14/06/2015

Enzo Lanzo, Gianni Lenoci

Rassegna Dweto - Osteria Jazz Club Quattro Venti, Fragagnano (Taranto)


Gianni Lenoci – Enzo Lanzo: gli Architetti Bevitori d'Assenzio

Ad animare la scorsa estate, non solo di intrattenimenti o di salotti per pseudo-intellettuali a caccia di avventure nella nuova meta del turismo sessuale, il Salento,“Dweto” è stata la Rassegna musicale, consegnata dalla direzione artistica di Enzo Lanzo, a un pubblico di avventori del linguaggio della musica di confine, nella cornice del suggestivo Jazz Club Quattro Venti, a Fragagnano (Taranto). Duetti, appunto, per quanto l'assonanza del nome della rassegna, abbia giocato sul tema della primordialità degli spiriti delle culture animiste africane, che, come fantasmi, si affacciano alle nostre coscienze, nelle cronache di naufragi. Incontri musicali, nati da progettualità, che hanno avuto l'estro percussivo di Lanzo, presente in ciascun momento performativo, come comune denominatore e che andrà a definire un album, con le incisioni più significative, tratte dalle singole esibizioni, che han visto alternarsi, in singoli eventi, Gaetano Partipilo, Roberto Ottaviano, Mirko Signorile e per chiudere, Gianni Lenoci. Un articolo assai meditato questo, per lasciar spazio anche ad ascolti protratti delle produzioni discografiche dei due musicisti di cui, di seguito, si parlerà in sintesi. Ma anche un articolo che ha consapevolezza di come la musica di cui racconterò, non senza emozione, non abbia fretta. È già oltre.

È della serata, del 14 giugno 2015, che parlerò, considerandola spunto per tratteggiare i profili dei due protagonisti, compositori e performer, che da almeno due decenni, contribuiscono a ridefinire un linguaggio musicale, che dal jazz parte, ma che altrove giunge, interrogando alle radici il “parlar di nuova musica e il farla concretamente”.

Lenoci è titolare della cattedra jazz presso il Conservatorio di Monopoli. Profondamente legato al valore dell’evoluzione della musica e non alla tradizione, Gianni, è profondo studioso dei percorsi di Lacy, Morton Feldman, di Cage (eccezionali in materia, le due produzioni incise per la Amirani di Gianni Mimmo, la seconda a compendio della funambolica e sensibile “Nuova Vocalità” di Stefano Luigi Mangia), della musica classica che viene prodotta oggi, quando per oggi, s’intende l’anno 2016. Nella sua musica, c’è l’ascendenza più diretta del legame tra musica, poesia e vita come forma d’arte, che da Skrjabin in poi, ha trovato percorsi, solo apparentemente laterali alla percezione della forma, che si sarebbe sfaldata, più che nel serialismo, o nella rigida quanto drammatica, numerologia dodecafonica, nel puntillismo pittorico di Mark Tobey e che in musica, avrebbe raggiunto deflagrazione in Coleman, Ayler, Coxhill. Non solo, è vicino alla scena più progettuale del jazz nordeuropeo, che da Nate Wooley, Nels Cline, Kamasi Washington, Elliott Sharp, il compianto Derek Bailey, passa per Mats Gustafsson, FIRE! Orchestra, Colin Stetson e il sempiterno Brotzmann. È invece di quanto di più distante possibile, dal pianismo jazz popolare d’ascendenza post-moderna (Bollani, l’ultimo Signorile, Mehldau, Craine), quanto dal neo-tribalismo bartokiano di Virelles. Un intellettuale del jazz, dunque? Niente di più falso. La sua musica, fatta di nebulose, tasti d’avorio appena accarezzati in cascate luminescenti, che trovano completa autonomia rispetto al pianismo torrenziale di Cecil Taylor, corde nella cassa pizzicate, come nel suonare un’arpa a pedali, s’accende di una passione senza eguali, generando vortici percettivi che in un parallelo di pensiero associativo, neanche Turner, nei suoi gorghi di pigmento, ha rivelato.

