03/07/2016

Bruce Springsteen

Stadio Meazza (San Siro), Milano


In gergo marketing si chiamerebbe "attenzione verso il cliente". Ma l'"attenzione" di Springsteen per il suo pubblico non è una fredda definizione commerciale che nasconde dietro a un mero formalismo la brama per il denaro. Il rapporto tra Bruce e i suoi fan è un sentimento vero, tangibile, spontaneo, che attinge da quelle profondità umane migliori, laddove ancora ne esistano. Così, l'inaspettato omaggio pomeridiano pre-show di "Growin' Up" in solitaria versione acustica può essere interpretato come il ringraziamento sincero a un pubblico, quello di San Siro, che nell'arco di trent'anni non solo l'ha accompagnato in una crescita artistica senza limiti, ma ha contribuito direttamente a far maturare in lui una sempre maggior consapevolezza del suo ruolo di icona inter-generazionale dal punto di vista non solo strettamente musicale ma soprattutto etico, morale, socio-politico in senso lato. Il sesto concerto nello stadio milanese dopo quelli del 1985, 2003, 2008, 2012 e 2013 ha unito in un abbraccio unico "i ragazzi dell'85" (ormai ultra 50-60enni) ad almeno altre tre generazioni (compresi bimbi/e in età pre-scolare) a testimonianza di come la capacità di sognare non abbia vincoli anagrafici.
Infatti, "Dreams are alive tonite" recita la scritta umana all'entrata del Boss sul palco con la coreografia dei fan di Our love is real ad accoglierlo in un tripudio di bandierine bianco-blu e tricolori sugli spalti. Lui risponde prontamente con l'incipit di "Land Of Hope And Dreams" dopo l'ormai consolidata entrata sulle note morriconiane di "C'era una volta il West" e i saluti d'ordinanza ("Ciao Milano, fa troppo caldo? Andiamo!") ad aprire un tour de force di tre ore e quarantaquattro minuti tiratissimi che celebra soprattutto (seppur non in toto, come accaduto nel tour americano) il doppio capolavoro "The River" (14 dei 36 brani proposti), riportato in auge dall'uscita a fine 2015 di "The Ties That Bind: The River Collection", box retrospettivo su quel periodo di massima creatività.

Inutilmente ripetitivo sarebbe rimarcare la disumana generosità artistica e la grandezza storica dei live di Springsteen. Chiunque voglia capire cosa significa essere realmente partecipi di un concerto, vivere un'esperienza di unione emotiva con il proprio idolo, sudare, cantare e ballare per ore sotto a un palco senza sentire fatica, non può non accaparrarsi un posto in prima fila a una qualsiasi esibizione di Bruce Springsteen & The E Street Band.
Bruce è un dizionario in carne e ossa del pop-rock a stelle e strisce, ma non solo. Tra i tanti meriti da ascrivergli c'è l'opera di riscoperta a favore di giovani e giovanissimi di ritmi e melodie capaci, anche dopo 50-60 anni, di "far muovere il culo" (come da esplicito incitamento dello stesso Bruce), di instillare pura gioia nei cuori, di cancellare per qualche minuto ogni pensiero grigio. Come lo scatenato delirio finale di "Shout" del dimenticato duo degli Isley Brothers, che ha ormai sostituito "Twist and Shout" come martellata finale per annientare anche le ultime resistenze fisiche dei ragazzi/e del pit.
Lo sterminato canzoniere dell'ex-ragazzo del New Jersey ha la possibilità di attingere, da un lato a un patrimonio praticamente illimitato di cover a richiesta (in quest'ambito "Trapped" e "Lucille" ne sono stati due esempi apprezzatissimi), dall'altro a un preziosissimo scrigno di piccoli/grandi gemme nascoste tra le pieghe dei dischi ufficiali come pure mai portate alla luce del mercato discografico.
La particolare intensità della serata milanese è stata soprattutto frutto dolcissimo colto dall'albero di pezzi "minori" o comunque poco suonati di "The River", come la trascinante "Jackson Cage", la festosa "Sherry Darling", l'oscuro dramma di "Point Blank".

