colore di queste e dei suoi movimenti, il suono cambia. Interagisce anche col pubblico, al quale chiede di puntare i flash verso la sua strumentazione e chi gestiva il mixer non se l’è fatto ripetere due volte, contribuendo a dar vita allo spettacolo del londinese attraverso le luci stroboscopiche.
Chiude la serata NHK’ Koyxen, la sorpresa di questa giornata. Giapponese, vive tra Osaka e Berlino. Il suo è un set ritmico, si basa su bassi dal suono elettronico, si avverte l’influenza del big beat e della scena inglese di inizi anni 90. Ballano tutti e lui indossa degli occhiali 3D: avrà rivisto “24 Hours Party People”.

Terzo giorno di festival, 28 agosto, il giorno più atteso. All’Esp Stage sono di scena Radford Electronics, Michael Vorfeld e Dave Phillips. Non riesco a seguirli, non posseggo ancora il dono dell’ubiquità, controllo pure se per caso è stato inserito nella App “InFlussi” che l’organizzazione ha messo a disposizione per l’occasione, niente. Mi dicono che si stanno attrezzando anche per questo. Le strade attorno al centro storico preannunciano che ci sarà una grande affluenza, al Main Stage sono puntualissimo. Già dalle porte si avverte che l’aria è leggermente diversa rispetto agli altri giorni, il parterre è quasi pieno sin da subito, il “total black” la fa da padrone.

La serata è aperta verso le 22.00 dagli Ossatura, gruppo storico italiano, pionieri della musica d’avanguardia. Si esibiscono servendosi di una batteria, una fisarmonica ed è lo stesso Elio Martusciello del workshop “Conduction” a occuparsi della strumentazione elettronica. Dopo tocca a un altro italiano, Giulio Aldinucci. Quello del sacro è il tema portante del suo set, esplorato in tutto il suo ultimo album, primo italiano a cimentarsi in questa sperimentazione. Il suo è un ambient elettroacustico, può essere paragonato ad artisti del calibro di Lawrence English e Tim Hecker. Quando la sua esibizione termina, sono passate da qualche minuto le 23 e il pubblico inizia a spingersi sempre più sotto al palco. Io non sono da meno e con un’amica riesco a prendere posto nel centro nevralgico della terrazza, che da lì a breve diverrà la bocca dell’inferno. Salgono sul palco i Retina.it, il pubblico già applaude. Il duo napoletano è composto da Lino Monaco e Nicola Buono. Nella loro carriera hanno esplorato diversi generi: dub, wave, elettronica d’avanguardia, techno. Il loro suono è ricercato, è un lavoro artigianale che parte dal basso, sono dei feticisti del sound arrivando perfino costruirsi i synth modulari di cui si servono per le loro opere. Utilizzano i synth con estrema facilità: per essere un pioniere in questo campo, non puoi accontentarti di un suono che è frutto di un “compresso” con un software o di un preset standard.  La discesa nell’Ade ha inizio. La performance sprigiona vibrazioni oscure, le linee di basso sono costanti, sferzate costantemente da synth, distorsioni, accordi metallici, delay e riverberi. Ma non cedono. È techno. Mettono in scena il loro ultimo Ep “De Occulta Philosophia Vol.1”, che sembra essere improntato alla ricerca di una spiritualità perduta. Siamo ad Avellino, non a Benevento, il Sabba ha luogo lo stesso. Nicola in una vita precedente sarà stato un alchimista, Lino uno sciamano. All’acme della performance Lino, evidentemente in contatto con una divinità, si fa prendere da un movimento di mano che sprona ancora di più la gente a ballare. Per dirlo alla maniera degli Oppenheimer Analysis, eravamo “The Devil’s Dancers”. È stato un set bellissimo, forse sarebbe stato addirittura il caso di far chiudere a loro la serata.

