22/10/2022

Xavier Rudd

Carisport, Cesena


Xavier Rudd non è mai stato un tipo banale, deve essere per questo che sin dai tempi dell'album d'esordio “To Let” ogni volta c'è a precederlo un carico di ammirazione mista a curiosità. Dal giorno del debutto sono trascorsi ormai venti anni esatti, in cui il tatuatissimo one-man-band australiano, classe 1978, si è distinto per un impegno artistico denso di significati. Nessun atteggiamento da profeta o santone, come è stato più volte idealmente etichettato, solo battaglie personali combattute attraverso una formula variegata e impossibile da inquadrare in un unico genere, ma che mira dritto ai cuori delle persone.
L'ultima apparizione in Italia risale al 2019, ora l'uscita del decimo album in studio “Jan Juc Moon” è quasi un pretesto per ritrovarsi, dato che il legame affettivo con il Belpaese non si è mai interrotto ed è certificato dal calore ricevuto, in passato come oggi, ovunque si sia esibito dalle nostre parti.

 

Cesena è la terza tappa di un mini-tour che oltre alla cittadina romagnola abbraccia anche Trento, Padova, Venaria Reale (Torino) e Milano: l'evento si preannuncia festoso e carico d'adrenalina, d'altronde nell'area adiacente al Carisport sono state allestite da qualche giorno delle giostre, peraltro affollatissime, che hanno riportato per le strade una scossa di vivacità. Dopo le recenti restrizioni dovute al Covid ci voleva proprio, gli orfani della buona musica vogliono divertirsi e così dai tendoni, dalle baracche e dalle roulotte circostanti il Luna Park si trasferisce all'interno dello storico palazzetto.
Non ci aspettiamo la folla delle grandi occasioni, tanto più che siamo alla vigilia dell'attesissimo derby Cesena-Fiorenzuola, e invece già intorno alle 20 i seggiolini sono sorprendentemente quasi tutti occupati. Merito dell'amico fraterno Bobby Alu, opening-act proveniente anch'egli dell'altro emisfero, che apre le danze con camicia hawaiana e ukulele. L'aria si fa subito elettrica, “It's Time”, “Move”, “Samoa Silasila” e un'ottima cover di “Just The Two Of Us” (originale di Bill Whiters e Grover Washington Jr.) sembrano traghettare gli spettatori sulle spiagge assolate della Gold Coast, ma lasciano dentro quel velo di malinconia tipica del reggae.
La voce profonda di Alu e le sue canzoni, che uniscono pacific sound a contaminazioni world, sono incredibilmente simili a quelle di Rudd, tant'è che qualcuno tra i meno informati ci chiede se il concerto vero e proprio non sia già cominciato. Non è così e in fondo ne siamo contenti, dato che per essere un warm-up il livello è alto.

 

A fugare ogni legittimo dubbio ci pensa però il diretto interessato, che verso le 22 sale sul palco con una mezz'oretta di ritardo sulla tabella concordata. Le luci soffuse lasciano intravedere la muscolosa sagoma da surfista, sulla sinistra campeggia una luna in cartapesta e alle spalle di batteria e doppio didgeridoo si accende improvvisamente a mo' di totem una gigantesca aquila stilizzata che fa da sfondo a “I Am Eagle”, inno d'apertura del nuovo disco. Chi conosce il cantautore di Torquay sa cosa aspettarsi: trip energici ed emozionali che parlano di libertà, diritti delle minoranze, tutela dell'ambiente e connessione spirituale.
Fa il suo ingresso in scena a piedi scalzi, come d'abitudine, e dallo sgabello dirige gli strumenti come fosse un re seduto sul trono: con “Full Circle” (da “Spirit Bird” del 2012), “Stoney Creek” (da “Jan Juc Moon”) ed “Energy Song” (da “Food In The Belly” del 2005) entriamo presto nel vivo di uno spettacolo che alterna con disinvoltura percussioni, steel guitar, ritmi dance e momenti di riflessione, valorizzati ora da un sound artigianale che imita l'elettronica ora da una trance auto-indotta sussurrata a occhi chiusi.
Difficile non lasciarsi andare al grido di “jump, jump, yep, everybody jump!” (“Slidin Down A Rainbow”), “We Deserve To Dream” invece medita candidamente tra le debolezze interiori ed è un chiaro invito a ricercare la felicità in quelle piccole gioie quotidiane che molti di noi oggi non riescono ad apprezzare, eppure sono lì a portata di mano. Meritiamo di più, meritiamo di sognare: “Storm Boy” è una presa di coscienza e un atto di fiducia nell'altro, ispirato da un omonimo film del 1976 che racconta l'amicizia tra un ragazzo e un aborigeno in una regione sperduta dell'Australia, mentre con “Messages/Guku” l'attenzione si sposta su problematiche green e intanto fa il suo trionfale ritorno sul palco il riccioluto Alu, ormai adottato dai presenti.

