These New Puritans

These New Puritans

I nuovi puritani dell'art-music

La band londinese guidata dai gemelli Barnett ha anteposto l’ossessiva ricerca compositiva alla mito-biografia pop di tanti gruppi coevi, in un processo di auto-definizione complesso che ha dischiuso creazioni sonore di austera bellezza e mistero. Una traiettoria singolare, attraverso la quale si sono appropriati, rinnovandolo a modo loro, del filone più nobile dell’art-music britannica

di Claudio Lancia e Francesco Giordani

Diciamoci la verità: in pochi avrebbero scommesso molto nel 2007 su un gruppo come i These New Puritans, in apparenza l’ennesima band inglese tra le tante che allora guadagnavano per una settimana o due qualche pagina sul NME, per poi svanire nel nulla. Il defilatissimo quartetto (oggi trio) londinese guidato dai gemelli Jack e George Barnett ha saputo però evolversi e trasmutare nel volgere brevissimo di un quinquennio, anteponendo un'ossessiva, quasi demoniaca, ricerca compositiva alla mito-biografia pop di tanti altri gruppi coevi, dei quali oggi a fatica si ricorda il nome, accelerando un processo di auto-definizione complesso (eppure in fondo logico, quasi premeditato, se osservato retrospettivamente) che ha gradualmente dischiuso creazioni sonore di austera bellezza e mistero, per la gioia suprema di chi sin dall'inizio, quel processo, l'ha seguito fedelmente.
Dopo gli esordi precoci, ancora segnati dagli ultimi bagliori del revival neo-wave, allora ovunque imperante, la band ha coltivato con discrezione una forma imprevedibile di diversità, centellinando collaborazioni agli antipodi fra loro, mettendo al servizio di uno stilista concettoso e formalistico come Hedi Slimane il proprio raffinatissimo (e al tempo stesso affilato, venefico) design musicale, oppure duettando con la Britten Sinfonia, in un cortocircuito permanente di sperimentazione e intrattenimento (meta) pop.
La band ha continuato a reinventarsi radicalmente ad ogni nuova pubblicazione, integrando nuovi elementi e suggestioni stilistiche nel proprio spettro concettuale, divenuto nel tempo sempre più esteso. All'art-rock di scuola factoriana si sono così aggiunte declinazioni sofisticatamente intellettuali del prefisso post-, che dal math si sono via via spinte fino al più ineffabile minimalismo, passando per l'hip-hop, l'ambient, il folklore, il jazz e l'avanguardia. Seguendo una traiettoria singolarissima (considerata anche la giovane età dei protagonisti), i These New Puritans si sono appropriati, rinnovandolo a loro modo, del filone più nobile della musica d'arte britannica.La formazione, proveniente dalla zona di Londra, è composta da Jack Barnett (cantante, polistrumentista, produttore e principale compositore), George Barnett (batteria, loops) e Thomas Hein (basso, tastiere, sampler, batteria), più Sophie Sleigh-Johnson (tastiere, samples) che ha abbandonato il gruppo nel 2012.

