08/12/2015

Kelley Stoltz + Dirty Ghosts

BlahBlah, Torino


La creatività pop non va mai data per spacciata. Può inaridirsi sino a diventare un rigagnolo miserabile. Può intorbidirsi e farsi stagnante come la peggiore palude. O può semplicemente continuare a scorrere sotterranea, invisibile agli occhi e intercettata in maniera molto relativa solo dall’intuito, pure poco a suo agio nel cercare di farsi dar credito. Prima di constatarne il decesso, ad ogni modo, ce ne passa, gli indizi da soli lasciano il tempo che trovano e, anche in presenza di prove fatte, la cautela si conferma uno strumento d’indagine non prescindibile.

Prendiamo il caso dell’eternamente irrisolto Kelley Stoltz. Se c’è un insegnamento che si può facilmente trarre dalla sua parabola artistica è che con certi personaggi l’ultima parola non è mai detta. Troppo presto lo si è liquidato come una bella promessa che però non sboccia mai, uno di quei talenti che con la loro fragilità congenita intrigano e indispongono in egual misura, e quando riescono convincenti sembrano farlo apposta per il solo gusto di smentirsi al giro successivo. Questo vale ovviamente solo per chi un po’ di fiducia gliel’abbia accordata, visto che non è mai mancata – anche su queste pagine – la fazione di coloro che nel cantautore girovago, oggi di stanza a San Francisco, non hanno visto altro che un bluff tirato su con niente, una figurina di contorno nel presepe del derivativo o un famelico seguace del lennonismo più trito alla mensa dei revivalisti anonimi. Commenti ingenerosi per lo più, per quanto resti indubbio che questa sorta di leader informale della primavera garage della Bay Area, nonché alfiere di punta di quella scuola immaginaria e non solo americana del retro-psych-pop (dove esercitavano la libera docenza anche Richard Swift e il britannico Jim Noir), avrebbe potuto e dovuto dire la sua con maggior costanza e convinzione.

 

220x270_iv_04Anche il più benevolo dei critici si sarebbe guardato bene dal puntare ancora il proverbiale decino sul suo nome, a dirla tutta un po’ sparito dai radar da quando la Sub Pop scelse di dargli il benservito, nonostante un’apparizione da cometa di Halley nel cielo blues della Third Man Records di Jack White. Come talvolta capita in casi simili, dal buio di un anonimato che pareva inesorabile condanna è giunta insperata l’opportunità dell’ennesimo rilancio della carriera, concretizzato da uno sforzo su più fronti compiuto nell’arco di un paio di mesi, alla fine di questo 2015. Tralasciando il dispensabile album-burla intestato allo squinternato alias “Willie Weird”, la grande sorpresa è arrivata con l’ottavo lavoro ufficiale, quel “In Triangle Time” che segna il debutto del nostro alla corte di John Dwyer in Castle Face, di fatto un’inversione nelle gerarchie rispetto ai tempi in cui i Thee Oh Sees si affidavano a lui per farsi produrre dischi come “Sucks Blood”. Non è un apparentamento da poco, e non è casuale. La comunione di spiriti e le affinità si sono fatte più profonde, e un’opera amabilmente sfarfallante come “Castlemania” torna più di una volta alla mente. Certo il nuovo di Stoltz è anche molto altro, un fantastico viaggio senza ritorno nella follia galoppante e un gioco quasi autistico con le forme del pop psichedelico, ma quando ci presentiamo al BlahBlah di Torino per la prima di quattro date italiane del suo nuovo tour, la sera del giorno dell’Immacolata, di tutto questo siamo all’oscuro: appena un paio le nuove tracce reperite online, troppo poco per farsi un’idea e cogliere la misura dello smottamento espressivo compiuto in studio.

 

