19/07/2022

Suzanne Vega

Casa del jazz, Roma


Un angolo di Greenwich Village a due passi dal centro di Roma, poco clamore e soprattutto Suzanne Vega. Da queste parti la aspettavamo ormai dal 2014, quando si era esibita all'Auditorium in compagnia di Joan As A Police Woman e Cat Power, nel 2018 invece aveva dato forfait all'ultimo secondo non per colpa sua ma di un violento acquazzone. Stavolta magari una pioggerellina non ci sarebbe stata male viste le temperature che in questi giorni stanno soffocando la Capitale, per fortuna ad accogliere la folksinger di Santa Monica c'erano un'arietta tutto sommato respirabile e qualche seggiolina numerata in più del solito aggiunta in extremis dallo staff di Villa Osio per soddisfare l'elevata richiesta di biglietti.
La serata si inserisce nell'ambito della rassegna “I concerti nel parco” ed è tappa del tour di “An Evening Of New York Song And Stories”, album live che da qualche tempo sta portando a spasso per il mondo assieme al chitarrista dublinese Gerry Leonard, amico e collaboratore di lunga data che in passato si è fatto apprezzare anche al fianco di David Bowie.

 

Umanità, bellezza, stile ed eleganza: il suo repertorio folk-pop venato di psicodrammi ha spianato la strada a un'intera generazione di cantautrici d'oltreoceano, oggi Suzanne Nadine Vega ha qualche annetto in più, sessantatré per l'esattezza, eppure è in splendida forma e non meno smaniosa di raccontare. Le sue sono storie senza età, musicate con arrangiamenti esili, ma le emozioni che trasmettono gonfiano il cuore. Poche settimane fa ha avuto il Covid ma non sintomi tali da fermarla, così finalmente intorno alle 21.30 sale sul palco con qualche minuto di ritardo sull'orario previsto, un “ciao Roma!” per rompere il ghiaccio e partenza sprint con quello che resta probabilmente il suo vero capolavoro, “Marlene On The Wall”. Già, come dimenticarla? Era il 1985 e stava appena iniziando a farsi conoscere nei piccoli club della Grande Mela, la foto di Marlene Dietrich appesa ai muri della camera da letto e un tumulto dell'animo che di lì a poco sarebbe imploso in una narrativa carica di sofferenza. Benvenuta, quindi arriva “Small Blue Thing”, altra perla intimista e malinconica dall'eponimo disco di debutto: la scenografia è scarna, niente riflettori accecanti, giusto quel paio di luci necessarie a illuminare lei e Leonard, del resto anti-diva lo è sempre stata ma quanto a personalità ne ha da vendere e non perde occasione per confermarlo. Il terzo brano in scaletta, “Caramel”, è tratto da “Nine Objects Of Desire” del 1996 ed è una sofisticata bossa nova che all'epoca dell'uscita aveva lei stessa dichiarato di voler ricamare sulle fattezze melodiche di Astrud Gilberto, a testimonianza di una sbalorditiva poliedricità che le consente di svariare con disinvoltura tra i generi.

Non c'è un attimo di sosta ma solo simpatiche pause, quelle sì, piazzate al punto giusto per coinvolgere la platea con gustosi aneddoti sulla genesi dei testi, la romantica “Gypsy”, ad esempio, “la dedicai a diciotto anni al mio primo boyfriend, lui ne aveva ventuno e ci legava l'amore per Leonard Cohen. Doveva essere una specie di segnale dal Paradiso, credevo che saremmo rimasti insieme per l'eternità... ehm, tranne che d'estate...”. Risate tra i presenti, esiste anche una “part two” sull'addio ed è la bellissima domenica di “In Liverpool”, nostalgia di un orologio che batteva sempre la stessa ora e nessun motivo adesso per ricordarsene. Magia dell'estate, alla Casa del Jazz però è martedì dunque si può passare oltre con il classicone “The Queen And The Soldier” e un'energica “When Heroes Goes Down” (da "99.9 F°") in omaggio a Elvis Costello.

