26/05/2015

Grouper

Villette Sonique, Parigi


C'ho messo un mese per capire se avesse senso condividere quattro parole su una cosa così intima. Quel poco che leggerete è stato scritto il 27 maggio. Non avrei mai creduto che si potesse interiorizzare a tal punto un concerto, che questo potesse segnare in un certo senso una tappa della propria vita. Ecco, è accaduto.

Scrivo dall’aereo che mi sta riportando in Italia. Siedo vicino all’ala destra, le nuvole si spargono in maniera disordinata e il tonfo sordo del motore mi pare la perfetta nemesi del motivo per cui, in 24 ore, sono volato a Parigi e dalla Francia sono tornato indietro. E’ esattamente con questo suono che annichilisce che Grouper mi ha devastato. E mi pare quasi che il concerto di ieri sera, in fondo, non sia mai finito. Non credo di poter descrivere a parole la tensione e l’ansia che mi hanno assalito nell’immediata vicinanza della serata.
Un’amica mi riferì che lei fosse stanca di suonare, della musica. Il tour europeo degli ultimi due mesi, con date sparutissime e che non comprendevano l’Italia, mi ha fatto ampiamente valicare il limite di fangirl da boyband: controllare compulsivamente aggiornamenti dell’agenzia di booking, scrivere mail, creare feed appositi per l’aggiornamento costante su ogni minimo soffio si potesse levare a riguardo. E’ così che mi sono reso conto di come prendere l’aereo per andare in un altro stato e fare ritorno, il tutto in meno di un giorno, non solo fosse una cosa giusta, ma proprio necessaria.

Da anni mi sposto per i concerti, tuttavia un’urgenza tale non la avvertivo da molto, moltissimo. Così accade che di Sun Kil Moon, spalla validissima - soprattutto per il passato: leggi alla voce Red House Painters - con tanto di Neil Halstead degli Slowdive alla chitarra, non me ne fregasse nulla. E per quanto il suo concerto di un’ora e mezza scorra via benissimo (e ben oltre le aspettative) con il suo personalissimo folk-pop-rock senza tempo, ecco mi sono accorto che è come se in quel momento fossi assente.

Liz - questo il nome di Grouper - aveva già suonato, 53 minuti esatti. Scalza, seduta sul palco a gambe incrociate, imbracciava una chitarra manipolando pedaliera e loop station. Un gigantesco telo la sovrastava alle spalle, lì venivano proiettati gli stupendi impalpabili visual preparati ad hoc per l’esibizione. E via con un flusso costante, ininterrotto, solcato da parole, con tape recordings a legare i brani. La devastante “Clearing” riadattata per chitarra, echi di voci in sovrapposizione a creare cori venuti da altri mondi, la lacrimevole coda di “Made Of Air” reiterata all’infinito. Le parole sussurrate al microfono, una nenia al rallentatore che, se davvero nel mondo ci fosse giustizia, non sarebbe dovuta finire mai.

Drones gravitavano a mezz'aria, ora minacciosi ora lievissimi. Il peso dell'hauntology, del giallo delle fotografie, dei muri scrostati dal tempo era tutto lì. Sgranare gli occhi, trattenere la commozione (bugia), mani nei capelli e rendersi conto che quello che è stato un rito privatissimo in realtà s’è rivelato universale. Il silenzio attorno e fattualizzare che tutto era finito. Poi ora, in aereo, e accorgermi che in realtà nella mia testa il tutto di ieri sera continua a gravitare. Accorgersi che lì c'era la mia stella polare. Se la memoria avesse un suono.