21/09/2017

Bon Iver

Salle Pleyel, Parigi


Un anno è passato dalla pubblicazione di “22, A Million”. Un disco tanto atteso quanto discusso, dalla natura multiforme, che Bon Iver, adesso impegnato in una nuova serie di date europee dopo quelle di inizio 2017 (senza mai toccare l'Italia), continua a esplorare nella dimensione live. Il musicista del Wisconsin ritorna quindi a Parigi per ben tre date consecutive (tutte sold-out), di fronte a un pubblico ansioso di assistere alle sue nuove trasfigurazioni, e accorso - lo si coglie dai frammenti di conversazione - da tutta Europa. Ad accogliere le esibizioni, l'elegante Salle Pleyel, prestigiosa sala da concerto in stile art déco, la prima di Parigi a essere dedicata appositamente alla musica sinfonica, e recentemente riconvertita a un variegato programma pop, rock e jazz.
Nel prendere posto sui ripidi spalti per assistere al primo dei tre concerti, tra le varie riflessioni elaborate nell'attesa, emerge soprattutto la curiosità di scoprire quale sfumatura assumerà il repertorio di Justin Vernon e della band che ne condivide la ragione sociale. Viene insomma da domandarsi se l'atmosfera a un tempo raccolta e vertiginosa della Salle Pleyel sarà capace di sciogliere i dubbi sulla vera attitudine della musica di Bon Iver, di risolverne l'oscillazione tra isolazionismo e coralità, intimismo e sovrastruttura artefatta, testimoniata dalla sua evoluzione artistica.

Lo spettacolo viene opportunamente introdotto da Mikaela Davis, arpista statunitense dalle sembianze elfiche, che, alla stregua di una cantautrice folk, impiega il suo strumento con notevole padronanza tecnica per accompagnare le composizioni. Sulle cascate di suoni celestiali emesse dall'arpa, spesso effettata con eco e riverbero, o scordata in diretta a imitazione di un sitar, si libra quindi una voce purissima, interpretando melodie articolate, ora bagnate di blues e di soul, ora ipnotiche, ora fiabesche. Una scelta interessante e singolare come antipasto al concerto vero e proprio, che il pubblico apprezza con entusiasmo.
Bisogna ancora aspettare una quarantina di minuti prima che il protagonista della serata faccia il suo ingresso insieme ai compagni. La formazione è ridotta: si tratta infatti di un trio, che vede presenti, oltre a Vernon, solamente i fidi Sean Carey (batteria, tastiere) e Michael Lewis (basso, sassofono, tastiere), entrambi pronti a fornire anche contributi vocali. I musicisti prendono posto, asserragliati, ciascuno su un'isola quadrata a sé stante, dietro muraglie di pedali e synth. E la prima parte del set si rivela interamente dedicata all'ultimo album, ripercorrendone, in ordine immutato, i primi sei brani.

Qual è, dunque, il suono di “22, A Million”? Sono i sample subumani con cui gioca Bon Iver nell'incipit “22 (OVER S∞∞N)”, come in un remix senza fine di se stesso, prima che una soffusa improvvisazione di sax irrompa? Sono i bassi sintetizzati e profondissimi di “10 d E A T h b R E a sT”, che fanno tremare le pareti e la pancia, mentre Vernon scaglia distorsioni di chitarra e la batteria glitch diviene improvvisamente fisica e secca? La sala trattiene il fiato quando il leader rimane da solo, illuminato da un fascio di luce sovrannaturale, e unisce voce e synth nelle armonizzazioni robotiche di “715 – CRΣΣKS”, permesse dal misterioso innesto hardware-software “The Messina”. Un a cappella che a cappella non è, uno slancio spirituale mascherato da orpello neo-soul, o viceversa? Il solipsismo estremo di un ripiegamento su se stesso, che ciononostante vuole a tutti i costi sfuggire alla solitudine e fingersi polifonico? Forse un trucco, partorito dalla pur inesausta ricerca interiore di Vernon, per nascondere la perduta ispirazione dietro a una luccicante gabbia tecnologica. Lo spettacolo è comunque magico, e continua con brani che rivelano nuovi strati, nuove identità: le tastiere corali distese sotto al balbettio campionato che accompagna “33 “GOD””, sospinta da un impeto improvviso dell'ottima sezione ritmica; “29 #Strafford APTS” (quasi) riportata alla sua nuda natura folk; l'introduzione di “666 ʇ” affidata a pad elettronici in controtempo dal suono di glockenspiel.

