04/06/2018

Cat Power

Hiroshima Mon Amour, Torino


La gatta randagia è tornata. Prima e unica data da protagonista quest’anno, dopo le due sveltine a rimorchio del carrozzone di Lana Del Rey lo scorso aprile, la serata scelta come anteprima del Flowers Festival all’Hiroshima Mon Amour di Torino appare occasione particolarmente prelibata per tutti gli appassionati, anche per chi intenda saggiare lo stato di forma di una cantautrice discograficamente assente da sei anni – addirittura dodici, se si prende come riferimento il penultimo disco di brani autografi pubblicato – e la cui parabola artistica si è trascinata nell’ultimo decennio in maniera a dir poco tormentata.
La cosa un po’ triste ma per certi versi inevitabile, quando si parla di Cat Power, è quel lasciarsi condizionare dagli stereotipi che da sempre ne accompagnano le gesta dal vivo e che la stessa chanteuse di Atlanta ha in genere fatto ben poco di virtuoso per sconfessare. Un repertorio di vezzi eccentrici che ci riporta alla notte dei tempi, quando anche da queste parti si restava allibiti di fronte ai reiterati colpi di testa dei suoi concerti, tra odiose interruzioni, siparietti volgari e bizze di ogni sorta. Se è vero che la galleria dei capricci è andata evolvendosi negli anni, dalle spacconate alcoliche della fase bohémien alle più preoccupanti turbe emotive della maturità, quando sono sopraggiunti anche seri problemi di salute, sarebbe ingiusto ignorare il faticoso lavoro che la Marshall ha deciso di intraprendere su di sé negli ultimi tempi, sacrificando l’artista per provare a salvare il salvabile della persona.

Suonano allora un po’ sconfortanti le immancabili frasette maliziose che cogliamo distrattamente mentre siamo in coda davanti al locale di via Bossoli, e che non mancano di liquidare in toto le suddette ambizioni di riscatto per condannare la cantante statunitense nella solita, scomodissima mattonella di “pazza bruciata”, o di “performer inaffidabile” quando chi sentenzia voglia esser più tenero. Certo la richiesta di non venir tormentata dai fotografi sotto al palco parrebbe poter dar credito a chi si ostina a sottolineare la natura irrequieta e malmostosa del personaggio, ma come si fa a non considerarla una rivendicazione legittima? Personalmente ci figuriamo un certo imbarazzo, perfino pudore, che immaginiamo legato alla necessità di veder preservata la propria immagine in un frangente almeno in minima parte caratterizzato, anche, da un inevitabile decadimento fisico. Sono illazioni legate alle foto meno datate tra quelle di Cat Power che si trovano in rete, più o meno dalle parti del taglio di capelli corto e platinato o della taglia più abbondante sfoggiati ai tempi del tour di “Sun”: poche indicazioni e di nessuna validità però, insomma, che l’ulteriore lustro trascorso da allora possa aver fatto sfaceli un po’ lo temiamo.

E invece no. Un’oretta più tardi, quando la vediamo apparire in scena, questa preoccupazione va bellamente a farsi benedire. Oddìo, “vediamo” è un tantino grossa come parola, considerata la penombra evidentemente richiesta, destinata a durare una novantina di minuti come lo show, e che avrebbe reso impossibile la serata pure ai fotografi con la miglior dotazione (problema che non si pone per i fan armati di smartphone, a caccia del ricordino/macchia di colore da postare in tempo reale su qualsiasi social). Per quel che si coglie, Charlyn ha un aspetto incoraggiante: decisamente dimagrita, innanzitutto, le chiome lunghe come negli anni d’oro, il passo fluido e persino zampettante che ce la consegna al centro del palco in perfetta solitudine, armata solo di chitarra acustica, sigaretta e un paio di grossi fiori. Nemmeno una settimana fa, un’esibizione in teatro a Sidney per celebrare il ventennale di “Moon Pix”, laddove era stato plasmato, l’ha vista scortare da una piccola orchestra di una decina di musicisti, compresi Jim White e Mick Turner dei Dirty Three. Questa sera non vedremo altri che lei e il tizio che la precede con una tazza di tè fumante, per poi dissolversi subito e riapparire solo quel paio di volte per supporti di natura fonica.
Anche il suddetto rito celebrativo è escluso in partenza, visto che Chan attacca non con “American Flag” bensì con una “Keep On Running” austera e compassata, solo voce e qualche corda flebilmente pizzicata a fendere l’oscurità, mentre il tacco delle scarpe detta il ritmo in maniera rudimentale ma con buona efficacia. I grandi applausi non si fanno attendere e il copione pauperista va in replica subito con la non meno dolente “Yesterday Is Here”, in una versione del tutto trasfigurata non solo rispetto all’originale waitsiano su “Frank’s Wild Years” ma pure alla cover di studio realizzata illo tempore per il lontanissimo esordio, “Dear Sir”. Una “The Party” ancor più dimessa suggella questo stesso mood, mentre il traditional “Kingsport Town” marca uno scarto dal folk asciutto al delta blues.
A parte qualche trascurabile incertezza, sbavature marchiane non se ne registrano, né a livello vocale né sui parchi ricami di chitarra, ma è altrettanto vero che la Marshall osa poco o nulla e mostra di non voler abbandonare la comoda coperta di Linus di questa grigia litania da cuore infranto. Le parole strascicate, offerte in un dispensario ipnotico e quasi narcotico, disegnano un esorcismo lento e a suo modo inesorabile, eppure affascinano meno di quanto si sperasse.