Proprio da questa particolare intensità nasce, tuttavia, la necessità di porsi, a freddo, una piccola riflessione controcorrente. Perché dopo trent'anni di passione a senso unico per Bruce, dopo l'estasi mistica che mi/ci ha accompagnato sui prati di tanti stadi, beh, per la prima volta alcune strane sensazioni e pensieri non del tutto positivi si sono insinuati come sgraditi intrusi tra le limpide visioni dell'ingenuo fanciullino che è in noi. Intrusi generati da un qualcosa di straordinario (nel senso letterale di extra-ordinario, oltre che di bellissimo) accaduto proprio nella serata del 3 luglio. Quel qualcosa è naturalmente una canzone, anzi molto più di una canzone, dieci minuti di un'esperienza fuori dal mondo archiviata sotto il titolo di "Drive All Night". Perché, a forza di parlare di rito, di cerimonia, di messa rock ecc., la percezione, in certi momenti, è proprio stata letteralmente quella: un rito, una cerimonia ma piuttosto lontana da quella vera passione che Bruce ha da sempre e ancora adesso rifulge (di questo sono sicuro) nel suo animo. Perché il desiderio sincero di accontentare i clienti, la massa dei fan, non è per forza sempre cosa positiva. Si rischia di privilegiare lo spettacolo (l'aspetto cerimoniale) ai danni dell'afflato artistico. E certamente non lo è se si riflette su quello che, come detto, è stato il momento, il culmine del concerto dell'altra sera: proprio quella "Drive All Night" raramente eseguita dal vivo (solo 42 volte nella lunga carriera prima di questo tour, di cui una sola in Italia, a Torino nel 2009) e relegata fin dal primo momento ai margini dell'epica springsteeniana di massa. Ipnotica, tenebrosa (con tanto di citazione da "Dream Baby Dream" dei Suicide), misteriosamente romantica e sognante ma altresì struggente nella sua semplicità armonico/melodica. Proprio qui l'interpretazione appassionata e drammaticamente intensa di Bruce (con un finale in crescendo da brividi) ha fatto capire come la sua vera grandezza di cantante (oltre che autore immaginifico), di voce ineguagliabile dalle mille sfumature (soul, blues, folk, rock, pop, jazz) capace di emozionare e comunicare sentimenti con una forza unica sia stata negli ultimi anni sacrificata a favore di una mitologica figura di epico sacerdote del rock and roll (anch'essa, va detto, senza paragoni).
Lo stesso Bruce dimostra di essere perfettamente conscio dell'unicità di questo momento quando, a un certo punto, immerso nel suo racconto, cerca inutilmente di zittire il pubblico con un secco "Sssshhh!", cui un angolo di San Siro risponde insensibilmente con un applauso ritmico fuori giri.

Una forza che si era già percepita nell'altrettanto sorprendente "New York City Serenade" donata alla folla romana nel 2013, così come nel solo piano/voce dell'inedita "The Promise" a Milano nel 2012. Situazioni eccezionali, ma non per Bruce, da cui si pretenderebbe che la sua normale straordinarietà venisse elargita con maggiore frequenza.
Sia chiaro che questa non può essere una critica. L'interscambio con il pubblico continua a regalare reciproca gioia e passione, puro godimento improvvisato e senza filtri come nei coretti di "Out In The Street" o nel "never ending" intonato a squarciagola di "Badlands" che chiude il set principale. Piuttosto un rammarico, la nostalgia di quella poetica sporca e rivoluzionaria che il 66enne della contea di Monmouth ha sempre portato avanti lungo tutto il suo percorso artistico e che forse si sta perdendo tra le considerazioni di cui sopra, oltre che tra i rivoli di fastidiose problematiche terrene quali il caro biglietti che ha raggiunto livelli insopportabili (90 euro + spese varie per il prato!), scelte artistiche alquanto discutibili (il pastrocchio dell'ultimo album in studio), l'acustica (che a Milano è stata in alcuni frangenti imbarazzante).
Nella lunga carovana dello show alcune canzoni hanno ormai perso l'originaria intensità lirica per divenire solo standard imprescindibili (e quindi, alla fine, scontati) di uno "spettacolo" che soddisfi tutti. Mi riferisco ai consueti inviti al ballo sul palco di "Dancing In The Dark" (in questo caso con la piccola novità di un ragazzo a omaggiare Soozie Tyrell), ai coretti del pubblico nell'introdurre "Hungry Heart" (pur con la sorpresa della discesa nella fossa tra il pit e il resto del parterre), ai siparietti comici con Little Steven nei pezzi più leggeri come "Two Hearts", all'introduzione da predicatore invasato di "Spirit In The Night", all'attacco heavy metal del fraintendimento per antonomasia ("Born In The Usa"), al ricordo sempre commovente ma ormai ripetitivo di Clarence Clemons e Danny Federici in "Tenth Avenue Freeze Out".

