25/03/2023

Igorrr

Link, Bologna


La carovana gallica ha issato il tendone in città. È un circo popolato di freak e di tipi poco raccomandabili, manco fosse uscito da una strofa di "The Carny". Nei loro medicine show vengono propinati gli intrugli più improbabili: sonate barocche frantumate da amen break supersonici, doppi pedali disarticolati da urticanti glitch, gorgheggi estatici deflorati da growl sulfurei. Un ricettario spaginato e soffiato in faccia alla platea. Nessuno ha la certezza di uscire indenne da uno spettacolo dell'imbonitore Igorrr, cerbero demenziale con le teste di Mike Patton, Steve Austin e Alec Empire.

 

Cala lo stendardo come una vela pirata e il nutrito pubblico è già in visibilio, sovrastando le note di un sinistro pianoforte. Sul palco si staglia l'altare dell'officiante, ornato da due rosoni da cattedrale gotica (incorreggibili francesi!). Lui si materializza poco dopo: canottiera con teschio e cappellino da baseball, è il tamarrissimo predicatore da discoteca che non troverete in nessun altra chiesa. L'incalzante intro di archi viene centrifugato in una vorticosa lavatrice breakcore con ammorbidente chiptune, mentre il resto della truppa si dispone a mano a mano come in un presepe animato: prima il batterista e il chitarrista, poi l'urlatore dal viso pittato e infine la ninfa metal.
Affettati in diretta dai taglientissimi beat del macellaio, i loro contributi alla passacaglia di "Paranoid Bulldozer Italiano" si riducono a memorie di un'integrità perduta, in una nuova era in cui la purezza è bandita. La musica è decisamente più "suonata" rispetto al passato, il metallo sembra prevalere sui controller, ma l'impressione è comunque quella di una visione dal futuro.

 

I riferimenti al nostro paese si fanno più insistenti in "Spaghetti Forever", piccola rassegna di stereotipi musicali nazionali: elegiaca chitarra classica alla Nino Rota, acuti operistici spacca-bicchieri, tremolo morriconiano, maestoso organo a canne, il tutto tartassato da un groove assassino. La danza epica di "Hollow Tree", immersa in luciferine luci rosse e introdotta da un martellante clavicembalo, richiama invece qualche antico rito bretone, congelato da un inquieto adagio d'archi. Gli orchestrali entrano e escono come in una perfetta coreografia, pilotati dalla vistosa gestualità da dj del direttore.
Ancora tanta Europa nel valzer viennese di "Nervous Waltz", che non si fa comunque mancare palm muting, tintinnii di piano e folate glitch, tanto per gradire. La cantante balla leggiadra sfidando la gravità, per poi prodursi in un garbato inchino. I testi sono impastati con un'elaborata glossolalia: quando suoni una musica che non si è mai ascoltata prima, dovrai pur inventarti una lingua artificiale per darle voce. D'altronde, chi le ha mai capite le parole nel metal estremo?

Dall'Impero austro-ungarico al deserto berbero versione "Mad Max": in "Downbeat Desert" Igorrr impugna la chitarra e i due vocalist sono incappucciati come druidi, scatenando una tempesta di sabbia doom a testa bassa. Ci spostiamo in Medio Oriente con una "Camel Dancefloor" che sgorga dritta dalla lampada di Aladino, la cantante tramutata in odalisca e il pubblico compatto in un imprevedibile singalong. "ieuD" rimane tra i momenti più intensi di questo canzoniere a brandelli, tra solenni accordi di arpicordo, fulminante tremolo picking e una melodrammatica ugola lirica, il tutto sconfessato dal parodistico flauto giocattolo del finale.
"Parpaing", originariamente ruggita da sua maestà brutale George Fisher, torna all'assalto con un techno-death che infierisce senza pietà. L'Oriente riappare all'orizzonte nei due numeri successivi: se "Polyphonic Rush" sembra la metallizzazione di una tema bollywoodiano, "Overweight Poesy" potrebbe sonorizzare una versione infernale di "Lawrence d'Arabia".
Dopo un breve intermezzo solitario di consistenza trip-hop, spetta alla ferina "Viande", opening del capolavoro "Savage Sinsoid", imbracciare di nuovo il mitra. "Opus Brain" galoppa a briglia sciolta tra una voce che spruzza acido e un subdolo sitar, il chitarrista scala l'altare del dj come un tracotante Prometeo e per tutta risposta l'ira degli dei precipita la sala nel caos. "Himalaya Massive Ritual" ci solleva fino alle pendici dell'omonima catena e con la stessa facilità Igorrr ostenta la sua sacra chitarra alla folla, siglando la fine della cerimonia.

Si torna in sella con la fisarmonica tzigana di "Cheval", gli spettatori battono le mani a tempo in un impeto nazionalpopolare e il cantante fa roteare il microfono come un Roger Daltrey coperto di borchie. "Apopathodiaphulatophobie" spiazza con la sua chitarra pulita ma comunque abrasiva, poi Igorrr sgombera il palco a suon di electro-grugniti polverizzati dal ring modulator di "Robert", ma le fiere si ribellano e con un urlo lacerato riconquistano il proscenio per un headbanging dionisiaco collettivo.
Il domatore è visibilmente esausto ma la sala lo acclama invocando il suo nome all'unisono, così ci concede un ultimo gioco di prestigio solitario: "Very Noise" è davvero molto rumorosa, con quello slap Claypool-iano che schiaffeggia nel mucchio e un'apertura tellurica che fa crollare il cielo sulla terra. Con fare da messia, stacca le mani dalla console e sgrana il gesto delle corna, imitato da tutto il locale: la compenetrazione tra mezzi rave e fini metal è raggiunta.
Inchino sincronizzato del carrozzone al completo, come a teatro, poi l'incitamento a bestemmiare tutti in coro: le due facce di un progetto incapace di prendersi sul serio fino in fondo. Li accompagna fuori la "Marcia Funebre" di Chopin, ma l'aria satura di ormoni non mente: quella a cui abbiamo assistito è stata la più folle delle feste.

Setlist

Intro
Paranoid Bulldozer Italiano
Spaghetti Forever
Hollow Tree
Nervous Waltz
Downgrade Desert
Camel Dancefloor
ieuD
Parpaing
Polyphonic Rust
Overweight Poesy
Viande
Opus Brain
Himalaya Massive Ritual

Encore

Cheval
Apopathodiaphulatophobie
Robert
Very Noise

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