25/05/2015

Shellac + Uzeda

Black Out, Roma


Attesissimo il concerto di questa sera, in quanto riunisce due mostri sacri del noise-rock: una delle più grandi espressioni nazionali, gli Uzeda, e uno dei massimi riferimenti mondiali, gli Shellac di Steve Albini, uno di quelli che nel tempo è riuscito a imporre standard decisivi su questi suoni, vuoi per i lavori compiuti nelle vesti di producer, vuoi per i dischi realizzati come musicista.
Il pastrocchio organizzativo che ha anticipato l’evento (Init non Init, raddoppio della data, ripensamento, cambio location, contemporaneità con il derby calcistico della capitale) non ha pesato sull’affluenza di pubblico, per un sold out più che annunciato.

Gli Uzeda aprono i giochi centrifugando e gettando sulla platea il rodato uragano sonoro che da sempre li contraddistingue: la parte ritmica detta i tempi, consentendo alla chitarra di Agostino Tilotta di adagiarsi ricamando asperità, e alla voce indolente e rabbiosa di Giovanna Cacciola di cantare e declamare, trovando lo zenit nelle impennate di “Sleep Deeper”, dall’irrinunciabile “4”, anno 1995.
Gli anni passano ma il risultato non muta, la band siciliana si conferma devastante, grandi canzoni e una potenza di suono pazzesca, la tensione nervosa mantenuta costantemente altissima, caratteristiche che portarono Steve Albini a interessarsi di loro sin dalla prima metà degli anni 90, mentre stava completando la produzione di “In Utero”.

Quello stesso Albini che, qualora non avesse la consapevolezza di essere un monumento assoluto, oggi rischierebbe di sentirsi a disagio a esibirsi subito dopo il quartetto italiano, ma è chiaro che questa sera non esistono gruppi principali e backing band: Uzeda e Shellac sono sullo stesso piano, sia per capacità compositiva, sia per carisma espresso sul palcoscenico, sia per energia irradiata.
Questo evento vuole essere piuttosto la celebrazione di un’estetica musicale, da vivere senza nostalgie, ma tenendo conto che forse il meglio lo ha concesso negli anni passati, e oggi per restare vitale mostra il bisogno di contaminarsi con altri generi.
Sta di fatto che, dopo il laborioso cambio palco, per 75 minuti (non moltissimi, vero, ma visto il caldo atroce all’interno della sala nessuno ha osato lamentarsi) Steve e soci sottolineano con forza e autorità la propria prominenza nel settore musicale di appartenenza.

I primi trenta minuti degli Shellac, che presentano un mix di brani storici ed estratti dal recente "Dude Incredible", sono un cazzotto in pieno volto, una sequenza veloce e frastornante che scatena il pogo nelle prime file e dimostra quanto Albini (impegnato su microfono e chitarra) abbia saputo assorbire come una spugna le modalità compositive di tutte le migliori band che ha prodotto nel tempo, riuscendo a distillare un concentrato di post-hardcore, noise e alt-rock personale e pregevole.
Quando entrano nella trance ripetitiva della seconda parte, il concerto perde un po’ di mordente, ma gli stop netti e ingannevoli disseminati lungo tutto il set, il martellare nitido della batteria di Todd Stanford Trainer, la presenza assoluta del basso di Bob Weston, le impetuosità chitarristiche, l’asciuttezza di ogni singolo passaggio, il cantato anfetaminico confermano che a oltre vent’anni dal debutto la rabbia impetuosa della formazione americana non è calata di un solo grammo.

A fine set la sensazione è di aver assistito a un evento memorabile, che chiude il cerchio con la famosa data romana del 1992, quando al Tendastrisce sullo stesso palco si esibirono i Sonic Youth di “Dirty” e i Pavement di “Slanted And Enchanted”: la dimostrazione tangibile in versione live del tipo di suoni che stavano circolando allora negli Stati Uniti (e che dalle nostre parti come al solito sbarcavano con imperdonabile ritardo).
I signori saliti sul palco questa sera sono stati, e restano tuttora, fra i più autorevoli e capaci protagonisti di un’epoca, ai quali generazioni di musicisti successivi continuano a ispirarsi. Non certo a torto.