Citando Clemons non si può non evidenziare, invece, la novità (relativa) più positiva, la nuova linfa vitale e la carica dirompente apportata dal nipote Jake che, ancorché privato dell'appoggio della sezione fiati, ha messo in mostra una personalità musicale ormai ai massimi livelli (oltre che nella già citata "Drive All Night", soprattutto in quello che viene ricordato come l'assolo di punta dello zio in "Jungleland" (proposta in apertura di encore e questa sì perno artistico memorabile dello show nel suo impetuoso sviluppo cinematografico) che gli è valso l'esplicito apprezzamento del Boss.
Certo, sarebbe fantastico ritrovare anche un poco di quelle schermaglie chitarristiche di un tempo ormai quasi completamente sparite (brillante eccezione il solo sciamanico di Lofgren in "Because the Night"). E poi, perché non dare spazio a una delle tante outtake di "The River" contenute nel box celebrativo?
Mentre stiamo terminando la recensione si è appena concluso anche il secondo concerto milanese (in attesa della terza e ultima data italiana nello storico scenario romano del Circo Massimo il 16 luglio) in cui Springsteen (oltre a regalare le outtake "Meet Me In The City" e "Roulette"... bene!) ha elargito altre perle di pathos extra-ordinario. "Racing In The Street" e "Backstreet" hanno confermato (insieme alle altre citate sopra) trattarsi non solo semplicemente di brani di più rara esecuzione live o di semplici preferenze di un critico o di un fan rispetto ad altre. Perché proprio nella loro straordinarietà Bruce riesce ancora a esprimere pienamente il suo mondo eroico fatto di piccoli grandi conquiste quotidiane, che è quello in cui si rispecchiano i suoi più fedeli fan.

Per concludere con un paragone con colui che da sempre è un esempio per lo stesso Boss, di certo non assisteremo mai, neppure a fine carriera, a stanche parodie paragonabili a quelle di un Elvis boccheggiante; Bruce è di altra pasta, solido, lucido, inattaccabile. Però non vogliamo neppure "accontentarci" semplicemente di un perenne grandioso spettacolo di coinvolgente ma oltremodo prevedibile rock and roll. Tutti noi vogliamo continuare a sognare, almeno con la nostra musica, con la sua musica. Per una "Thunder Road" acustica a concludere in solitaria un concerto ci sarà sempre posto nei nostri cuori. Qual è la speranza? Ritrovare ancora, al più presto (in spazi più intimi e con una scaletta alternativa depurata da alcuni grandi classici?), un nuovo, vecchio, comunque sempre unico Bruce Springsteen.
Goodbye Bobby Jean!



Setlist

Pre-Show Acoustic Set
  1. Growin' Up

Full Band Set
  1. Land of Hope and Dreams
  2. The Ties That Bind
  3. Sherry Darling
  4. Spirit in the Night
  5. My Love Will Not Let You Down
  6. Jackson Cage
  7. Two Hearts
  8. Independence Day
  9. Hungry Heart
  10. Out in the Street
  11. Crush on You
  12. Lucille (Little Richard cover) (sign request, tour debut)
  13. You Can Look (But You Better Not Touch)
  14. Death to My Hometown
  15. The River
  16. Point Blank
  17. Trapped (Jimmy Cliff cover)
  18. The Promised Land
  19. I'm a Rocker
  20. Lucky Town (sign request)
  21. Working on the Highway
  22. Darlington County
  23. I'm on Fire
  24. Drive All Night (sign request)
  25. Because the Night (Patti Smith Group cover)
  26. The Rising
  27. Badlands

Encore
  1. Jungleland
  2. Born in the U.S.A.
  3. Born to Run
  4. Ramrod
  5. Dancing in the Dark
  6. Tenth Avenue Freeze-Out
  7. Shout (The Isley Brothers cover)

Encore 2
  1. Thunder Road (solo acoustic)

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