220x270_ii_06C’è anche un altro dettaglio che ignoriamo, varcando l’ingresso del club di via Po. Prima dell’anomalo cantastorie nato in Michigan toccherà sciropparsi l’ennesimo gruppo spalla, prospettiva di per sé non proprio entusiasmante alla vigilia di un comune giorno lavorativo. Giunti all’appuntamento con la sola certezza di quella manciata di canzoni datate che Kelley, presumibilmente, suonerà come quasi sempre, non abbiamo la minima idea di come le porterà in scena, se in versione intimista e acustica o più movimentata e quindi elettrica, solo come un cane o accompagnato da qualche collega che, con ogni probabilità, non abbiamo mai sentito nominare. Mentre inganniamo l’attesa fuori dal salone, sono numerose le voci che sentiamo discorrere fluentemente in lingua inglese, maschili e femminili. Che si tratti di forestieri non è in discussione, ma siamo orientati a inquadrarli come semplici collaboratori quando le due ragazze del ristretto circolo prendono a fare il lavoro sporco, allestendo alla meno peggio un banchetto per il merchandising. E’ a questo punto che restiamo spiazzati da un particolare: dell’artista di casa in California scorgiamo solo l’Lp licenziato con il moniker farlocco, perché – recita laconico un comunicato – gli altri vinili (o cd che siano) sono sold-out; il grosso dello spazio è quindi riservato ai due album e alle t-shirt con l’intestazione Dirty Ghosts, e qui un po’ di sana curiosità se non altro fa capolino. Mentre scorgiamo Stoltz in mise eccentrica e sullo sbracato andante, drink in mano e occhiali da sole addosso, prendiamo posto ai piedi dello striminzito palco dove le due fanciulle ci hanno preceduto assieme a un energumeno che si siede dietro ai rullanti.

 

220x270_i_08Dirty Ghosts dunque. Solo a fine set scopriremo che si tratta di una formazione post-punk di San Francisco, con discrete recensioni – tra le altre – su Consequence Of Sound e Stereogum. Alla guida la più minuta (e più tosta) delle due tizie citate, la cantante e chitarrista Allyson Baker, nota alle cronache più che altro per un matrimonio fallito con Aesop Rock. E’ lei il motore di una band di pura sostanza rock, lontana anni luce da quella a guida synth e molto wave-oriented che incontreremo con nostro comodo a casa, quando ci si paleserà il buzzo giusto per concedere un giro di giostra ai due album di cui sopra, “Metal Moon” e “Let It Pretend”, oltre alle prime cose registrate dalla Baker con i Parchman Farm. Certo sono più le nuance bluesy di questi ultimi a farsi largo nella prova dal vivo del terzetto, con quella Fender così votata a una stilizzazione indie-rock smargiassa (del genere brevettato dalla Allison Mosshart dei primi Kills per intenderci) piuttosto che i Devo della prima fatica o l’electro-rock à la Trans Am della seconda, non per niente prodotta da Phil Manley. Per quanto non proprio originalissimo, l’inatteso antipasto si rivela una forma di intrattenimento non sgradita e ha l’indubbio merito di riportare scampoli di movimento nei nostri arti anchilosati dal troppo freddo immagazzinato in strada. Mentre il singolo “Cataract” e soprattutto la conclusiva “Ropes That Way”, unico recupero dall’esordio, fanno la loro brava figura, resta da appurare cosa questi Dirty Ghosts abbiano a che spartire con il signor Stoltz, a parte – lo scopriremo subito – il batterista. La risposta verrà solo dopo qualche giorno, quando scorgeremo il nome del peperino Allyson nei credits dei nuovi lavori del genietto della Bay Area (come pure nell’ultimo !!!).

 

220x270_vi_03E finalmente, anche per quest’ultimo arriva l’ora della verità live. Il riallestimento è limitato a pochi accorgimenti: la comparsa di una monumentale pedaliera per il frontman, di un piccolo sintetizzatore che toccherà in sorte alla seconda Dirty Ghosts, Erin McDermott, e di uno stravagante bassista che prende posto a fondo palco con il suo curioso, insolitamente piccolo, strumento. Ci si presenta con fare gioviale il quarantaquattrenne americano, aria da guascone impertinente che diventa una calamita evidentemente irresistibile per il giovane spettatore ubriaco, quello che di riffa o di raffa non deve mai mancare e che staziona sempre accanto al vostro sventurato cronista. Non lo hanno fermato, nello specifico della serata, la poca corda concessagli da Allyson ed Erin al giro precedente, quando il disturbatore ha dato tutto se stesso nelle moine sessiste, né la pinta di birra che ha mandato a fracassarsi sui nostri piedi. Imperterrito, rieccolo a ballare sigaretta alla mano e a ululare mentre il gruppo davanti a noi attacca “Fire Escape”, corista non richiesto dietro ogni esternazione del loquace Kelley (che appare sì su di giri ma non certo molesto). All’ennesimo latrato fuori luogo, sarà proprio il cantante, smessa per un attimo la maschera del buffone, a fulminare la cisti umana con uno sguardo inequivocabile e a ridurlo, incredibilmente, all’inoffensività. La squadra in pista al BlahBlah propone una forma di stralunato power-pop, e questo ci induce nell’errore di immaginare che l’indirizzo di “In Triangle Time” vi corrisponda per sommi capi. Quando tra un complimento alla “sorprendente Torino” e un candido inno all’amore universale ci vengono presentate due delle canzoni recenti e la formula non varia, l’equivoco si fa completo. Ad ogni modo, indubbiamente un bel sentire.