Enzo LanzoDi contro, Lanzo, batterista dalla tavolozza assai ampia di sfumature, ha fatto della vitalità afroamericana più pura il suo racconto a fuoco. Dalla tradizione e il metodo, il batterista pugliese, si è spostato alla geometria kandinskiana, nella felicissima e matura scrittura per fiati di “Boastful Speeches”, secondo album solista e autentico capolavoro di nuovo jazz, seguito, all’eccezionale esordio “Rondonella”, che dalla sanguigna tradizione popolare musicale e verbale dei racconti (“li cunti”), dell’entroterra tarantino, approdava al free jazz e all’astrattismo jazz, per ensemble composto da strumenti tradizionali e auto-costruiti.
Nulla è mancato al percorso di Lanzo, il rock, il ricordo dell’esperienza Rock in Opposition (ben espresso nell’album “Tonante.Piango”, che dal ricordo anarcoide dei 70 trae linfa) e della scena canterburiana, la fusion, il grande amore per Paul Motian, per la mediterraneità più pura (lontana comunque da particolari interessi per la scuola sudamericana), come per i maestri est-europei, neanche una fortunatissima e lunga collaborazione con Larry Franco, che dallo swing ha mosso i suoi passi.
Il jazz di Lanzo è energia, sorriso, gioco serio e mai serioso, ma, come nella scrittura e nel metodo performativo di Lenoci, non deraglia mai nel fine a sé stesso, nel caos, che tante produzioni di Setola di Maiale, Improvvisatore Involontario, El Gallo Rojo hanno dispensato nell’ultima decade. È sempre presente una progettualità, ben espressa, tra l’altro, nel suo trattato “La Poliritmia nel Jazz”.

Lo scenario

Più che un'osteria,come Quattro Venti si autotitola, il luogo che accoglie l'evento, già memore della presenza del migliore panorama jazz italiano, teatro e musiche altre, ha il sapore, gli odori, i modi, di un'antica locanda. A contribuire, l'espressionismo pittorico su muri e tele, ad opera di Chiara Chiloiro, autentica trasposizione in chiave cromatico-materica del “sentire” free jazz e le visionarie tavole a inchiostro, dal sapore street-pop di Damiano Todaro. Stampe di Escher, accoglienza, buon cibo, vino e birra, preparano al meglio.

Il concerto

Dedicata alla recente scomparsa di Ornette Coleman, la scaletta si apre con “Black And Blue” di Fats Waller. Guida affidata a Lenoci. Chiara la capacità di definire geometrie che spaziano dal linguaggio jazz più tradizionale a una dimensione assai eterea, dove il riferimento tonale diviene più vago. A seguire, “Deadline (Lacy)”, uno dei momenti più alti dell’esibizione. Si esprime la volontà di creare una musica profondamente “bella”. Via via, il linguaggio free prende il sopravvento e ci si avvicina a un flusso che ha familiarità con la musique concrete e l’astrattismo informale di Pollock. Lenoci illustra territori che raggiungono davvero il parossismo tecnico/armonico, ben sposati a un Lanzo ispiratissimo, nella gestione di dinamiche camaleontiche. Dissoluzioni formali astratte si ricompongono in un mosaico dalla leggibilità melodica immediata, che non rinuncia neanche a un uso percussivo di tasti e pelli, di più diretta chiave afroamericana. C’è tanta poesia in questa interazione, epidermica, che eccita per alterità. Non solo Coleman, ma Schoenberg, Messiaen, condotti alle propaggini più subliminali, del “sentire e generare” suono.

La sequenza “Angel Eyes”/“Lonely Woman”, apre a una forma atonale ampiamente esibita, con altrettanto furore percussivo, ma si scioglie in breve in una astratta versione con cadenze blues, per mutare ancora in un delicatissimo romanticismo dal forte impatto emozionale. Lanzo dispensa energie con una ricchezza e varietà timbriche (e di accenti) davvero apprezzabile. L’essenza ora meditativa del pezzo si spegne gradualmente in soluzioni armoniche più parche di trascolorazioni, accendendosi, in ritmiche che tornano a dare fuoco. Lenoci disegna ragnatele impervie di suono, pari a schegge d’eruzione emotiva. “L’arte dell’elasticità dell’intervallo”, la si potrebbe definire. Nell’alternanza di tempo e spazio sonico, il semitono diviene sempre più vago e si percepisce pulviscolo. Nulla a che vedere con microtonalità e Oriente. È nuova mitteleuropa. È grande il disegno interiore appresso a questo flusso, che torna a definire una cosa, che è, certo, storia, ma che si sta perdendo dietro a necessità di consenso e auto-referenzialità: “jazz è auto-consapevolezza che diviene libertà”.
Per carità, ogni genere ha avuto i suoi eroi, con un carico appresso di manifestazione di “bravura”, ma più il tempo passa, più le opere jazz che rimangono nella memoria collettiva sono i grandi affreschi, dove è un disegno comune a definire i tratti di una bellezza che non cede passo al trascorrere dei decenni. Il percorso di note e pulsioni, torna a raccogliersi reptineo nel definire una poesia melodica conclusiva, davvero struggente. “Snake Out (Waldrom)”, è invece essenza del ritmo che incontra le estremizzazioni più improbabili del fraseggio su tastiera. Una medusa che si sfrangia, seminando ovunque propaggini di sé. Lenoci ritesse metempsicosi, dando lezione di instant composing lontana da stasi alcuna. Lanzo lo sostiene, disegnando contrappunti di una bellezza assai vicina all’arte orientale (che qui, ora, fa capolino) di produrre alternanza tra suono, tocco/colore e misuratissimi silenzi. Il furore che nasce dalle accensioni percussive è pari a quello di benzina lanciata su petali di fiori, a disegnare sadicamente contorni appresso alla luce del sole.

