29/06/2017

Depeche Mode

Stadio Dall'Ara, Bologna


La lunga tradizione che lega l’immagine di Bologna a quella delle sue torri (che nel XII secolo erano più di cento) è particolarmente evidente anche allo stadio Dall’Ara. Nell’impianto, che vanta uno dei migliori terreni di gioco d’Italia, svetta con i suoi 42 metri la Torre Maratona, fortemente voluta da Mussolini nel 1929 e figlia di un’architettura razionalista i cui parametri sembrerebbero apparentemente poco in linea con un concerto dei Depeche Mode.

Il trio di Basildon atterra nella città felsinea per l'ultima delle tre tappe italiane del "Global Spirit Tour" (ma è di questi giorni la notizia di altre date invernali nei palazzetti), chiamando a raccolta il pubblico per dare una dimensione live al quattordicesimo lavoro in studio e celebrare una carriera ormai quasi quarantennale. 

L'apertura è affidata, come a Roma e a Milano, agli Algiers, freschi di uscita del sophomore "The Underside Of Power" e perfettamente aderenti al mood del tour grazie alla comune necessità di riflettere sulle storture del nostro tempo. La band di Atlanta, recentemente all'opera anche in un interessante remix di "Where's The Revolution", fa sua la lezione di cosa vuol dire essere cresciuti nella città di Martin Luther King insistendo su una vocalità di stampo Motown che si avvita su strutture post-punk/industrial. Una ricetta interessante su disco, ma bisognosa di un respiro più ampio dal vivo, impossibile da trasmettere qui a causa della mezz'ora scarsa a disposizione e del relativo disinteresse di un'audience in esclusiva e religiosa attesa degli headliner.
 
La band che più di ogni altra ha esportato il concetto di synth-pop nel mondo guadagna il centro della scena intorno alle 21 (quando la curva opposta al palco non sembra ancora del tutto piena), preceduta dalle note di "Revolution" dei Beatles. L'incipit è simbolico e confluisce nell'iniziale "Going Backwards" sottolineando il contrasto tra un ideale come-avrebbe-dovuto-essere e un più realistico come-invece-è-stato. L'intenzione conferma da subito la volontà del gruppo di non lasciare al caso le prese di posizione di "Spirit" e trova sponda nel desiderio di offrire immediatamente anche un messaggio di speranza con la successiva "So Much Love".
Per la serata, i Depeche esibiscono un arco di personalità estetica che va dall'eleganza da crooner moderno di Gahan alla giovanile impertinenza dei bermuda e anfibi di Gore, al total black look di Fletcher e Gordeno. Incastonato nella visual art squisitamente mitteleuropea di Anton Corbijn, il loro suono live appare più incline alla sobrietà rispetto al passato. 

Nel primo slot di canzoni, sostanzialmente analogo a quello dei pre-show televisivi di Berlino e Glasgow, il repertorio classico si materializza con "Barrel Of A Gun" e "World In My Eyes", ma è con "A Pain That I'm Used To" (proposto nella sua consueta variante derivata dal remix di Jacques Lu Cont) che l'atmosfera inizia a infiammarsi davvero, ed è Gahan a incaricarsi del ruolo di incendiario.
Non è un mistero che "The Cat" sia il principale artefice della reputazione che il gruppo si è guadagnato dal vivo in tutti questi anni, e non è difficile affermare che sia ancora oggi l'unico a poter competere con Jagger e Iggy Pop in quanto a presenza scenica. Come se non bastasse, la sua forma vocale pare non conoscere ostacoli.

Il lavoro di Corbijn acquista ancora più forza con le clip proposte sui maxischermi in occasione di "In Your Room" e "Cover Me". In particolare, è la seconda a impedire di staccare gli occhi dalle immagini, nelle quali l'epopea di un Dave astronauta in cerca di mondi migliori cristallizza l'intensità di un brano destinato a diventare un classico del repertorio.
Si divertono, i Depeche, perché è più facile farlo di fronte a un pubblico che storicamente li ha sempre amati. Gore restituisce l'affetto con un paio di regali, ovvero la sorprendente "Judas" (mai eseguita nel tour prima d'ora - che spinge parecchie persone a un'espressione interrogativa degna di Sarabanda) e, poco più tardi, l'intima "Strangelove" in versione piano e voce.

La seconda parte dello show, incentrata su quello che la band per ovvie ragioni non potrà mai evitare (la sequenza di all-time favorites), restituisce sì una sensazione ancora di divertimento, ma anche di routine, esemplificata dall'inconsueto incespicare delle dita di Martin sul riff di "Everything Counts" e dalla necessità di improvvisazione strumentale (già vista nel tour precedente) su "Enjoy The Silence" e "Never Let Me Down Again".
Corbijn riesce nel difficile compito di impreziosire ulteriormente "Walking In My Shoes" (raccontando per immagini la naturalezza di una storia di orgoglio crossdressing) subito prima che la tracklist arrivi alla appassionata cover di "Heroes", particolarmente importante soprattutto per Gahan e rafforzata dalla presenza di una bandiera nera che sventola sugli schermi. Si tratta contemporaneamente di un tributo e di un ringraziamento, dal momento che è stata proprio un'esecuzione del brano del Duca Bianco a permettere a Martin e Andy di notare il talento di un giovanissimo Dave quasi quarant'anni fa.

"I Feel You" e "Personal Jesus" chiudono prevedibilmente il conto con questa serata che fa segnare le due ore e venti di spettacolo e permette di fare qualche valutazione in più sui Depeche di oggi, ben consci di attraversare una fase della loro carriera in cui è possibile tornare alla semplicità degli inizi senza la paranoia di dover giustificare le scelte in scaletta (come la clamorosa esclusione di "Just Can't Get Enough" o di un qualsivoglia brano di "Delta Machine" - ben accolte da chi vi scrive). Sono e restano i re del synth-pop, anche se a farla da padrone dal vivo è sempre più spesso la batteria di Eigner, accreditato nel frattempo a buon diritto anche del ruolo di autore. Non sentono la necessità di dover essere per forza ancora innovativi (come molti fan pretenderebbero, un po' egoisticamente), forse perché sarebbe difficile esserlo oggi che le nuove tendenze passano per sonorità da loro sdoganate trent'anni fa. Possono insomma essere sia tra i patriarchi di un mondo ormai evoluto (dove il mezzo tecnologico è alla base della produzione musicale) sia tra i nuovi appassionati di tematiche sociali in un mondo che ha ripreso ad alimentare le vecchie forme di disuguaglianza ("Going Backwards"). Sulla carta ce n'è a sufficienza per costruire ancora un pezzettino di carriera.