Poco più di un’ora e la discesa è compiuta, siamo giunti al punto più basso degli inferi. Siamo giunti dinnanzi a sua maestà Samuel Kerridge. Samuel è un produttore britannico, di Manchester, di cui non è nota la fede calcistica, ma sarete tutti d’accordo con me che i Red Devils fanno più al suo caso. Dal 2011 si è stabilito a Berlino. Pubblica il suo primo album nel 2013, “A Fallen Empire”. A inizio 2015 l’etichetta “Contort”, di cui è uno dei fondatori, pubblica il suo secondo lavoro: Always Offended Never Ashamed. Dallo stesso Kerridge viene definito come una evoluzione naturale del suo concetto di musica. Se il primo album è inquadrabile nel variegato mondo della techno, il secondo se ne distanzia leggermente subendo le influenze dell’industrial, del noise e della dark-ambient. Ha cercato di dare più spazio agli elementi che compongono i suoi brani, facendoli respirare. È un lavoro che mostra maggiore controllo, più ricercatezza, esalta maggiormente il carattere “heavy” dei suoi pezzi. Il live set che ci propone avrà le stesse caratteristiche. Samuel prende posizione dietro la sua postazione al centro del palco, lo spettacolo ha inizio.
Si avverte all’istante l’esaltazione della potenza e della violenza. Pochi minuti  di esibizione e si fionda a dare un’aggiustata alle spie, credendo che fossero posizionate male. Accertatosi che non c’è alcun problema con queste, chiede di aumentare i volumi dell’impianto. E fa bene. Da quel momento in poi le casse non hanno trasmesso più musica, ma hanno iniziato a eruttare un magma nero da squarciare il petto. Il pavimento traballa. Di tanto in tanto una chitarra fatta risuonare dall’artista sembra implorare pietà. Siamo tutti richiamati all’ordine attraverso le indicazioni che ci vengono impartite dall’inglese attraverso un microfono che ha più le sembianze di una trasmittente militare, le quali vengono poi campionate e ritrasmesse indefessamente, come se stesse per arrivare il Giorno del giudizio. Ci sorvola un Mig sovietico, inseguiva un bombardiere americano. Sembra che qualcosa stia per accadere, che quell’ apocalittico equilibrio stia per spezzarsi, ma non accade niente, non c’è una virata verso i ritmi più consoni alla techno, è la strategia della tensione, il muro non è ancora caduto, è guerra fredda, si spera non finisca mai.

Purtroppo lo spettacolo finisce, il pubblico è con le spalle al muro, è stato tanto straniante quanto bello. La serata è finita, la giornata tanto attesa non è stata inferiore alle aspettative, anzi. Cerco con i miei amici di strappare una foto a Samuel, ci riusciamo e scambiamo anche due chiacchiere. Ci dice che del festival gli avevano parlato bene già a Berlino, lo ha impressionato la location e ci confessa che avrebbe voluto suonare un altro po’.

Il 29 agosto il programma dell’Esp Stage propone: Andrrzej Zaleski & Aspec(t), Ute Wassermann e Erikm. Si continua a parlare della serata precedente e al Main Stage la situazione non è tanto diversa. Seguo gli spettacoli di Mia Zabelka e di John Chantler & Stefano Tedesco, sdraiato sui divanetti in fondo alla pista: si sta bene e il cielo è uno spettacolo, c’è la luna piena.
Alle 23.30 è il turno di Tok Tek, e dalle immagini dei suoi strumenti proiettate sullo schermo in fondo al palco è difficile capire cosa stia per fare. È lui stesso a costruirli o a modificarli, per queste ragioni è stato definito “illogical hardware bending”. C’è di tutto sulla sua postazione: un giradischi con una bambola al centro che rotea in maniera inquietante, giocattoli, una diamonica, microfoni e due joystick che sono il pezzo forte della sua collezione. Anche questo set è pura improvvisazione, l’artista alterna momenti di quiete assoluta a ritmi frenetici.

A chiudere la giornata è  un altro artista molto atteso: Edwin Van der Heide. Il parterre viene invaso dal fumo, sarà funzionale allo spettacolo dell’olandese, per la prima volta di scena nel Sud Italia. Il suo set si chiama “Laser Sound Performance”, i laser proiettati nel fumo sono frutto delle onde sonore che invadono la pista. Le loro luci percorrono tutto lo spettro cromatico e danno vita a cangianti forme, è la rivoluzione del visual che grazie a questa combinazione di suono, laser e fumo è in 3D. A un tratto mi sembra di vedere proiettata la copertina di “Unknown Pleasures”. Straordinario.

