08/09/2018

Portico Quartet + Gogo Penguin

Grande Halle de la Villette, Parigi


Come ogni anno, durante la prima settimana di settembre, ha luogo a Parigi il festival “Jazz à la Villette”. Si tratta di un'occasione imperdibile per chiunque voglia avere una panoramica aggiornata su un genere, il jazz appunto, in continua trasformazione e ibridazione, soprattutto in questi anni - e con cui del resto la capitale francese ha un rapporto storicamente intensissimo. La cornice del festival, ovvero la Cité de la Musique all'interno del suggestivo Parc de la Villette, posto ai margini nordorientali della Ville Lumière, è perfetta: convivono l'una accanto all'altra la Philharmonie, uno dei massimi templi della musica classica e contemporanea in Francia (con un programma spesso e volentieri aperto non solo all'avanguardia, ma anche all'elettronica e allo stesso jazz), e la Grande Halle, dedicata soprattutto al pop/rock, sede ogni ottobre del Pitchfork Music Festival parigino. Una scorsa alla lista dei nomi che partecipano al festival di quest'anno non può che confermare l'inesistenza di ogni steccato: a concerti più classicamente jazz, ma comunque sui generis, come quello del trio di Avishai Cohen o quello solista di Brad Mehldau accompagnato dall'Orchestra Nazionale di Francia, si alternano performance di formazioni dedite alla contaminazione (Sons of Kemet, il progetto Afro New Orleanian – Black Indian Music di Christian Scott) e perfino l'esibizione di un nome cruciale della black music contemporanea come Janelle Monae.

La penultima serata del festival ha luogo proprio nella Grande Halle, in un'atmosfera decisamente rock, e pertanto appropriata ai due gruppi protagonisti, Portico Quartet e GoGo Penguin, dal piglio molto poco accademico. Ma il compito di aprire lo spettacolo tocca a un terzo ensemble, i Knower, decisamente i più scatenati del lotto. Il duo losangelino formato dal batterista (e polistrumentista) Louis Cole e dalla cantante Genevieve Artadi si presenta accompagnato da ben due tastieristi e da un bassista e si contraddistingue per la sua interpretazione ironica e paradossale della fusion: vengono infatti proposti una serie di pezzi l'uno più accattivante dell'altro, robotici come da manuale synth-pop, costellati di melodie soulcantate da una Artadi che si dimena sulla scena in maniera parodistica - oppure imperniati su groove funky serratissimi e su improvvisi scoppi di virtuosismo: impressionanti la sezione ritmica e le vorticose scale jazzate dei sintetizzatori. Un po' come se i Devo suonassero i Weather Report, insomma.
Lo scopo è divertirsi e far divertire, e lo testimonia l'attitudine di Cole, dal fisico alto e mingherlino da nerd convertitosi ai rave, occhiali da sole, camicia bianca smanicata e pantalone tigrato. Il batterista non perde occasione, oltre che per cimentarsi in interminabili soli, per intrattenersi in scambi di battute con il pubblico, per lanciarsi in rap osceni e perfino per dare il via a una base dance preregistrata e affiancare la cantante in una coreografia volutamente ridicola.