L’esordio ufficiale avvenne nell’ottobre del 2006 con la pubblicazione dell’Ep Now Pluvial, un sette pollici tirato in cinquecento copie numerate, contenente le prime tre tracce diffuse dalla band: “Elvis”, “C16th” e “En Papier”, le quali finiranno sul primo album, Beat Pyramid, che vide la luce nel gennaio del 2008, segnando il passaggio dalla piccola label Angular (sempre attenta alla valorizzazione di giovani talenti) alla prestigiosa ed esclusiva Domino, ed imponendosi da subito come una proposta musicalmente innovativa e spiazzante. L’analisi dei contenuti del disco non può non partire dalla circolarità insita nei titoli della prima (“…Ce I Will Say This Twice”) e dell’ultima traccia (“I Will Say This Twi…”), quasi a suggerire l’idea molto suggestiva di un flusso sonoro potenzialmente infinito, idea ribadita dal serpente che si morde la coda (numerosi i rimandi esoterico-mitologici), osservabile nella parte interna del cd. Già queste osservazioni preliminari permettono di definire in modo sufficientemente preciso le caratteristiche essenziali del lavoro: un math-rock ruvido e angolare, dalle strutture fortemente ripetitive, costruito su ingranaggi di chitarra che si susseguono in modo pressoché meccanico, sostenuti da una vasta gamma di suoni sintetici mandati in loop sui quali va poi a innestarsi una voce sbraitante e ossessiva, vagamente hip-hop nelle cadenze (Madlib e Wu Tang Clan sono citati come influenze determinanti).
Risulta decisivo l’apporto fornito in sede compositiva e concettuale da un disco come “Mirrored” dei Battles; a marcare una netta differenza ci sono tuttavia un maggiore radicamento nella struttura-canzone tradizionalmente intesa (i pezzi sono caratterizzati da un minutaggio sempre contenuto), una veste strumentale molto più parsimoniosa e ossuta ed un legame di fortissima continuità con le istanze  più evolute e apertamente avanguardistiche della new wave inglese, in particolar modo per quanto concerne la ricerca e la sperimentazione ritmica, che riveste un ruolo centrale (nel caso specifico si pensi soprattutto a Wire, Fall, Gang Of Four, Pil, Pop Group e A Certain Ratio). A colpire sono soprattutto le perentorie rasoiate post-punk in pezzi come “Colours” (davvero implacabile la progressione ritmica) o “Numerology”, il quale sin dal titolo sottolinea il carattere rigorosamente matematico dell’approccio compositivo del gruppo. Tale approccio oscilla tra una forma esasperata e sottilmente compiaciuta di esoterismo numerologico (una canzone si intitola “£4”, un’altra “4”, un’altra ancora “C.16th +-“, inoltre la tracklist è costituita da 16 tracce, come le lettere che compongono la dicitura These New Puritans, per tacere poi del simbolismo alchimistico implicito nella piramide citata nel titolo) e una costruzione rigorosamente algebrica e calcolata delle geometrie sonore, imperturbabili e austere come enigmatici talismani o oscuri monoliti di un rituale neopitagorico (del resto Pitagora fu tra i primi a intuire la connessione originaria tra musica, numeri e cosmologia). L’insistita e programmatica ripetitività di alcuni motivi rappresenta il limite maggiore del lavoro, che sulla lunga distanza risulta eccessivamente omogeneo, ma va comunque riconosciuto quanto ad un primo ascolto soprattutto i pezzi più cinetici e volutamente ridondanti riversino sull’ascoltatore una forma di repentino straniamento piacevolmente ipnotico e stordente.
Beat Pyramid s’impone pertanto come un esordio estremamente teso e, per certe intuizioni, originale. A tratti vien quasi da pensare che se i Joy Division avessero proseguito la propria ricerca, molto probabilmente sarebbero arrivati a immaginare una musica in qualche modo molto simile a questa.