È il 30 agosto, quinto giorno di festival, l’ultimo, e all’Esp Stage i set iniziano prima del solito. Alle 12 si parte. C’è Vincenzo Giordano, seguito da Mariano Sibilia, che è l’unico musicista avellinese compreso nella line-up di Flussi 2015. Da che io ricordi, nonostante la sua giovane età, è del ’92, suona da sempre. Animato dalla passione per la techno e per le nuove tecnologie, è riuscito a farla fruttare e ad approfondirla attraverso gli studi al Conservatorio Cimarosa. I suoni brani sono stati inclusi nelle tracklist di artisti degni di nota, uno su tutti Adam Beyer. Set davvero interessante, rispetto agli inizi i Bpm sono sensibilmente calati e la linea ritmica è spettacolare, mi ricorda vagamente quella di “Silent Shout” dei Knife.

Dopo un’ora è il turno di Mogano, un suo pezzo, “Anunnaki”, è stato addirittura remixato da Kerridge. Set rilassante, una bambina di pochi mesi gioca con noi, ci fanno stare bene. L’età media della line-up si aggira attorno ai vent’anni, altro atto di coraggio dell’organizzazione. E mentre Mogano sta per terminare la sua esibizione, per il cortile dell’Esp Stage si aggira un altro giovane artista che sta preparando minuziosamente la sua postazione. Si tratta di Dylan Iuliano, venti anni, il suo progetto si chiama The Delay In The Universal Loop. Ha all’attivo già due album e un tour negli Usa e nell’Europa del Nord. Il suo show è sacro e profano, è nostalgia, sole, eternità, sintetizzatori, vocalizzi, meches verdi. Gli succederanno NISE, sabotatori del suono napoletani, E-COR ENSEMBLE e il maestro Elio Martusciello con la “Conduction”.

Dopo esserci spostati per l’ultima volta al Main Stage, assistiamo allo spettacolo di Caterina Barbieri, basato su sintetizzatori modulari e voci, e a quello di DRØP & FAX. Il duo composto da Andrea Bifulco e Andrea Familari dà vita a un set evanescente, caratterizzato da microsound, ritmi epilettici e glitch, i visual di loro creazione sono magnetici.
Verso le 23 prendo un volo per Marrakech, mi ritrovo alle tombe Sadiane nella Medina bassa, supero il deserto nordafricano, trovo ristoro nei mercatini di Zanzibar. Decido di attraversare lo Stretto di Suez, visito la Gerusalemme vecchia, percorro la Via Regia di Madaba, navigo il Tigri e l’Eufrate. Giunto in Iran entro nella moschea di Shan-e-Cherah Shirne e mi perdo nei templi della Valle dell’Indu. Nella giungla indiana vedo gli elefanti e cavalco le tigri. Il Taj Mahal con i suoi minareti mi cristallizza. Raggiungo la vetta dell’Everest. Domino il mondo. Tutto in poco meno di un’ora, grazie a Petit Singe e al suo set incredibile, che mescola i suoni digitali delle moderne tecnologie, soprattutto per le sezioni ritmiche, con melodie afro-orientali. Per me è stata la più bella scoperta della settima edizione di Flussi.

Tornati sulla terrazza del “Gesualdo” ci prepariamo per quello che sarà l’atto conclusivo del festival. C’è Luciano Lamanna alla console, tecnico del suono, fondatore e direttore di “Love Blast”, resident dj a LSWHR. Parte subito fortissimo. È “Musick”. Il set è dato da una combinazione di vinili, strumenti analogici e sperimentazione, insieme che permette variazioni in grande stile su pezzi storici. Come non riconoscere” The Bells”, uno dei punti più alti del set, che è stata stravolta. Un’ora e un quarto e l’esibizione finisce, il pubblico chiede il bis, Lamanna ci accontenta. All’1.30 viene emessa l’ultima nota.

Anche per quest’anno Flussi è giunto alla sua conclusione, sono state giornate intese, concepite in modo che gli spettacoli serali fossero “solo” atti conclusivi. Come ogni anno, gli organizzatori sono riusciti a mettere su una line-up molto variegata, ricca, non banale. Flussi non punta a nomi “riempi-club”, i membri dell’associazione Magnitudo cercano di scovare e proporre quelli che saranno i talenti del futuro. Un esempio su tutti sono i Mount Kimbie: si esibirono a Flussi nel 2010 e non li conoscevo. Nel 2014 me li sono ritrovati tra i big al Berlin Festival. A Flussi c’erano persone che hanno percorso chilometri e chilometri per raggiungere il festival, perché una simile offerta non l’hanno riscontrata altrove, altre che non conoscevano nemmeno un’artista ma che erano presenti perché curiose di conoscerne di nuovi.
Già si freme per la prossima edizione, grazie Flussi e a presto!