Trasimeno Prog è un Festival a cura dell’omonima associazione culturale umbra, testualmente “libera associazione per l’organizzazione e la diffusione di eventi musicali, specialmente legati al progressive rock italiano e internazionale”.
Per quanto l’Associazione non disdegni incursioni in altri generi musicali nel corso di monografie tematiche su YouTube e playlist su Spotify, organizzando pure eventi di ogni genere nell’arco dell’anno inclusi concerti dedicati a grandi maestri come nel caso di Robert Fripp, recensioni e interviste, sono i festival a base di musica progressiva tradizionale a darle risalto. Eventi che tiene regolarmente e non necessariamente con cadenza annuale ma talvolta con più manifestazioni nell’arco dello stesso anno a calamitare attenzione tra i cultori più ortodossi del genere.
Nel 2020 due sono stati difatti i festival tenuti e rispettivamente uno online in periodo di lockdown (il Primo maggio e con la presenza seppur virtuale di Steve Hackett) e uno a Castiglione del Lago il 21 e 22 agosto. Anche quest’anno e nella speranza di poter bissare in tempi in cui ascoltare un concerto dal vivo tornerà ad essere cosa possibile, il festival è stato tenuto con contributi online e ha previsto ospiti italiani e internazionali.
Il target rimane più o meno lo stesso ovvero, largo spazio alla tradizione come in uno di quei festival folk che non perde appeal, qualche minima variante su tema a generare un piccolo sussulto, largo spazio alle etichette italiane superstiti che del genere si occupano da decenni, con particolare risalto per le attivissime Black Widow e AMS. Partner dell’evento quest’anno il magazine online “Vivo Umbria”, “Umbria Tv” e “Area Prog” di Marcio Sá, in diretta dal Brasile.
Dopo una breve presentazione dei patron del Festival (l’organigramma è composto da Massimo Sordi, Giannetto Marchettini e Alfredo Buonumori, a cui va riconosciuto un sincero entusiasmo), è il turno del primo video.
Spetta a Paola Tagliaferro aprire e lo fa presentando con eleganza compita il suo nuovo video su YouTube, “Still You Turn Me On”, celebre brano di Greg Lake da lei reinterpretato nel recentissimo album “Paola Tagliaferro Sings Greg Lake”, prodotto assieme alla ex-moglie del celebre cantautore britannico, Regina Lake. È ben nota l’amicizia di Paola con Regina e l’ex-cantante dei King Crimson e del supergruppo fondato con Carl Palmer e Keith Emerson. Un’amicizia che l’ha vista spendersi anche nel fare avere al cantante britannico dalla voce incantata la cittadinanza onoraria di Zoagli (Genova) e nell’organizzare numerosi tributi con la partecipazione pure di Ethan Emerson, talentuoso e giovanissimo nipote ed ex-allievo del “mago delle tastiere” con cui condivide un cognome importante.
Dopo tre album come “Chrysalis” (2010), “Milioni di lune” (2012) e soprattutto “Fabulae” del 2018, Paola si è imposta nel panorama musicale italiano e internazionale come una delle più accreditate interpreti di folk progressivo di sostanza, eleganza e notevole personalità. Dopo la lunga collaborazione con Max Marchini, che ora, ereditate le “chiavi” di Manticore Records e con l’attività magnifica della sua Dark Companion, continua a regalare un gioiello dopo l’altro, si avvale del contributo della Compagnia dell’ES. Una formazione “aperta”, come lei stessa afferma nel video a cui partecipano alcune delle più spiccate personalità dell’underground italico e una leggenda contemporanea come Vincenzo Zitello. L’invito all’ascolto del video, al pari dell’album intero ne riconferma eleganza e carattere (espresso con una teatralità e una passionalità tutte italiche) nell’affrontare un repertorio non complesso tecnicamente ma che richiede una grande levità espressiva. Certi tratti aspri della voce di Paola qui vengono difatti ammorbiditi attraverso il supporto costante di Regina Lake a cercare “dolcezza” e una dizione che in inglese può definirsi di diritto “charmant”. L’operazione è riuscita nel complesso anche grazie allo spirito qui infuso da un intero collettivo che vede davvero l’ensemble farsi unisono per dar luce ad una materia così viva, poetica e pulsante.
È il turno poi dei romani Alchem a presentare un gothic metal evocativo con qualche venatura progressiva nella gestione delle ritmiche. Notevole la presenza scenica della cantante Lisa, che introduce il combo con un breve clip. In quanto a carattere, una delle poche proposte del Festival che rimangono impresse, se non altro per divergenza di proposta.
Segue Tiziana Radis che pure a Roma vive - ed è indubbio, la Capitale, assai vicina alla “tradizione”, è stata sempre innamorata del progressive in tutte le sue declinazioni - a riportare in ambito folk ma col suo ben noto eclettismo interpretativo, degno di chi del canto fa anche suo mestiere in qualità di didatta. Non solo, Tiziana ha una discografia invidiabile in cui ha cantato davvero di tutto e questo le fa solo onore. Dopo la sua proposta delle celebre “Nights In White Satin” dei Moody Blues, offre un proprio brano cantato con un incantevole timbro, talvolta fragile, potente a tratti, duttile in dinamiche ed estensione e pur prodigo di convincenti vocalese jazzy. Un’interprete autentica, senza dubbio.