Dopo lo show scanzonato e provocatorio dei Knower, arriva il momento di fare sul serio. L'illuminazione diminuisce d'intensità, l'atmosfera si fa silenziosa e raccolta – nonostante la sala sia gremita – e i membri del Portico Quartet si apprestano a eseguire la loro musica. Quindi, con le ombre stagliate contro le luci rossastre, i quattro musicisti cominciano a intessere strati su strati di suono, come un'orchestra che si accorda: tra gli svolazzi del sax, gli sfregamenti del contrabbasso e il fruscio dei piatti, si ode emergere un misterioso loop di tastiera. Lasciata da sola nella dissolvenza degli altri strumenti, la cellula ripetitiva rivela la sua natura: è l'inizio di “Endless”, primo brano del recente “The Art In The Age Of Automation” (2017), che risulterà l'album-cardine dell'esibizione – nessuna traccia, invece, del suo disco gemello uscito quest'anno, “Untitled (AITAOA #2)”, frutto delle stesse sessioni di registrazione.
Sono brani costruiti pazientemente, per incrementi progressivi, quelli dei Portico Quartet. Così “Endless” si arricchisce prima del battito gentile della batteria, poi del suono insieme antico e moderno dello hang: è la percussione esotica che caratterizza il sound del quartetto, suonata inizialmente dal membro fondatore Nick Mulvey, la cui fuoriuscita dal gruppo aveva causato un massiccio ricorso ai loop sul pur splendido “Portico Quartet” (2012) e persino la riduzione della ragione sociale da “Portico Quartet” a “Portico” per il decisamente elettronico “Living Fields” (2015). Ma grazie all'innesto del valido batterista e suonatore di hang Kerr Vine, la formazione è tornata agli antichi fasti live, come dimostra lo sfaldarsi di “Endless” in un baluginio minimalista di hang e l'intrecciarsi, quasi senza soluzione di continuità, del suo melanconico finale cameristico con una “Ruins” da brivido, direttamente dal disco del 2012. Il contrabbasso ora pizzicato con insistenza, ora felpato, prepara l'ingresso scenografico della melodia tanto semplice quanto emozionante del sax, un richiamo ancestrale, che evoca lontananze brumose.

Il suono è calibratissimo, l'atmosfera mistica e arcana. Eppure i Portico Quartet non sono algidi né distaccati, le loro (poche) parole con il pubblico sono gioviali e franche. Dal jazz prendono in prestito strumenti e attitudine, dall'elettronica i suoni e la tensione, dall'ambient e dal minimalismo la minuziosa costruzione di atmosfere e la passione per texture sfarfallanti, policromatiche, evitando dunque di cadere nel vicolo cieco dei creatori di suoni puliti ma senz'anima. Così “Current History” riesce nell'impresa di risultare insieme soffusa e apocalittica, oltremondana ma incombente, mentre “Beyond Dialogue” vive del contrasto tra uno hang meditabondo e un carillon sintetico, prima di risolversi in una saturazione in crescendo, figlia del post-rock.
C'è anche spazio per “Isla”, dall'omonimo secondo album, forse la più jazz in scaletta, prima di ritornare a “The Art In The Age Of Automation”. Un'introduzione di pianoforte alla Philip Glass si trasforma negli accordi iniziali di “Objects To Place In A Tomb”, contesa tra silenzio e grandeur, loop sinfonici e ritmo incalzante: questa è la statura della sintesi operata dai Portico Quartet, le manipolazioni sintetiche sono inscindibili dagli strumenti suonati, l'ansia metropolitana convive con un indefinibile esotismo. E a ulteriore riprova dell'ampiezza dello spettro stilistico del gruppo arriva l'umbratile “A Luminous Beam”, al limite del trip-hop, annunciata da disturbi ambientali e accompagnata da bassissimi ronzii di sintetizzatore.
C'è ancora tempo per un ultimo brano, “City of Glass”, ripreso dal disco del 2012, aperto e chiuso da una selva di beat elettronici, ottimo riassunto di tutta la serata. È passata un'ora, ma i Portico Quartet ci hanno fatto viaggiare lontano, con un'esibizione magistrale.