Nuovo mini-intervallo e spazio alle chiacchiere, col cilindro in testa e il ventaglio a portata di mano il recital si fa così confidenziale che sembra di essere a un teatro di cabaret. “Rock In This Pocket” (riesumata già nello scorso marzo per l'evento "A Benefit For Ukraine") è un saggio elettrico di come dovrebbero andare le cose nell'universo dei perdenti ma talvolta il destino si può capovolgere, basta volerlo: i personaggi sono Davide e Golia, "poche sere fa l'ho spiegato a Trieste e poi ho domandato 'sapete chi vince?', uno degli spettatori allora ha gridato 'Golia', non ci aveva capito nulla” ma va bene così, speriamo abbia imparato la lezione perché in fondo c'è sempre una via di fuga e si chiama “Horizon (There Is A Road)”, una delle canzoni relativamente più recenti (da “Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles” del 2014) e meno osannate, qui nobilitata da un'altra performance d'alta scuola. Ci pensano “Solitude Standing” e “Left Of The Center” a riportare le lancette indietro ai tempi d'oro, quando disagio e sogni di emancipazione si affacciavano nelle classifiche intrecciando filastrocche metropolitane a un paio di accordi acustici. Suzanne Vega non indossa mai il bianco ed è facile intuire il perché, è il momento di “I Never Wear White” e ci scherza su indicando alla platea  l'outfit scurissimo, pantaloni e maglietta neri come l'umore della successiva “Some Journey”, altro gioiellino che rievoca gli esordi.

Che meraviglia, sorseggiamo un po' d'acqua ed eccole lì, le hit più attese e orecchiabili, una dopo l'altra “Luka” e “Tom's Diner” che nel 1987 spopolavano su Mtv rivelando al pianeta l'eccezionale talento di chi in fondo voleva solo riscattare un'infanzia difficile portandone in scena le cicatrici con tatto e sobrietà. Ovazione, un finto “arrivederci” ma nessuno ci crede, difatti poi chiede “do you want some more?”: certo che sì, il bis è d'obbligo e si tratta di una “very very New York-song, non l'ho scritta io ma Lou Reed” grazie al quale nel 1979 tutto ebbe inizio, Suzanne Vega era poco più che una ragazzina e capì che la propria vita l'avrebbe trascorsa dietro al microfono, stregata alla Columbia University da un concerto dell'ex-leader dei Velvet Underground. Sappiamo tutti come sarebbe andata, in seguito “l'ho incontrato centinaia di volte ma 'Walk On The Wild Side' dal vivo l'ho ascoltata solo quella sera, così ho deciso di rifarla per voi”.
Tributo toccante e doveroso a un mito, siamo alle battute finali e c'è bisogno di un diversivo sarcastico per sdrammatizzare: ecco “la canzone più felice che ho mai composto”, si intitola “Tombstone” ed è un altro dei nove oggetti del desiderio. Risatine compiaciute e rime spiritose come una lapide, in compenso il ritmo jazzato è allegrotto per davvero. Chiusura di classe con “Rosemary”, discreta e inafferrabile come la sua anima inquieta: a questo punto diremmo “cala il sipario” anche se non ci sono tendaggi, Suzanne Vega saluta con grazia e alle 23 circa scappa via senza concedersi ai selfie. Pazienza, alla prossima, una voce e due chitarre sono l'autografo più prezioso che porteremo nel cuore.

Setlist

Marlene On The Wall
Small Blue Thing 
Caramel
Gypsy
In Liverpool
The Queen And The Soldier
When Heroes Go Down
Rock In This Pocket (Song Of David)
Horizon (There Is A Road)
Solitude Standing
Left Of The Center
I Never Wear White
Some Journey
Luka
Tom's Diner
Walk On The Wild Side (Lou Reed cover)
Tombstone
Rosemary

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