07/02/2017

Pop Group

sPAZIO211, Torino


Torino è una città strana, con cui ho un rapporto complicato. Ogni volta che ci torno si affacciano ricordi di una certa consistenza. Se poi c'è di mezzo uno dei miei gruppi-feticcio, la faccenda non può che assumere i contorni del pellegrinaggio.
Per la leggendaria formazione di Bristol nutro, a dire il vero, un sentimento bifronte. Se da un lato rimangono la mia band post-punk inglese preferita, dall'altro non ho potuto non storcere il naso di fronte a questo inatteso ritorno in pista: due album non tanto brutti quanto superflui, che nulla aggiungono al mito di un gruppo che preferì sciogliersi dopo 3 anni e 2 dischi, pur di non assecondare le perverse dinamiche dell'industria culturale. Non il tipo di gruppo da cui ti aspetteresti una reunion mossa da ragioni sospettosamente poco artistiche, dopo oltre 30 anni di incorruttibile silenzio.

Ma ciò che conta, d'altro canto, è la Storia, e i Pop Group le appartengono a pieno titolo: destrutturatori di forme di beefheartiana memoria, più prossimi al primitivismo della No Wave che all'intellettualismo dei Gang Of Four, Mark Stewart & C. rimangono gli eredi più credibili di quei Deviants che per primi tentarono in Gran Bretagna una fusione tra coerenza militante e delirio iconoclasta. Ed è proprio alla luce di ciò che i due nuovi album ("Citizen Zombie" del 2015 e "Honeymoon On Mars" dell'anno seguente) suonano vuoti nei contenuti quanto ridondanti nella confezione, e a poco servono i proclami esagitati con cui Stewart tenta ancora di infiammare delle masse sempre più remissive. La speranza è che stasera ignorino le ultime sortite e si concentrino sulle meraviglie del passato...

Ad aprire la serata, interrompendo il graditissimo dj-set che manda a ruota "Good" dei Morphine, è un combo di cui non afferro il nome, dedito a un ambient-dub dagli accenti industrial, abbastanza anonimo e sonnolento. Per fortuna il palco è presto espropriato dai quattro guerriglieri per cui ho percorso tanti chilometri: oltre a Stewart, adorabile gigante dal look autenticamente proletario, ci sono il chitarrista-polistrumentista Gareth Sager e il batterista Bruce Smith, vecchi compagni di brigata, più un nuovo giovane bassista (che in realtà suona una chitarra baritona), mentre dietro al mixer siede nulla meno che Dennis Bovell, mago del dub nonché produttore del primissimo "Y" e dell'ultimissimo "Honeymoon On Mars".
Se è vero che la traccia di apertura delinea il più delle volte il mood di tutto il concerto, imploro il Dio delle scalette di non deludermi e vengo spudoratamente accontentato: "Thief Of Fire" viene dritta dritta dal '79 ed è tra le mie preferite, un selvaggio compendio della loro grammatica, scarica elettrica tutta sincopi & singhiozzi, che si frammenta all'infinito senza spaccarsi mai. Stewart è un prometeo in forma smagliante, mastodontico istrione che pare incombere sul pubblico come un temporale, graffiando l'aria con la sua ugola di carta vetrata.

L'affresco sarcastico di "Citizen Zombie" inaugura un ponte con il repertorio più recente, che con il funky mutante di "Little Town" e "Shadow Child" riesce quasi a far ballare. A ricatapultarci all'inferno provvede la spigolosissima "Words Disobey Me", un tornado epilettico che mano a mano si sfalda come le ultime visioni di un moribondo. Stewart di volta in volta si fa commediante, oratore, stregone, senza un filo di boria, rimanendo saldamente tra anziché davanti il pubblico.
Se "Pure Ones" e "Days Like These" sono torve marce industriali che asfaltano ogni residua speranza di rinascita, l'anti-inno "We're All Prostitutes" sembra volerci schiaffeggiare uno per uno, con Sager a sgolarsi dentro a un sax e Stewart che scaglia occhiate luciferine per colpevolizzare la nostra ipocrisia (a proposito di questa canzone, Nick Cave in un'intervista parlò di "violent paranoid music for violent paranoid times": definizione quantomai calzante!).

Si torna al presente con la drammaturgia robotica di "Zipperface", che occhieggia al Bowie di metà anni 90, cui fa seguito l'ethno-funk "Mad Truth", che non sfigurerebbe in un disco dei tardi Talking Heads. "St. Outrageous" picchia duro e prepara il terreno a uno dei momenti più attesi: "She Is Beyond Good And Evil" è il brano che rivelò al mondo la carica eversiva dei bristoliani, un detournement schizzato che trasforma un riff da disco music in una raffica di scudisciate, in cui non è più importante distinguere i buoni dai cattivi. Nel finale tutto il pubblico intona compatto l'invocazione nietzscheiana del titolo, accompagnando l'uscita di scena di Stewart con i suoi fedeli gendarmi.
Richiamati a gran voce, ci gratificano con due bis. "Where There's A Will There's a Way", singolo ultra-black dell'80 condiviso con le sorelle di spirito Slits, è una golosa chicca per fan, ma l'attenzione è tutta per il finale, reclamato a più riprese nel corso della serata: "We Are Time" è una pietra miliare della new wave oltranzista, con il suo capriccioso giocare a nascondino tra riconoscibilità e inafferrabilità, e i quattro ce la sputano addosso con tutta la cattiveria di cui sono capaci, che nel finale si traduce in una bolgia da giorno del giudizio. Una chiusura più ineccepibile non si poteva immaginare. La compagine si ritira, e io ne approfitto per l'immancabile furto della scaletta a bordo palco.

Sono ko. Mi aspettavo grandi cose, ma questa mitragliata di vetri scheggiati è andata oltre le più scatenate aspettative. E se è vero che lo stacco tra il vecchio e il nuovo è tangibile, le due maree si sono vicendevolmente corroborate: i nuovi suoni hanno tonificato le vecchie canzoni, che a loro volta hanno dato spessore alle nuove composizioni.
Mi avvio all'uscita del locale mentre nella direzione opposta arriva Stewart diretto al cortile. "Thank you, Mark", sibilo con un'amichevole pacca sulla spalla; "Thank you, man", replica lui sorridendo: quasi un saluto complice tra compagni di lotta, un regalo nel regalo, la migliore conclusione possibile per una serata speciale. E se l'operaista Torino, che mi è sempre piaciuto immaginare come l'equivalente mediterraneo di Detroit o Birmingham (ex-pistone industriale decaduto, inevitabile covo di pericolosissimi punk), è stata la culla di tanti movimenti, questo incontro non poteva avvenire in un teatro più appropriato.

(foto di Valentina Sussi)