In due lo show funziona ancora meglio, si intendono con uno sguardo, sono figli delle stesse lotte e nelle loro vene ribolle il sangue degli oppressi. “Ball And Chain” è la riscossa dei sopravvissuti alle colonizzazioni europee: Alu fa le veci qui del rapper conterraneo J-Milla (che aveva duettato con Rudd nella studio-version del brano, ndr), poi prende parte anche al reggae-folk “Come Let Go” (da “White Moth” del 2007) e a “Rainbow Serpent” - nella mitologia locale il serpente arcobaleno è paragonato al dio creatore, che preserva le pozze d'acqua dalla siccità. L'intensa ninna nanna acustica “Jan Juc Moon” viene introdotta dalla registrazione del battito cardiaco del figlioletto Jundi e porta il nome della cittadina litoranea in cui Xavier aveva imparato da bambino a cavalcare le onde (si trova a un centinaio di chilometri da Melbourne). Quindi arriva il momento clou con la splendida “Great Divine”, enfatizzata al piano, e soprattutto con la struggente “Spirit Bird”, dove centinaia di voci all'unisono intonano il coro “emannahyo yo yo yo” strappando qualche lacrima e cancellando definitivamente le transenne tra pubblico e artista, se mai ce ne fossero state.

 

Durante l'esecuzione di “Lioness Eye” l'aquila che ci ha accompagnato sinora si trasforma in criniera, il leone vero però è quello che ruggisce sul palco e interpreta con apparente facilità un pezzo in realtà complicatissimo, che per mantenere il prolungato effetto no-stop necessita di una faticosa tecnica chiamata “respirazione circolare”, oltre che di una forma fisica al massimo della prestanza. Non tutti avrebbero potuto permetterselo, per fortuna Rudd è ancora giovane e aitante e sceglie di congedarsi con la sua hit in assoluto più celebre, “Follow The Sun”, regalandoci uno speranzoso messaggio da tramandare (“Tomorrow is a new day for everyone/ brand new moon, brand new sun”).
Il doveroso e prevedibile encore è affidato alla lisergica “Culture Bleeding”, che ipnotizza di nuovo la sala con sonorità ossessive prima che l'ottimista “Magic” chiuda la scaletta, e stavolta per davvero, con una dedica speciale “a quanti abbiamo perso lungo il cammino”.

 

Resta qualche minutino per uno stretching terapeutico del corpo e dell'anima: a microfoni spenti il cantante balzella sul palco battendosi i pugni contro il petto con movenze tribali, e sul parterre fanno lo stesso, in molti scalzi a loro volta. A questo punto possiamo dirci soddisfatti e ci salutiamo, provati ma felici e con la sensazione di uscirne arricchiti per mille ragioni, ciascuno trovi la propria. Più che una serata in musica è stata una bellissima celebrazione della vita: grazie a entrambi, Xavier Rudd e Bobby Alu, chi c'era difficilmente potrà dimenticare.

Setlist

I Am Eagle
Full Circle
Stoney Creek
Energy Song
Slidin Down A Rainbow
We Deserve To Dream
Stormy Boy
Messages/Guku
Ball And Chain
Come Let Go
Rainbow Serpent
Jan Juc Moon
Great Divine
Spirit Bird
Lioness Eye
Follow The Sun
Culture Bleeding
Magic

Xavier Rudd su Ondarock

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