09/11/2022

Stereolab

Magazzini Generali, Milano


Per quanto tempo ancora dovremo scontare quel maledetto 5 luglio '71 al Vigorelli? Un anatema a vita che continua a perseguitare generazioni di incolpevoli appassionati, piombato sul nostro paese dopo il disastro per eccellenza della musica dal vivo italiana. Ormai ci si può programmare la sveglia: quando un artista straniero annuncia le date del suo tour europeo, un vistoso buco si dilaterà in prossimità dello Stivale. Gli Stereolab non fanno eccezione e non mi era proprio andata giù l'esclusione tricolore dalla reunion del 2019, ma finalmente l'attesa è stata ripagata, con un misto di incredulità e trepidazione. Anche un filo di malinconia, a dire il vero, per un anniversario e una coincidenza altrettanto dolorose: il ventennale dall'assurda scomparsa di Mary Hansen e la recentissima evaporazione di Mimi Parker, essendo stati i Low la prima band che abbia mai visto live ai Magazzini Generali.

A lavar via le lacrime provvede il nubifragio che da ore sta frustando la Capitale Morale. Arrivo al locale zuppa come una gatta randagia, in contrasto con l'aplomb da piano bar in Costa Azzurra di Julien Gasc, che scalda i motori con un opening inatteso: mise tra il modello Lacoste e il golfista della domenica, armato solo del fido laptop e della sua improbabile presenza scenica, con un pugno di vellutate chanson da soft porn apre lo stomaco per l'avant-lounge del piatto forte. Meglio centrata la selecta, inaugurata dall'immortale "Goodbye Pork Pie Hat", e assai invitante quello si intravede sul palco: la mascotte Cliff disegnata sulla cassa della batteria, un paio di Jaguar, un Prophet e un Fender Rhodes - no, strano ma vero nessuna Farfisa.
Miss Modular entra in scena con uno dei suoi adorabili vestiti floreali, ricordandomi che musa determinante sia stata per la mia fatidica femminilizzazione; tutto il contrario dell'ex-compagno Tim Gane, uomo da sempre allergico all'eleganza, al solito conciato con le prime cose che deve aver pescato dall'armadio.
Anche l'attacco è all'insegna di un'informalità da sala prove: la tintinnante "Neon Beanbag" viene lanciata nel suo scanzonato trotto da un secco quattro di bacchette, con Laetitia che, a differenza del fonico, entra subito in parte. Una tonica "Laisser-Fair", con la frontwoman a imbracciare anche la chitarra, introduce uno dei leitmotiv della serata: l'annuncio di ogni singolo brano in scaletta con sorridente formalità da Signorina Buonasera, in un trionfo di quel distacco ironico che è uno dei marchi di fabbrica della stereolabia (al pari dell'indiavolato solo velvettiano di Gane).

"Eye Of The Volcano", con il suo anomalo incedere progressivo, prepara il terreno a quello che rimarrà forse il momento più memorabile della serata: i 17 minuti di "Refractions In The Plastic Pulse" costituiscono un polittico mirabile nell'illustrare la gamma espressiva della band quanto l'imperscrutabilità di Laetitia, maschera vivente di tic tra lo scostante e l'impacciato. L'intermezzo psichedelico di "U.H.F. - MFP" viene messo tra parentesi dall'anthemica "Miss Modular", il più credibile autoritratto di questa iconica sciantosa, che si diverte a calarsi nel ruolo tra rintocchi di tamburello e balletti alienati.
E il modulo si ripete: le vibrazioni acide tornano protagoniste su "Mountain", addolcite dalle sincopi mambo e dalle citazioni poppettare di "The Free Design"; l'affondo tossico di "Harmonium" graffia, l'ipnosi minimalista di "I Feel The Air (Of Another Planet)" ristora. Con queste giustapposizioni tra la fronda oltranzista (l'asse Gane) e quella riformista (l'asse Sadier) gli Stereolab non fanno che provare la portata del loro congruente eclettismo. E capita anche che le due anime si sovrappongano alla perfezione nella shoegaze-bossa di "Pack Yr Romantic Mind", accolta da un boato che stona con la sua delicatezza. Un leslie cavernoso introduce il super-classico "Super-Electric", robusta cavalcata che ben si sposa con i titoli di coda.

"If you shout louder we'll play three more songs", promette Laetitia in uno dei suoi picchi di understatement, prima di trasformarsi in un oscillattore umano nel valzer incantato di "Delugeoisie", un saggio su come potrebbe suonare Kurt Weill arrangiato da Martin Rev. È invece pura adrenalina lisergica quella che innerva la spaziale "French Disko", sostenuta con la consueta infallibilità dal drumming di Andy Ramsay. Il batterista viene però deposto a sorpresa dal pulsare ovattato di una Seeburg Rhythm Prince, preludio di quella "Simple Headphone Mind" in origine affidata agli offici dello stregone Steven Stapleton, riproposta di fresco sul quinto capitolo di "Switched On" (che funge anche da giustificazione per il tour in corso). Dissonanze a più non posso riacciuffate da un motorik familiare e, per palpare di striscio gli amati anni 60, una sberla di euforia surf. Dopo tanto girovagare simbolico, il circo vintage può smontare il tendone.

Le presentazioni membro per membro fanno molto classic rock, a sconfessare l'aura blasé di questi lievissimi intellettuali. Qualcuno del pubblico, forse per ammiccare al retroterra marxista della brigata, saluta con il pugno chiuso. Massì, aderiamo in massa a questa gioiosa Sesta Internazionale, sperando non debba mai darsi una destereolabizzazione.