 

220x270_vii_03A smuovere ulteriormente le acque pensa quindi una terna di episodi dal precedente “Double Exposure”, album enigmatico e non riuscitissimo che a fine serata sarà di gran lunga il più rivisitato della corposa discografia stoltziana. “Rivisitato” non a caso, perché la stasi e le scabre atmosfere che lo caratterizzavano sono sconfessate dal clima generale assai vivace dell’esibizione. Se “Kim Chee Taco Man” e il brano che prestava il titolo al disco  (ricordo della classe di fotografia ai tempi del college, racconta lui) sono carpiati a ritroso nella mitologia new-wave, ma interpretati con piglio da novelli Long Ryders, “Marcy” torna a avvicinare l’ortodossia sixties e la grazia fragile rubacchiata ai Fab Four su cui Kelley ha costruito le sue pur modeste fortune. Va ancora meglio quando viene annunciato un pezzo da “quell’album niente male, ormai remoto” che sarebbe poi l’“Antique Glow” di cui si innamorarono alla Sub Pop. Sgasate, briglia sciolta e il passato sembra prendere definitivamente il sopravvento all’insegna di una (rumorosa) operazione nostalgia. E’ il momento perfetto, a quanto pare, per presentare alla cinquantina di presenti mal contati quel mattacchione impertinente di Willie Weird – nomen omen – sorta di orco sbiellato e lisergico che non richiede altri espedienti al di là di una messe di distorsioni e un microfono appositamente filtrato per conferirgli una grottesca voce da tracheotomizzato. Lo show trascolora in allegra farsa in un amen, giusto il tempo di imbracciare un sassofono da lillipuziani e mandare in onda una scimmiottatura etilica dei Devo. Tra le righe del pazzerello “The Scuzzy Inputs Of Willie Weird” si cela comunque qualcosa più che una semplice celebrazione del dionisiaco, e il senso emerge forte e chiaro qualche minuto più tardi, quando la combriccola sempre più ebbra si profonde con "riso che non si cuoce" alla lunga elencazione del pattume contemporaneo in “Garbage”, per poi intonare l’eloquente ritornello di “Don’t Let Your Dream Die”. Il tenore, scherzi a parte, è quello del mantra, la parentesi si rivela contagiosa e non banale come lo scaltro Kelley vorrebbe farci intendere. Il cuore del balordo Willie è placcato oro.

 

220x270_iii_04Per dare la misura di quanto bene la digressione abbia funzionato, basta segnalare che il frontman quasi in trance dimentica di disattivare il pedale e attacca “Are You My Love” nella stessa sfatta tonalità del suo alter ego pazzoide. Siamo tornati sui binari ma lo strappo vitalistico non verrà più riassorbito. Un secondo salto indietro al sottovalutato “To Dreamers”, con la ciondolante e liberatoria “I Remember You Were Wild” (in versione quasi Paisley Underground), apre la strada ai saluti finali. Per i quali, tuttavia, il capobanda non sceglie di affidarsi a una sua creazione, bensì a una trascinante cover di “Duchess” degli Stranglers. Niente più chitarra: microfono in una mano, calice di vino nell’altra, la chiusa è una festosa sarabanda dall’irriducibile sapore nostalgico, guidata dalla tastiera della McDermott e dall’elettrica di una Baker abbracciata dal Nostro a più riprese con fare da marpione. Per questa sera può bastare, in fondo è come se Stoltz si fosse sdoppiato per recitare (egregiamente) in due ruoli distinti. Chi aspettava di trovarsi al cospetto del delicato e ingenuo revivalista di “Below The Branches”, l’ex amatore che smistava la corrispondenza dei fan per Jeff Buckley, sarà uscito deluso. Nemmeno il giocoso delirio del nuovo “In Triangle Time”, ad ogni conto, ha trovato spazio. Quello intercettato stasera era qualcos’altro, né semplice via di mezzo, né provocazione estrema. La fotografia a esposizione multipla di un creativo pop dalle tante anime, uno che proprio non vuole saperne di passare per spacciato.

Setlist

Dirty Ghosts

 

Moving Pictures
Witch Hunt
Cataract
Hologram
Let It Pretend
Light Like Speed
Quicksand Castle
Battery
Ropes That Way

 

 

Kelley Stoltz

 

Fire Escape
Star Cluster
Litter Love
Kim Chee Taco Man
Marcy
Double Exposure
Are You Electric
Hot Igloo
Garbage
Don’t Let Your Dream Die
Are You My Love
I Remember, You Were Wild
Duchess

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