Una donna ancora in tempi in cui pur sarebbe ora dar spazio a chi tra di loro è stata in questo ambito accolta solo in qualità di “Miss B(i)eatch” con Eva Morelli a presentare Il Bacio della Medusa. Nel videoclip mandato in onda la band propone una ben fatta e personale declinazione del prog italico anni 70 con la presenza (anche) di ritmiche elettroniche. Emerge la bella voce rock di Simone Cecchini, graffiante e di grande impatto declamatorio. La chitarra solista si muove su cliché frippiani ormai consunti. C’è spazio anche per piacevoli soluzioni funky.
Sophya Baccini dedica un brano strumentale tra classica tradizione tardo-romantica (quando in casa prog italica arriveranno 900 e anni 2000 di Simon Steen-Andersen e Stefan Prins rimarrà solo qualche insulto e la convinzione che è il prog “la classica del nuovo millennio”) e minimalismo tardo nymaniano (e dunque pur sempre “romantico”). Del resto, “The Heart Ask Pleasure Fi(r)st”. Il tutto nella tradizione dei keyboard heroes dei 70, ma non estraneo a un carattere di danza popolare. Il tocco di Sophya è innegabilmente eccellente e lei propone musica elegante, senza dubbio alcuno. Il suo look affine alla Black Widow incontra l’immaginario dark cosplayer che in qualche modo ha riguardato quasi tutte le donne che si sono esibite in questa rassegna. A seguire e qui finalmente inizia a emergere il fatto che è il Primo Maggio, cosa a cui nessuno sembra far riferimento in musica, “La Canzone del Soldato” dice Sophya, cosa che conduce la mia mente a un brano del grande Raffaele Viviani (uno che calcò le assi dell’Olympia di Parigi e si distinse per il suo teatro sociale antifascista), attore, commediografo, poeta e compositore campano attivo dai primissimi del 900 e fino alla metà degli anni 50 vicino ad Ettore Petrolini e Nino Taranto. Un uomo che scrisse “i fascisti non avevano capito che la coscienza nazionale si sviluppa solo valorizzando in pieno l'arte e la cultura che la genialità del popolo crea in ogni regione” ma che al tempo stesso voleva fondare un Teatro Stabile Nazionale a Napoli per fondere tradizione e innovazione. La Baccini di suo propone un brano dal titolo più specifico “O Surdato e Gaeta” tratto da un musical dedicato a Il Movimento per un Nuovo Sud. La sua è una proposta di estrema delicatezza, a tratti commovente a lasciare che il racconto delle liriche arrivi poco a poco ma in maniera chiara, il tutto con accompagnamento di una chitarra classica. Grazie Sophya, un momento gradito.
Elisa Montaldo dal canto suo porta con classe, umiltà rara il bene più prezioso, eleganza, un fascino e una presenza scenica che la rendono l’indiscutibile “regina del prog nostrano”, un messaggio importante. “Fare della propria passione il proprio mestiere”, dice con la forza e la naturalezza che la caratterizzano e dedica ai suoi telespettatori un medley di nobilissimo piano-bar in cui alterna a sue composizioni (anche con Il Tempio delle Clessidre) altre celebri come “Thick As A Brick” dei Jethro Tull, “Tubular Bells” di Mike Oldfield e “Old And Wise” (Alan Parsons Project), tutte eseguite con gusto personale. C’è spazio anche per Led Zeppelin e King Crimson, con una voce, la sua, che incanta in particolar modo sulle frequenze più acute.
La sezione centrale del concerto è stata a mio avviso la più avvincente in termini di proposta, nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista. È sicuramente quella che potrà regalare agli appassionati del “non genere prog” o del “prog di genere” soddisfazioni in un futuro non lontano e già maturo.
