19/05/2019

Giorgio Moroder

Auditorium Parco della Musica, Roma


“74 is the new 24”, cantava Giorgio Moroder nel 2014. Cinque anni dopo, non solo rafforza la tesi, ma esagera: prima volta in concerto. A settantanove anni! “In passato era impensabile che i produttori abbandonassero i loro studi di registrazione, quel territorio era riservato ai cantanti. Oggi, invece, produttori e dj sono diventati le superstar della musica dance popolare, quindi mi sembra il momento giusto anche per me”, chiosa beffardo. Meglio tardi che mai. E così, dopo essersi trastullato con esaltanti dj-set in giro per il mondo, il baffuto re mida dell'elettronica affronta anche la prova del live con la stessa adorabile incoscienza che aveva indotto il nostro recensore Damiano Pandolfini a definirlo “un simpatico nonno con le rotelle fuori posto, di quelli che ti fanno un sorrisetto complice mentre ti danno le caramelle prima di cena di nascosto dalla mamma”. Ed è in effetti un po' questo, il Giovanni Giorgio del 2019. Autoironico e folle, come e più di sempre, ma anche orgoglioso di poter svuotare idealmente sul palco quell'ingombrante valigione di canzoni prodotte ed elargite generosamente in cinquant'anni di carriera.

Giorgio Moroder live a Roma

Il suo “Celebration of the 80’s tour” (che poi è anche molto “of the 70’s”, a dirla tutta) approda all'Auditorium in una gelida serata romana di maggio. Dentro la Sala Santa Cecilia, però, il clima è già caldissimo. Se non sono i cori da stadio che l'hanno accompagnato nel dj-set di Villa Ada di quattro anni fa, poco ci manca. Alle 21.15, con puntualità teutonica, o meglio altoatesina, il leggendario producer della Val Gardena apre le danze. Lasciando la scena ai suoi nove musicisti e alle sue macchine del cuore, i sintetizzatori. È l'avvio più solenne possibile: il tema di “Midnight Express”, direttamente dalla colonna sonora dell’omonimo film di Alan Parker (in italiano “Fuga di mezzanotte”) con la quale Moroder vinse il suo primo Oscar nel 1979. Sempre dannatamente struggente e liberatorio, con quella epica melodia morriconiana e le suggestioni mediorientali degli arrangiamenti. Uno dei suoi capolavori indiscussi, la cui austerità, però, mette quasi in soggezione il pubblico. E allora Re Giorgio spezza subito quel clima liturgico irrompendo in scena sulle note della sgangherata “Looky Looky”, la sua prima hit portata addirittura al Cantagiro nel 1970 insieme ad Adriano Celentano. Buffo sentirlo cantare, in quell'improbabile motivetto alla Beach Boys che gli valse già un bel gruzzolo, con oltre un milione di copie vendute. E buffo vederlo aggirarsi sul palco un po' impacciato, giacca di pelle nera e occhialoni d'ordinanza, quando lascia il suo terreno d'elezione, la console. Basso e moog, chitarra, batteria, altre percussioni, tastiere e quartetto d’archi e ben quatto voci lo accompagnano sul palco.

Ma è già tempo di fare i conti con il fantasma della Musa suprema, che aleggerà sull'intera serata. “La conobbi a Monaco, dove mi ero trasferito per fondare i miei studi... come si chiamavano? Ah, i Musicland Studios, nel quartiere di Bogenhausen – si ricorda finalmente ridendo – Lei era bellissima e io ero alla ricerca di una canzone sensuale, sullo stile di 'Je t'aime...moi non plus' di Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Lei mi sussurrò quel ritornello 'Love to love you baby'...”. Il resto è storia nota: la doppia versione, ridotta ed estesa, i 23 orgasmi della Bbc (che diventano addirittura 72 nel ricordo di Moroder!) registrati da una imbarazzatissima Donna Summer, chiusa nello studio buio, in rigorosa solitudine. “Era un po' timida...”, ricorda con tenerezza. La celebrazione ad opera delle tre cantanti – ognuna per una tonalità diversa della voce di Donna – le rende il dovuto onore, incontrando l'applauso convinto del pubblico.
Al quarto cantante, invece, è affidato il tema di “The NeverEnding Story”, che fece la fortuna di Limahl e inaugurò il periodo pop del compositore di Ortisei, alle soglie del decennio 80. Ma c'è sempre Donna Summer dietro l'angolo. Ecco allora le tre vocalist chiamate nuovamente in causa con le loro ugole pregiate e i loro svolazzanti abiti multicolori per ridestare il groove disco di “Bad Girls” e “On The Radio”, riaccendendo idealmente la mirror ball dello Studio 54 nell'austera Sala di Santa Cecilia, dove c'è già chi ancheggia e sgomita selvaggiamente tra i seggiolini rossi.

