05/02/2017

The Hotelier + Crying

Arci Biko, Milano


Potremmo definirla una nuova “rivincita dei nerd”, non a caso paragonabile a quella già manifestatasi con l'ondata indie degli anni 90. Fa sorridere, ma senza intento canzonatorio, la line-up di questo bel concerto all'Arci Biko di Milano, seconda di due date italiane per i The Hotelier assieme agli emergenti Crying. C'è un'atmosfera da festa di fine anno al collegio, con talenti così giovani e relativamente insicuri nel calcare la scena, per di più in una sala non gremita ma certamente popolata da un pubblico sinceramente appassionato.

Musicalmente esplosivi ma alquanto introversi per carattere, i Crying sono una sensazione nascente dallo stile energico e colorato. Noi di OndaRock li conosciamo bene, dato che il loro recente esordio “Beyond The Fleeting Gales” ha campeggiato nella homepage del sito per l'intero mese di novembre – modestamente, una scelta redazionale piuttosto lungimirante. La formula dei Crying è un alt-pop dalle tinte electro/prog, anche se la formazione live prevede solo voce chitarra e batteria, con l'ausilio di qualche base preregistrata. I vestiti casual e sformati della vocalist, il paffuto chitarrista in polo-shirt e sneakers (ma soprattutto l’attrezzo del mestiere dal corpo verde glitterato), la batterista dagli occhi dolci estremamente concentrata e precisa: il quadro nel suo insieme fa pensare a una sorta di mash-up tra i caratteristi di Napoleon Dynamite e la coolness di Scott Pilgrim, specie quando le apparenze vengono sfatate e i nostri si lanciano in riff micidiali che mescolano tempi dispari, shredding e stoppati al confine col tech-metal.
Benché dal vivo si perda un po’ l’effetto rombante ottenuto con l’abile mastering del disco, l’esibizione è coinvolgente e tecnicamente ineccepibile, fatto non scontato per una band così giovane e al suo primo tour fuori dagli Stati Uniti. Il loro motto, d’altronde, non mente: “The power of three will set you free”.

Così come per l’inizio dalla puntualità svizzera, i tempi del cambio di palco sono serrati e nel giro di dieci minuti gli Hotelier sono pronti a suonare. Meno di un anno fa, al Covo Club di Bologna e all’Astoria di Torino, l’esordio italiano del gruppo cult era stato accolto con un’analoga affluenza di fan, ma la nuova tappa a Milano li vede forti di molte altre date in giro per il mondo, inclusa la comparsata al Pitchfork Music Festival; anche il repertorio è decisamente più nutrito e vario, grazie ai brani intrisi di nostalgia dell’ultimo album “Goodness” (Tiny Engines, 2016).
Ma stavolta l’attacco – tanto prevedibile quanto significativo per chi li segue – è quello del dittico che apre l’acclamato “Home, Like Noplace Is There”, manifesto e capolavoro della nuova generazione emo-punk: dallo straziante incipit rallentato alle liberatorie distorsioni, subito riprese in “The Scope Of All Of This Rebuilding”, sono qui rappresentati in nuce l’intero range espressivo e la qualità di scrittura dei ragazzi di Worcester, Massachusetts, che rincarano poi la dose con il loro piccolo classico “Your Deep Rest” – di certo tra i motivi che li hanno resi noti anche al di fuori del circuito underground. Finalmente la voce del frontman Christian Holden non subisce più cedimenti, ed è certamente la conquista più rilevante per la band, i cui pezzi poggiano molto spesso su un cantato melodico anziché sullo scream.

La produzione più recente, appunto, è annunciata dalla lullaby “I See The Moon”, prima delle nette pennate di “Soft Animal”, il più solido tra gli ultimi due singoli (ma stavolta “Piano Player” viene del tutto tralasciata). Un vero peccato che dal primo album “It Never Goes Out” (allora a nome The Hotel Year) venga sempre proposta la sola “Weathered”, nonostante il debutto discografico fosse tutt’altro che acerbo e contenesse già alcune gemme (“Vacancy” e “Lonely Hearts Club” tra quelle ineludibili).
Dopo un ritorno alla tracklist del secondo album con “Among The Wildflowers” e la conclusiva “Dendron”, l’annuncio del pre-finale giunge con un’inattesa “Opening Mail For My Grandmother”, forse la pagina più apertamente sentimentale degli Hotelier, e infine l’inno “Settle The Scar”, seguito in maniera concitata dalle prime file, che per un’ora hanno continuato a replicare alla perfezione ogni verso dei testi di Holden.

È una domenica sera e si cerca di finire il prima possibile, ma in meno di due ore si è creato un confortante senso di piccola comunità che solitamente, in effetti, ritroviamo proprio nei piccoli concerti in cui le nuove leve del rock indipendente incontrano per la prima volta i loro seguaci.
Da par suo, insomma, il pubblico italiano ha reso onore e dimostrato un affetto sincero per quelli che, nel loro piccolo, potrebbero persino essere tra i nostri futuri portabandiera generazionali.