A inaugurarla, Barbara Rubin che ha anche proposto il set di maggiore intensità emotiva. Insegnante di musica, polistrumentista, cantante e compositrice, propone in questa occasione musiche per pianoforte, violino e voce, eseguite con un piglio solo apparentemente austero e una maestria indiscutibile nella gestione delle armonizzazioni tra tardo Ottocento, primissimo e tardo Novecento mitteleuropei. Una musica che non risparmia l’impiego di intervalli musicali importanti anche in quanto a soluzioni vocali più vicine al percorso di Keith e Julie Tippett, Joni Mitchell, Laura Nyro, Lisa Germano, Tori Amos. C’è personalità nei solchi dei suoi tanti riferimenti culturali, mescolati da uno spirito inquieto a prendere forma completamente nuova. Una ricerca intensa che allontana il progressive rock propriamente detto per diventare “attitudine progressista e musica di confine”, avvicinare certa scrittura filmica d’intensità drammaturgica e piglio estraneo a concetti di spazio e tempo (Z. Preisner) quanto il cantautorato colto. Qui alberga confessione autentica in un racconto condotto con emotività, che non cerca alcun eccesso, ma assoluta consapevolezza del mezzo tecnico mai inteso come fine. Una musica che deve varcare i confini italici e alla quale un Festival prog pur nobile sta troppo stretto. Lei merita teatri da one woman recital di tutto rispetto. Chi ha eseguito il montaggio del video concerto ha avuto senza dubbio mezzi culturali, intelligenza e gusto per operare le scelte più congeniali, in quanto ad alternanza almeno…
A seguire difatti c’è il classico rock progressivo italico targato 1971-72 (son passati cinquant’anni e vale la pena ricordarlo) ricco di rimandi fiabeschi nei testi a parlare in sequenza di principi, principesse, draghi, castelli incantati che si rivestono di “un manto d’argento”, carrozze, angeli, happy end, bambini felici. Che bello il prog, mentre fuori la gente s’azzanna e Brecht è in bocca ai difensori dei fascisti che si fanno chiamare “nuova destra populista”! Il cambio di atmosfera diviene radicale e si passa da una musica che richiede coinvolgimento attivo a livello emotivo (e che difatti tra i commenti social non riceve neanche mezza citazione) a una che diviene gioioso intrattenimento fatto benissimo e che di consensi dal pubblico a casa ne riceve immediatamente. Vanno “in scena” Stefano Giugliarelli e Antonio Brozzi ed è un tuffo indietro, fra moog, aperture sinfoniche, assoli e frammentazioni ritmiche. Mi auguro di cuore che qualcuno prima o poi capisca la differenza tra “fare musica e cercare la propria musica”. Il primo è un percorso che si realizza con mestiere, l’altro si realizza con un prezzo da pagare spesso altissimo.
“È festa” della Pfm, suona il duo, con voce un po’ traballante ma con una resa tecnica superiore a quella a cui la band milanese autrice del pezzo ci ha abituati nei decenni. A seguire è “Ballerina di un’antica danza” ed è come precipitare in una sagra di musica popolare con pretese intellettuali. Il testo “non è legale” nel 2021 perché niente ha di Tolkien tra maghi e fate che non tardano a farsi attendere. È puro cliché pescato dalla memoria ed esasperato nella forma al fine di “piacere” e “fare prog che più prog non si può”. Musica per chi ha deciso di fermare l’orologio indietro per celebrare in eterno la propria giovinezza, desiderio peraltro legittimo e assai diffuso, pur in forme diverse. Una sorta di “balera prog”. Musica per chi è giovane e non può più cogliere lo “spirito di un’epoca” ma solo la sua forma. Questa però è opera che ha le carte in regola per conquistare il mondo del progressive pop a livello internazionale più di qualsiasi cosa fin qui ascoltata (e questo è anche il mio augurio più sincero) perché il duo “fa” musica, ma la fa assai bene e questo è indiscutibile e ciò che insegna l’attuale cultura del citazionismo puro è “fare bene” quel che conta, non importa cosa, ma “come”.
In un bizzarro andirivieni di forme alquanto eterogeneo, emerge una delle tante sfaccettature del goliardicamente serio mondo degli italo-tedeschi Niccolò Clemente e sodali, qui nominata Winero Band (membri Wirikik, Nevskij e Rovembecker… pseudonimi ma con cognizione di causa). Per chi non ne fosse pratico, il mondo di Clemente è dichiaratamente affine alla performing art in senso lato e poliartistico. Intuizioni estemporanee, trasformazione dell’errore in risorsa, psichedelia, prog “sperimentale” che traduce in brandelli le avanguardie storiche degli ultimi 150 anni e le centrifuga per bene con dovuto tasso alcolico. Zappiano? Nooooo, null’affatto. Non ci sono elementi di dissacrante volgarità elevati a Olimpo classico contemporaneo qui in mezzo, ma uno spirito da chi non si prende sul serio ma sa perfettamente cosa vuol dire esserlo, seri. Fin troppo. Musica apparentemente per “nerd” più che per intellettuali, ma avvincente come poche. Di quelle che all’antica Rassegna di Musica Diversa Omaggio a Demetrio Stratos o al Freak Show Art Rock Festival di Würzburg avrebbe (o può, qualora gli eventi dovessero aver luogo in un futuro prossimo) la possibilità di furoreggiare senza dubbio.
A parlar di pennuti il nuovo Ep di recentissima pubblicazione che introduce anche elementi di recitarcantando multiottava. Qui tra pittura, musica e videoarte (dopo un esilarante monologo iniziale finto drammatico che nel mucchio suona come una benedizione) è presentato “I barbagianni ti puntano”, brano dalle trame psych, assai aereo nei suoni chitarristici e con suoni avveniristici dosati con dovizia alchemica. Breve spunto, troppo per tanta grazia.