Tra una canzone e l’altra, la cantante si intrattiene col suo pubblico, ma il registro è impostato su un reiterato scambio di complimenti che a lungo andare diviene persino tedioso, quasi stucchevole. Al di là di quel briciolo di tensione iniziale, la quarantaseienne sembra quasi ansiosa di far trasparire la serenità che ha saputo riconquistare dopo un’impervia salita, e forse non conta se la prova di stasera riuscirà stiracchiata, o monocorde. Gli spettatori sono con lei, la incensano affettuosamente; lei si schermisce in una timidezza che non le sospettavamo, e ricambia le attestazioni d’amore arrivando a sostenere che non sarebbe sopravvissuta se non fosse stato per i suoi estimatori.
Con la chitarra elettrica il tenore non cambia di una virgola, ed ecco allora un nuovo titolo, “Wanderer”, legato a doppio filo a un’altra cover rigorosamente stravolta e riabitata come la “Satisfaction” che in questa veste, pressoché irriconoscibile, era già stata presentata su “The Covers Record” e che da allora la Marshall porta regolarmente in tour come una cosa propria. L’intimismo esasperato dal pulsare minimalista si intorbidisce ulteriormente nella forma di un’introspezione cupa, spingendo Cat Power a rivomitarci addosso i demoni della disperazione che fu. “Hate” è fedelissima all’originale e si incastona alla perfezione in questo clima crudo, disadorno, cui pure si presta a meraviglia l’attesissima “Fool”.

Anche per sdrammatizzare, la statunitense offre i fiori con cui si era presentata sul palco a una spettatrice particolarmente prodiga in quanto a lusinghe, e poco ci manca che non rovini a terra nello sporgersi dal bordo. Si accomoda quindi al pianoforte dove riparte con un paio di inediti dall’analogo retrogusto amaro, l’incedere quasi plumbeo, un’intonazione grave degna di Lisa Germano, che è poi la medesima della seguente “Maybe Not”, ulteriore recupero da “You Are Free”. L’ameno alleggerimento dell’ultima fatica di studio è evidentemente un ricordo remoto, il grande escluso di una serata votata alla sobrietà e a un incanto sempre problematico, sofferto e non troppo limpido. La “I Don’t Blame You” che si innesta dopo un colpo di tosse sulle note in coda non sconfessa l’impronta espressiva né le coordinate di riferimento, retrospettivamente parlando, ma alla fine suona un po’ buttata via, più annoiata concretezza e meno estasi aulica. Prova a infondere quel po’ di brio giusto un ulteriore brano mai sentito, in zona Neko Case, che pure riesce fragilino e serve più che altro da antipasto per l’ovvio climax di “The Greatest”, sufficientemente accorata e intensa da meritarsi l’ovazione.
Il set al pianoforte prosegue con la reinterpretazione di “3, 6, 9”, sensibilmente rivisitata in chiave malinconica (rispetto all’originale sbarazzino su “Sun”: eccolo, alla fine) per uniformarla all’atmosfera generale. A ridestare gli spettatori, adoranti ma forse un tantino provati dall’esibizione tanto sentita quanto monocolore della loro beniamina, è l’ennesimo ripescaggio dall’album del 2003, una “Names” rigorosa e orientata all’ortodossia, che anticipa una brillante puntata gospel sul potere benefico dell’amore, anch’essa ignota alle nostre orecchie e presumibilmente destinata a una futura – si spera imminente – registrazione in studio. Accompagnata verso le chitarre da applausi più che generosi, Charlyn fa giusto in tempo a schivare una richiesta per “I Believe In You”, avanzata dal caloroso fan di turno, sostenendo che non la suona da un sacco, quindi si perde in una delle sue proverbiali pause da cinque minuti cercando la perfezione nell’accordatura dell’elettrica, concionando amabilmente di facezie tipo il make-up e dispensando il “Fuck!” di rito con sublime autoironia. Parte quindi la doppietta “lunare” “Werewolf”/“The Moon”, offerta sul velluto a una platea adorante e in religioso silenzio, pur senza entusiasmare davvero. Sono gli ultimi fuochi. Al termine dell’ennesima infilata di moine e sdolcinati ringraziamenti, la Marshall si congeda con i due minuti a cappella di “I Can’t Give You Anything But Love”, già resa popolarissima da Billie Holiday, di fatto per non tornare più sul palco.

“A volte essere stronzi è anche divertente”, ci ha confidato un attimo prima, nel torrenziale flusso di coscienza in cui ha trovato il modo di definirsi una “psicopatica conclamata”, con una schiettezza e un sorriso a cui si perdonerebbe tutto. Sui suoi problemi psichici preferiamo sorvolare, più che altro per scaramanzia, ma è certo che nella bagna di melassa e amore sbandierato, di stronzaggine non se ne è colta una briciola. La scaletta affollata di pezzi nuovi o di titoli da “You Are Free” riflette chiaramente il senso di libertà che caratterizza, almeno nelle intenzioni, il presente di Cat Power, e nel contempo l’esigenza di guardare avanti con la necessaria fiducia. Che sia riuscita a sbarazzarsi una volta per tutte dei suoi demoni è a questo punto plausibile. L’unico problema – ma magari si tratta di una sensazione solo nostra – è che con l’acqua sporca potrebbe esser stato buttato anche il bambino.