22-25/09/2016

Tanjazz 2016

Palazzo delle Istituzioni italiane, Tangeri (Marocco)


Andare al Tanjazz è un’esperienza sinestetica che coinvolge i sensi, per cui è praticamente impossibile essere lì soltanto per la musica, anche se, come vedremo, viene offerto un catalogo di altissimo profilo. Ma la prima cosa è la location, e non può essere altrimenti, perché siamo a Tangeri, e poi il luogo dove si svolge l’evento che è il magnifico Palazzo delle Istituzioni italiane, ancora perfettamente conservato, con al centro l’enorme giardino pieno di piante tropicali, e intorno le stanze e i cortili dove si svolgono i concerti, e in ogni stanza, allestita come se fosse un film, addobbi sontuosi, mosaici e lampadari di cristallo, e naturalmente i tappeti marocchini per ottenere un’acustica perfetta.

Quest’anno sotto la guida di Philippe Lorin, che a Tangeri ha istituito una fondazione culturale all’interno di una vecchia sinagoga, il Festival è giunto alla sua 17esima edizione, tanto che lo si può senz’altro considerare la rassegna di jazz più importante di tutto il continente africano, sia per la qualità dell’offerta musicale, sia per l’organizzazione impeccabile, capace di abbinare il know how occidentale alle suggestioni del luogo. E poi quest’anno, con una scelta a dir poco controcorrente rispetto alle tendenze del contesto, il Festival era interamente dedicato alle donne, con una rosa donata a tutte le donne che entravano nel Palazzo e la presenza di sole artiste, quantomeno fra le guest star, provenienti da tutto il mondo, per declinare il jazz in tutte le sue varianti, ma questo del resto accade in tutte le edizioni, per un susseguirsi ininterrotto di spettacoli nei quattro giorni dell’evento, quest’anno dal 22 al 25 settembre.
Entrando nelle esibizioni che hanno caratterizzato il Festival, innanzitutto, è da segnalare la fusion più sperimentale proposta dall’americana Terry Lyne Carrington, impressionante, con la sua batteria a fare da centro e da motore propulsivo di un’esibizione-fiume capace di proporre un flusso costante di ritmi continuamente spezzati, ma incredibilmente legati l’uno all’altro come una sorta di magma, e lavorando su un continuum percettivo che sembra quasi voler levare il tempo di respiro all’uditorio, per poi tornare classica improvvisamente, grazie alla travolgente parentesi della vocalist Jaguar Wright che ha zittito, divertito e meravigliato la platea giocando con la voce.

Tanjazz 2016Ma la caratteristica generale più interessante di tutta la rassegna, almeno da un punto di vista strettamente musicale, è stata questo continuo “camminare fra i mondi” attraverso commistioni di genere proposte su livelli sopraffini, capaci di dare al Tanjazz un carattere di originalità assoluta. Ci riferiamo ai momenti in cui musicisti dall’estrazione più o meno classica hanno assunto abiti etnici o hanno dato comunque ai loro arrangiamenti tagli dal sapore etnico, facendo emergere la natura più affascinante e controversa del jazz, cioè il suo essere materia plasmabile, continuamente disponibile a farsi riscrivere. Pensiamo al trio di Anne Wolf, la musicista belga vincitrice del Golden Django nel 2002 che per l’occasione ha abbinato le sonorità pulite e modernissime del suo pianoforte a coda al fluato traverso e alle percussioni ossessive della ghanese Esinam Dogbatse, per quello che è stato forse il momento più emozionante, originale e musicalmente riuscito, del Festival. E sulla stessa linea è da citare senz’altro la pianista di Rio de Janeiro Bianca Gismonti che, accompagnata da chitarra e batteria, ha proposto un catalogo dall’impressionante ricchezza armonica, tratto dalla tradizione brasiliana, impiantando in particolare sul ritmo della bossanova un gioco melodico basato sulla fusione di chitarra e voce.

Ma le annotazioni strettamente musicali non possono che essere uno dei tanti aspetti legati al racconto del Festival, in quanto la musica, durante i quattro giorni in cui si è svolto l’evento, ha dato magicamente la mano alla teatralità. In questo senso c’è da segnalare la trombettista e cantante spagnola Andrea Motis che con la sua orchestrina swing, la sua grazia, il suo portamento, la sua voce sottile e il suo modo di cantare incredibilmente femminile, ci ha sedotto, e quasi confuso, riempiendo la serata del sabato, con un repertorio di un’eleganza estrema, regalandoci la “Besame mucho” che volevamo, e che praticamente ci ha stregato, imbambolato, accarezzati in platea, com’eravamo, dal vento tiepido e perfetto di Tangeri.
E poi intorno, muovendosi fra la gente, a dare colore in stile Kusturica, l’orchestrina itinerante delle Muses Tanguent composta di sole ragazze provenienti dall’accademia di Musica di Tangeri, come a rappresentare un inno al nuovo e a quella voglia di andare controcorrente.
E ancora la flautista siriana Naissam Jalal, che ha trasformato grazie anche alla precisione del tappeto sonoro costruito dal suo ensemble il suono del suo strumento in un vero e proprio grido di dolore, che nel cortile all’aperto dove si esibiva ha fatto risuonare come un pianto, peraltro ampiamente compreso e sottolineato in una toccante standing ovation dal pubblico.

Anche se a onor del vero quella che più di tutte ci resta nel cuore e ci portiamo a casa come una perla è l’esibizione spiazzante e vanitosissima di Julia De Castro, voce, cuore e corpo de la Purissima, meraviglioso quartetto spagnolo, che con un gioco raffinatissimo di musica e teatro ripropone la tradizione della musica iberica attraverso un approccio contemporaneo e a dir poco provocatorio. Già avevo letto che sul palco la De Castro si lasciava cadere all’indietro, e così intensamente che a un certo punto la si vedeva soltanto a metà, all’altezza della vita e poi più niente, e che buttata giù riuscisse lo stesso a cantare. Ma vederla è un’altra cosa. A vederla sembra proprio che scompaia, e che il suo canto diventi così contorto e appassionato da trasformarsi in un richiamo d’amore per il pubblico come forse in realtà doveva essere nella tradizione antica. Del resto pare che nei locali di Madrid dove si esibisce sia diventata famosa proprio per quella mossa, del buttarsi giù e quasi morire, nel canto, e per quell’architettura strana, che si tiene nei capelli, che le fa scendere il velo sul viso da un punto altissimo, che è tipico dei costumi tradizionali spagnoli e, aggiungerei io, delle vedove. Ma altro che vedove. Già dal sito, che consigliamo assolutamente di visitare (delapurissima.com), si capisce l’originalità del suo progetto, che è un punto d’incontro fra il jazz, il teatro, l’arte, la voglia di provocare, la bellezza e l’autoironia. E comunque vederla è un’altra cosa.