16/02/2023

Emma Ruth Rundle

Teatro San Leonardo, Bologna


Suonerò ancora un paio di brani. Siete ovviamente liberi di andarvene, nessuno vi giudicherà

Come se avessimo scelta, in questa notte invernale a Bologna, dopo che Emma Ruth Rundle aveva democraticamente scelto - metaforicamente si intende - di sprangare ogni via di uscita del Teatro San Leonardo sin dalla sua comparsa dalla penombra della suggestiva location.
Alle 22 in punto iniziava il viaggio dell’americana nei percorsi tormentati dell’ultimo lavoro “Engine Of Hell” e la sua brevità - un’ora esatta, come preventivabile da chi aveva sbirciato nelle scalette dei giorni precedenti - non sarebbe stata certo motivo di lamentela per i presenti a fine serata.
 
Non è falsa modestia, quella di Emma Ruth: sa benissimo che la fine dello show sarà una liberazione, un riprendere fiato dopo tanto senso di oppressione. Jo Quail, l’interessante violoncellista britannica che ha aperto la serata, ci aveva donato il suo dark-folk fatto di loop ritmici e interessanti divagazioni elettriche, predisponendo i presenti a una serata gradevole; non sospettavamo tuttavia una tale discesa negli inferi.
“Less is more” è il leit-motiv di questo tour, e lo avevamo capito subito dopo pochi istanti da quando l'artista di Los Angeles si era concessa a noi: organico strumentistico ridotto all’osso con pianoforte e chitarra acustica, poche chiacchiere, pochi colpi ad effetto. Solo lei e la cupa sofferenza di “Engine Of Hell” che ci tira da subito dentro il vortice, alternando con parità perfetta i brani al piano e alla chitarra, come se volesse fare uno sgarbo ad alcuno dei due.

E’ proprio nei brani alla chitarra che la cantautrice americana accorcia ancor più le distanze con i suoi ammutoliti spettatori: in “Blooms Of Oblivion” le sei corde vengono pizzicate con durezza, ogni suono esce carico di tensione ma mai come le pause tra un passaggio e l’altro del brano, ancor più pregne di significato rispetto alle note. Idem per le parole che arrivano a destinazione con emozione tangibile, vissute anche nello sguardo sul suo volto pitturato, dritto agli occhi dei presenti e duro da sostenere.
In alcuni momenti, ci si sente così prepotentemente calamitati in mezzo alle sue confessioni da cercare istintivamente di arretrare. La voce controllata con prodigiosa abilità, sempre spinta ai suoi limiti timbrici fra falsetti che sembrano sul punto di spezzarsi e brusche e grevi discese nel registro più basso, ma tornando sempre indietro con apparente disinvoltura.

Un’esperienza magnetica, con poche pause concesse dai simpatici e timidi commenti di Emma tra un brano e l’altro, come al momento di confidare: “Non ho intenzione di fare la solita scenetta di fingere di andarmene per poi tornare per il bis, con questo buio rischierei seriamente di inciampare e fare una figura imbarazzante”.
Unico neo, la pausa per la pur buona idea di accogliere Jo Quail e il suo violoncello in “Citadel” - tra l’altro uno dei momenti in cui “Engine Of Hell” sprofonda nella più cupa intimità - unita a qualche sfortunato problema tecnico ha rischiato di spezzare in maniera brusca l’incanto creato, fortunatamente poi ripreso senza troppe difficoltà.

duo_600

Poche artiste in circolazione possono vantare la capacità di creare un’atmosfera come quella che abbiamo vissuto in un contesto così minimale. Una forza espressiva del genere, una simile urgenza, questo modo di “vomitare” il fuoco che si ha dentro ricorda un’altra eccezionale performer del passato, quella Tori Amos degli anni 90 alla quale troppo spesso si accostano muse varie al pianoforte - come fosse un tributo necessario e inevitabilmente spesso forzato - ma onestamente mai così evidente in questa veste live della nostra.

Il bis finale ci regala una chicca del passato, una “Marked For Death” acustica, aspra e ruvida come ti aspetteresti fino alla sorpresa di “Pump Organ Song” a chiudere.
Perfettamente nel suo stile, senza tanti fronzoli, Emma Ruth si alza, ringrazia quello che definisce con tono lusinghiero “un pubblico eccezionalmente educato” e semplicemente se ne va.
Usciamo finalmente dall'apnea e pensiamo: un'ora era davvero così poco?