È il momento di una pausa, i pad se ne vanno lasciando il posto a una batteria tradizionale, e appare sul palco un maestoso Steinway: così avviene l'entrata in scena dei GoGo Penguin, sulla carta classico trio pianoforte-contrabbasso-batteria (rispettivamente Chris Illingworth, Nick Blacka e Rob Turner), in realtà fautori di un approccio personalissimo alla materia jazz. Laddove l'elettronica compare direttamente nella tavolozza con cui i Portico Quartet dipingono i loro paesaggi, i GoGo Penguin se ne lasciano meramente ispirare e ambiscono a imitarne certi timbri e cadenze con un suono completamente acustico – al più irrobustito da effetti particolari d'amplificazione. I giovani mancuniani prendono posto senza troppi fronzoli e cominciano con il duetto di apertura del loro album appena uscito, “A Humdrum Star”.
Fatta eccezione per microscopici effetti prodotti dagli altri due componenti, l'introduzione di “Prayer” è affidata al solo pianoforte, che prepara il terreno con un lento e cupo accumularsi di accordi, fino a trasformarsi in “Raven”: grappoli di note avvolte dall'eco vengono lanciati dal piano, e un contrabbasso e una batteria implacabili e concitati vi si sovrappongono, accompagnando incessantemente le successive, disperate cascate di note di Illingworth. L'identità del trio viene subito allo scoperto: non siamo di fronte all'impressionismo cinematico dei Portico Quartet, bensì a un aggrovigliato flusso emotivo, tanto comunicativo ed essenziale nelle scelte melodiche, quanto contorto e instabile in quelle ritmiche. L'influenza elettronica è evidente nella tempesta percussiva dello sbalorditivo Turner e nel superbo basso di Blacka, insieme corposo e agilissimo, così come nelle iterazioni seriali del pianoforte: parte “One Percent” (da “v2.0”, 2014) e si è subito trascinati in un 7/8 ansiogeno. Nei cromatismi vagamente flamenco del pianoforte confluiscono minimalismo e be-bop, finché nel finale una serie di stop&go impossibili riesce a dare l'illusione di ascoltare un disco che salta, o un remix dal vivo di quanto sentito subito prima, da parte di un dj impazzito. L'esecuzione è impeccabile, il pubblico in visibilio: è musica cerebrale, ma suonata con intensità estrema.

“Bardo” attacca con degli staccato effettati di piano che potrebbero preludere a un'esplosione house, prima di dipanarsi in articolate variazioni melodiche, contrappuntate da un tempo dispari imprendibile. “Hopopono”, ancora dal secondo album di quattro anni fa, riluce delle ripetizioni di un fraseggio cristallino in controtempo, enfatizzato dalle armonizzazioni del contrabbasso. Poi, di nuovo pescando dal materiale più recente, l'accoppiata di “Reactor” e “Window” ritorna su toni più inquieti: crescendo geometrici su base drum'n'bass nella prima, arpeggi mesti movimentati tramite frammentazioni hip-hop nella seconda. Tocca alla complessa “Strid”, uno degli apici del nuovo disco, il compito di creare il ponte tra angoscia e dilatazione: inizialmente una frase di basso raggomitolata su se stessa dà luogo a una intricata lotta con dissonanze pianistiche, poi dei vuoti improvvisi lasciati dalla sezione ritmica fanno balzare il cuore in gola e preludono a un diradarsi imprevisto. Infine, il contrabbasso si prende la scena e si avvita in un solo delicato e soffuso, prima che Illingworth ritorni con i suoi accordi solenni.
“Murmuration”, sempre da “v2.0”, funge da preludio al finale di “Transient State”, che si concede armonie più aperte e una ritmica entusiasta, pur senza rinunciare a divagazioni convulse. Il trio scompare dietro le quinte, dopodiché offre un bis, l'unico estratto da “Man Made Object” (2016), ossia “Protest”, il brano più rock della serata, con un groove degno di qualche pagina dei Genesis del periodo di Peter Gabriel, prima di salutare definitivamente l'eccitatissimo pubblico.

Si esce dalla Grande Halle a bocca aperta, con l'impressione di essere spettatori in diretta dell'evoluzione di un genere ancora desideroso di accoppiarsi con linguaggi nuovi, ancora capace di dare voce, senza bisogno di parole, a questo nostro presente spezzato, confuso, gravido al contempo di minacce e di opportunità.

(Photo credits: Carlo Bellingeri)



Setlist

Portico Quartet

Endless
Ruins
Current History
Beyond Dialogue
Isla
Objects To Place In A Tomb
A Luminous Beam
City Of Glass

GoGo Penguin

Prayer
Raven
One Percent
Bardo
Hopopono
Reactor
Window
Strid
Murmuration
Transient State
Protest

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