Sarà pure l'espressione dell'autismo frammentato dell'evo digitale, ma il materiale di “22, A Million” risplende, le isole che lo riproducono sul palco si parlano, comunicano, tra loro e con il pubblico. Poi il continuum dell'ultimo disco si interrompe, Bon Iver rimane di nuovo da solo per ripescare “Woods” dall'Ep “Blood Bank”, con l'uso del vocoder che tanto affascinò Kanye West, e la trasforma in un turbine di sovrapposizioni multiple. Un uragano di suono capace di riempire interamente la sala a partire dalla sola voce di Vernon, che passa dai suoi toni naturali da baritono fino al celebre falsetto, spazzando via tutto.
Il cantautore del Wisconsin è spigliato, sorridente, ammicca a un pubblico che pende dalle sue labbra, e si dedica adesso ai brani della svolta corale, quelli dell'apertura del secondo album “Bon Iver, Bon Iver” che rivelò al mondo come il suono spoglio dei brani di Vernon si fosse espanso oltremisura. È il momento di una “Perth” travolgente, con i suoi riff da terremoto post-rock (anche se manca, purtroppo, la doppia cassa) e di una “Minnesota, WI” che rimpiazza l'intricato minimalismo dell'arrangiamento su disco con pulsazioni elettroniche, per poi venire strappata da altri assalti chitarristici. “Calgary” diviene una commovente ballata country, cantata in questa versione in registro bassissimo, e si lega benissimo alla successiva cover di “A Song For You”, uno standard della canzone rock classica americana, scritto da Leon Russell e interpretato negli anni anche da Ray Charles, che Vernon sfrutta per calarsi impeccabilmente nei panni di un cantante soul.
Fraseggi a due voci di synth e sassofono introducono poi una straziante “_45_”, il gospel rivisto dal Bon Iver del 2016, e, immediatamente dopo un'ottima “Holocene” che si fa carico di esprimere il lancinante abisso esistenziale su cui tutta la produzione di Vernon si interroga (“And at once I knew I was not magnificent”), proprio lì, nel culmine, arriva il tassello di cui c'era bisogno per chiudere il cerchio. Talmente rallentata nel suo 6/8 sonnacchioso da essere quasi irriconoscibile, ecco “CreatureFear”, ecco il suo crescendo rapido come un lampo, direttamente da quell'esordio di dieci anni fa, venuto da una capanna in mezzo al bosco e alla neve. Un crescendo che, ripreso nel finale, si trasforma nell'inaspettato: un incubo noise, Vernon accovacciato sui pedali a trarre feedback insopportabili in mezzo a luci apocalittiche.

È questo il necessario rinnovamento della catarsi compiuta in quel lontano (buon) inverno? Si è ancora frastornati mentre Bon Iver si siede a un “vero” piano, certo non esente da effetti, e senza rinunciare al vocoder, per l'ultimo brano della serata tratto dal terzo disco, nonché l'ultimo dal main set, “00000 Million”, umano e diretto. Scrosciano gli applausi, mentre si cerca di riordinare le idee e di formulare la risposta alle domande iniziali. Ma non c'è bisogno di scervellarsi, la risposta giunge con i due brani del bis. Vernon rientra da solo, e, armato di nient'altro che della sua voce e di una malandata chitarra resofonica, sforza all'estremo la corde vocali fino a grattarle, e sputa anche l'anima per una versione di “Skinny Love” che vale il concerto. Sì, quell'emotività trasmessa in maniera così essenziale agli inizi della sua carriera è ancora lì, ed è la stessa di oggi, viva e vegeta. Lo conferma il finale con la band al completo, un altro caposaldo di “For Emma, Forever Ago”, cioè “The Wolves (Act I And II)”, dove, tutto sommato, viene da dirsi, c'era già tutto. La stasi e il crescendo post-rock, il vocoder, i field recordings, le percussioni accatastate e rovinose. Con la stessa tecnologia che anima il disorientamento di questi anni interconnessi e che sbriciola l'io, forse quell'io lo si può ricostruire dall'esterno, dargli nuovi mezzi espressivi. La sincerità dei tormenti più personali può gridare attraverso un suono manipolato mille volte.
Nulla di nuovo, probabilmente, ma dopo averlo visto concretizzarsi in diretta su un palco, durante un concerto magistrale, si può almeno dare un nome a chi, in questo tempo, è all'avanguardia nel realizzare questo programma. Quel nome è Bon Iver.