09/07/2015

Paul Weller

Cavea dell'Auditorium, Roma


Bando alla nostalgia e agli amarcord piagnucolosi. Stasera il Cappuccino Kid ha voglia di fare baccano e di suonare quello che gli pare. Anche a costo di sacrificare gli inni di Jam e Style Council ai quali deve buona parte della sua celebrità. “We don't play any request”, rende subito noto col piglio deciso che lo ha sempre contraddistinto. Fisico asciutto e chioma argentata, conserva la pettinatura immutabile di sempre e il viso da eterno ragazzino, screziato però da una ragnatela di rughe che tradisce gli anni vissuti velocemente - da capofila del rinascimento mod prima e del new cool poi. Indossa una maglia viola attillata, che evidenzia gli ancora individiabili pettorali, e calza scarpe di vernice bianche e nere dal vago retrogusto vintage. Elegante e irresistibile per le fan. E infatti ci sarà chi non saprà resistere.

Il dibattito con l'ormai habitué Carlo Massarini a proposito dell'ultima fatica wellerianaSaturns Pattern” si interrompe presto, perché l'uomo di Sheerwater irrompe sul palco in perfetto orario. Si vede che si diverte ancora, ha nello sguardo quell'urgenza febbrile di vuole sempre guardare avanti, senza accontentarsi di cullarsi sugli allori. Tanto è vero che attacca subito con un brano dal suo ultimo (controverso, per l'appunto) album, ovvero “I'm Where I Should Be”: “Ci ho messo 50 anni a scrivere un brano come questo, nel quale dico finalmente che sono a mio agio con me stesso: forse è perché ho trovato la persona giusta o perché da vecchio non ti importa più dell'opinione altrui”, spiegherà.
Lo accompagna una band compatta ed energica, dal sound molto asciutto e aggressivo: Steve Cradock (chitarra), Andy Lewis (basso), Steve Pilgrims (batteria), Andy Crofts (tastiere e chitarra), Ben Gordelier (percussioni).

Weller è uno spettacolo: domina il palco con il suo carisma e la sua esuberanza, si accende una sigaretta, poi la lascia subito lì e imbraccia la chitarra, oppure si infila al piano. Ha conservato anche un bel timbro vocale potente, appena un po' arrochito dagli anni. Il set pesca dalla sua ormai lunga carriera solista, soffermandosi su alcune tappe cruciali, come la rockeggiante “From The Floodboards Up” e l'ancor più irresistibile sarabanda di "Come On/Let's Go" (entrambe dall'interessante “As Is Now” del 2005), o ancora quella “Into Tomorrow” che lascia trapelare le screziature psych del debutto omonimo del 1992, ancora imbevuto di umori Style Council, come dimostrano anche le eleganti vibrazioni soul di “Above The Clouds”. A riannodare i fili col presente provvedono anthem un po' ipertrofici come “White Sky” e “Long Time” (sempre da “Saturns Pattern”), che comunque dal vivo dimostrano un tiro notevole.
Qualche piccolo problema di audio non inficia il buon feeling con il pubblico, che apprezza, pur mantenendosi diligentemente seduto sui seggiolini della Cavea. Ma la miscela di blues-rock, funk e blue-eyed soul surriscalda rapidamente l'atmosfera, in un crescendo di riff taglienti e ritmi martellanti. Così un paio di temerari dall'aria non lucidissima si lanciano sotto il palco, aprendo le danze. Si trascinano dietro, in poco tempo, mezza platea. E – come dicevamo – c'è chi non si trattiene, nella fattispecie una esuberante bionda di bianco vestita, che invade il palco e riceve l'abbraccio sornione di Weller. Non paga, ci riproverà poco dopo, finendo però brutalmente scaraventata giù dal palco dai nerboruti (e minacciosissimi!) addetti alla security.

A regalare le emozioni più forti è però il trittico da “Stanley Road”, con una tesissima “Porcelain Gods”, una toccante “You Do Something To Me”, ballata sempreverde che Paul pennella al piano, e una torrida “Whirlpool’s End”, che chiude in pieno tripudio guitar-rock la prima parte dello show, non prima di rendere omaggio all'irruenza blues di “Peacock Suit” (da “Heavy Soul”, 1997) e di ripescare fugacemente l'epopea Jam, attraverso i ritmi sincopati e travolgenti di “Start”, che scatenano il delirio dei fan di vecchia data.
Dopo la pausa, è la volta di “Out Of The Sinking”, altra prodezza da “Stanley Road” con il suo groove tipicamente welleriano, oltre che di un nuovo contributo da “Saturns Pattern”, l'accattivante “These City Streets”, ma a lasciare il segno sono le venature soul-jazz di “Picking Up Sticks” (gemma misconosciuta di “Heliocentric”, 2000) che confermano una volta di più l'affiatamento dell'ensemble.

Il concerto è praticamente finito, e ora Weller può anche lasciarsi andare ai ricordi. Parte una “My Every Changing Moods” da groppo in gola, e ti scorrono davanti in un attimo tutte le istantanee in bianco e nero della saga Style Council: i café bleu e i paris match, il nostro negozio preferito con le voci di velluto di Dee C. Lee e Tracey Thorn, il ragazzo che gridava al lupo e i muri che crollano giù. Tutto in quel vortice di umori mutevoli che è un po' il manifesto dell'intera storia di Weller.
L'apoteosi finale, però, è per i Jam, con la riesumazione di un'incendiaria “Town Called Malice”, che manda in visibilio la platea, inclusa la bionda hooligana che continua a dimenarsi come un'ossessa sotto gli occhi divertiti del suo idolo. Saluti, e poche chiacchiere. Pazienza per tutte le meravigliose canzoni trascurate da questa scaletta crudele. Stasera abbiamo avuto la certezza che Paul Weller è ancora giovane e lotta insieme a noi. Più che un concerto, una lezione di vita.