La padronanza di linguaggio del pianista pugliese è pari a quella di un ago di bilancia. “Ida Lupino” (Carla Bley), ritorna a dar timone allo strumento di cui la Bley è stata, ed è, gigante. Il romanticismo in cui Lenoci affoga la poetica dell’artista statunitense è pregno di vita, umori, presenza, consapevolezza della precarietà dell’essere. Non è un caso che io abbia parlato in precedenza di Mitteleuropa. Profondità sondabilissima a fior di pelle e stilettate. Pensoso e crudo, quanto creato in questo brano, non ha possibilità di essere raccolto in parole. Il senso di tensione ammutolisce lo sparuto pubblico, che non appare molto avvezzo a queste dinamiche, segue con attenzione, ma pare non cogliere altro se non la manifestazione più tecnica del percorso, come ad aspettare la classica alternanza di soli, in dialoghi che qui, invece, sono giunti. Un racconto del sé senza mestiere esibito, o cadute di tono, dunque. Vita che non accetta intrattenimento. Lanzo lascia che tutto scorra, per rientrare con maestria, nella sezione conclusiva. Da vedere, oltre che da ascoltare, per cogliere segreti nascosti tra smorfie, rughe, sorrisi, riflessi.
In breve, l’arte di Lenoci indaga il piano con un fare che attraversa massimalismo e minimalismo all’occorrenza, impiegando ciò che è utile al momento, un fare “contemporaneo”, che nulla ha a che spartire con i retaggi post-modernisti, in voga più che mai, nel citazionismo pianistico di blasonati danzatori dei tasti d’avorio fratelli in musica della Transavanguardia. È come se John Zorn rimanesse comunque, e senza possibilità di deviazione, il faro a cui volgersi per dichiararsi “nuovi” (per quanto tempo ancora, si continueranno a chiamare i The Necks, band post-rock?), quando, oggettivamente, molto è cambiato nel giro di pochi anni, tutti se ne sono accorti, ma si è nell’attesa di uno scatto di lancetta, da secolarismo integralista, che più nobile rende percorsi come la classica contemporanea e, qui in questione, il verbo jazzistico. Questa sera, per grazia ricevuta, solo integrazione organica al moto emotivo.

Ci si avvia alla conclusione del viaggio e lo si fa con una tensione “altra”. Dare è importante su un palco, ma lo è altrettanto ricevere e il risultato di una performance è comunque figlio del legame col pubblico. Palco è sempre arena e da quella di questa sera se ne vien fuori in modo memorabile, ma per chi ha accolto. Ora è tempo di qualche concessione. Curiosamente, questo “accordo”, arriva con un pezzo di Coleman, “Latin Genetics”. Pianoforte pizzicato, cassa percossa. Lanzo, invece, tramuta con leggerezza una batteria in un coro di percussioni africane, imbevute di memorie europee. C’è una grazia intellegibile, forse ricercata, ma godibile. L’intera esecuzione si articola su un ostinato, che lentamente va a spegnersi, senza trovare un centro energetico nel mezzo. Maestria, con qualche cenno di stanchezza, che incontra però, felice accoglienza del pubblico. La richiesta del bis, vede una “All The Things You Are”, dall’eccellente interplay, ma con un‘urgenza espressiva, anche in termini di cronometro, di porre un ultimo accento, gradevole, al concerto più bello del 2015, a cui mi sia stata data l’opportunità di essere presente.

Setlist

Black And Blue
Deadline
Angel Eyes/Lonely Woman
Snake Out
Ida Lupino
Latin Genetics

Encore
 
All The Things You Are

Enzo Lanzo, Gianni Lenoci su Ondarock

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