Giorgio Moroder live a Roma

La celebrazione si tinge sempre più d'elettronica con la scintillante “Chase” (sempre da “Midnight Express”) e i suoi synth preveggenti (non a caso, sarà remixata vent’anni dopo dai Daft Punk), seguita dall’elettropop romantico di “Together In Electric Dreams” (inciso all'epoca con Phil Oakey degli Human League) e dalla sempiterna – nomen omen - “From Here To Eternity”, con Moroder al vocoder nei panni che più gli si addicono: quelli di profeta elettronico, di androide ante-litteram.
La cavalcata attraversa idealmente chilometri di celluloide, sapientemente musicati dal baffo altoatesino: il ritmo incalzante di “What A Feeling” di Irene Cara, con i riccioli di Jennifer Beals e i passi di danza concitati della sua controfigura a riaffiorare dalla mitologia di “Flashdance”; le tastiere svenevoli di “Take My Breath Away” dei Berlin (maestosamente reinterpretata dalla bionda e giunonica vocalist) a rievocare le trasvolate e l’amore tra Tom Cruise e Kelly McGillis in “Top Gun”, chiamato in causa anche con la frenetica (e tamarra) “Danger Zone” di Kenny Loggins che Moroder - inforcati i fatidici Ray-Ban a specchio - ci anticipa sarà anche nell’imminente sequel “Top Gun: Maverick”; l’omaggio commosso a David Bowie di “Cat People” – con la voce originale del Duca Bianco – nella prima versione del brano, la più bella, presente nelle colonne sonore del film omonimo di Paul Schrader e di “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino (nella scena-cult in cui Mélanie Laurent dà fuoco ai nazisti). Dagli anni 80, si sa, non si esce vivi, e in un miscuglio di kitsch, lacrime e nostalgia, la parentesi fa breccia sul pubblico ultraquarantenne. Il colpo di grazia sarebbe stato “Life in Tokyo” dei Japan, ma forse era troppo elitaria per la celebrazione.

C’è spazio anche per il passato più recente, con la novelty dance di “Right Here, Right Now”, singolo di traino dell'album “Deja Vu” del 2015, originariamente affidata alla voce di Kylie Minogue, e, soprattutto, con “il tributo dei miei amici marziani Daft Punk, che volevano solo che raccontassi la mia storia, al resto avrebbero pensato loro”: è l’autobiografia funky-disco di “Giorgio By Moroder”, con il suo irresistibile retroglamour da discoteca 70’s trapiantato magicamente nell’era digitale, in un tripudio di sintetizzatori, archi e percussioni. E stavolta sono brividi intergenerazionali, al cospetto di passato e futuro che viaggiano a braccetto in un brano solo.

Giorgio Moroder live a Roma

Sempre in tema di futuro, Giorgio tira fuori dal taschino il racconto che più lo rende fiero: “Un giorno David Bowie, che stava lavorando alla trilogia berlinese negli Hansa Studios, chiese a Brian Eno di pensare a qualcosa di avveniristico. E lui gli fece sentire la mia ‘I Feel Love’, dicendo ‘inutile David, il suono del futuro è già qui’. E aveva ragione”, chiude immodestamente, facendo esplodere il teatro in un applauso. Poi si mette a raccontare nei dettagli il parto: “Chiesi un click (metronomo) sul registratore a 24 piste, poi dissi al tecnico di darmi un do, un sol, un si bemolle e poi fu lui a propormi di mettere il delay”. Il resto, anche stavolta, è storia, con il primo brano disco interamente composto con un sintetizzatore modulare, alias Moog. Apprezzabili gli sforzi interpretativi della cantante, ma la voce di Donna Summer resta naturalmente ineguagliabile. E allora Moroder decide di farcela sentire in tutta la sua maestosità, nell’omaggio di “MacArthur Park” (a firma Jimmy Webb). Si volta verso lo schermo, dove scorrono le immagini della sua prediletta Queen of Disco, e resta a fissarla con gli occhi lucidi: la celebrazione, stasera, è stata anche e soprattutto per lei, stroncata troppo presto, nel 2012, da un tumore ai polmoni.

Moroder sembra quasi non riuscire a staccarsi dalla sua musa, alle quale, in tandem con Pete Belotte, regalò una sequela di hit: “Facciamo un’altra canzone di Donna?”. Ecco allora l’ultimo ballo, “Last Dance” (dalla colonna sonora del film “Thank God It’s Friday”, che contribuì a diffondere la febbre disco), e poi l’eterno riempipista “Hot Stuff”, che scatena le danze sfrenate sotto il palco. “Ho scritto circa 800 canzoni, vorrei farvele tutte, ma non c’è il tempo”, scherza prima del bis. Che arriva con la più spiazzante delle presentazioni: “La prossima canzone è semplice, dovete solo dire due parole: ‘Hot Stuff’”. In realtà le due parole sono “Call Me”, ma gli vogliamo bene lo stesso, anzi di più: il travolgente tema di “American Gigolò” reso immortale dai miagolii sensuali di Debbie Harry è un’altra stilettata nel cuore (infranto) dei reduci 80’s. L’ultima, perché la festa è finita. Moroder ce l’ha fatta anche stavolta. Non sarà riuscito a convincere i suoi detrattori storici, gli snob del rock duro e puro, i piromani di tutte le Disco Demolition Night di questo mondo. Ma, anche stasera, ci ha fatto emozionare e divertire. We wanna funk with you tonight, Giovanni Giorgio. Da qui all’eternità.



Setlist

(Theme From) Midnight Express
Looky Looky
Love To Love You Baby
The NeverEnding Story
Bad Girls
On The Radio
Chase
Together In Electric Dreams
From Here To Eternity
Flashdance... What A Feeling
Giorgio By Moroder
Take My Breath Away
Danger Zone
Right Here, Right Now
I Feel Love
Cat People (Putting Out Fire)
MacArthur Park
Last Dance
Hot Stuff
 
Encore
 
Call Me

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