Due anni più tardi è la volta di un nuovo ambiziosissimo lavoro, Hidden, realizzato con il significativo aiuto in sede produttiva del maestro di volumetrie astratte ed eterei sperdimenti sonori Graham Sutton dei mai troppo lodati Bark Psychosis. Dietro l’insipida copertina si snoda il senso malleabile e sfuggente di una ricerca stilistica che non smette di esplorare fino alla vertigine più allucinata la propria complessità, in bilico tra delirio matematico e orfismo neopagano. Quello che ne salta fuori è una sorta di meta post-hip-hop (ma sarebbe più corretto dire post-hip-punk) maniacalmente concettuale e come smagnetizzato, costruito a colpi di compasso su groove che si sbriciolano in un alone sorprendentemente sinfonico (si ascoltino gli innesti di fiati quasi mussorgskjani di “We Want War” o il cabaret weimariano vagamente cameristico di “Hologram”) e a tratti progressivo, in bilico tra il tribalismo post-industriale ossificato di Pil o 23 Skidoo (“Attack Music”), gli algoritmi dei D.A.F. (“Fire Power”) e il rap metafisico di un Prefuse 73.
Martirizzando le proprie composizioni seriali in rigidissimi cilici oscuramente numerologici, i These New Puritans finiscono con l’incidere una sorta di quadrato magico minimalista, una macchina moltiplicatrice di combinazioni sonore impazzite, un elevatore a potenza di monadi sonore leibnizianamente com-possibili in sequenze infinite, basate sulle ripetizione rituale di una formula stregonesca indifferenziata che finisce quasi con l’esplodere silenziosamente in un’ipnosi davisiana (si ascolti la brevissima “Canticle”) velata da barlumi drammaturgici medievaleggianti (“Orion”). Forse, per ora, il risultato effettivo è meno destabilizzante e godibile del programma teorico che lo ispira (traducendosi in una musica forse più pensata che suonata), eppure tra queste non-canzoni che rimbalzano su algide superfici geometriche decuplicandosi in un groviglio di riflessi e rifrazioni minimali che vanno dal madrigale all’aria postmoderna, emerge l’immagine potente e sinistra di un gruppo che sa esattamente dove vuole arrivare e gode del sommo piacere di non rivelarlo.

A giugno del 2013 arriva l’atteso terzo lavoro dei These New Puritans. Sono trascorsi tre anni e mezzo da quel Hidden che li lanciò in orbita, incuriosendo oltremodo pubblico e stampa specializzata. Nuove sorprese si stagliano all’orizzonte: finalmente la band inglese, ridotta a tre elementi per la dipartita di Sophie Sleigh-Johnson, è pronta a fornire risposte concrete e (forse) definitive sulla propria direzione artistica.
Field Of Reeds (scelto da OndaRock come Disco del mese di giugno) si presenta come una sequenza di paesaggi dipinti su tela, ambizioso nel suo essere orchestrale e quasi privo di ritmo, con la batteria presente in poche circostanze, e la vivacità affidata ai contrappunti di archi e ottoni. Un progetto profondamente debitore verso quegli stessi lieder (composizioni della tradizione tedesca per piano e voce) che hanno pesantemente influenzato anche l’ultimo Baustelle, tanto per citare un caso tutto italiano.
Jack Barnett conferma di avere grande talento e, nonostante gli inevitabili momenti di tedio tipici di un lavoro che si caratterizza per lentezza e austerità, riesce a colpire nel segno con imponenti movimenti strumentali, in particolar modo quelli posti sulla lunga coda di “V (Island Song)”, l’indiscutibile capolavoro dell’album. A prima vista sembrerebbe un suicidio commerciale, ma poco male: è evidente quanto non sia nelle intenzioni di Field Of Reeds vendere milioni di copie, bensì dispensare intime emozioni a chi riuscirà a superare lo scoglio del primo angusto approccio. E sarà un piacere perdersi fra l’estatica circolarità di “Organ Eternal”, i cori gregoriani di “Spiral”, gli arrangiamenti appena più rigogliosi di “Fragment Two” o le derive ambient-jazzy di “Nothing Else”, in un disco che si caratterizza per essere tanto antico quanto contemporaneo.

EXPANDED (Live At The Barbican) documenta una data unica e forse irripetibile dei TNP nella capitale inglese, il 12 aprile del 2014, con l'ausilio di 35 elementi della Heritage Orchestra e del coro Synergy Vocals. Infatti, per riproporre fedelmente dal vivo un album che già annoverava una line-up vertiginosa, si è reso necessario un palco come quello del Barbican Center, tra i più prestigiosi di tutta Europa. Il fine ultimo di questo evento si è rivelato, con tutta evidenza, quello di amplificare le peculiarità di arrangiamento alla base dell'intera struttura dell'opera.
E non stupisce che, a posteriori, il frontman si sia detto piuttosto soddisfatto del risultato. Benché le variazioni sul testo originale siano minime, la magniloquente performance avvolge i nove brani in una luce sfavillante che in certi passaggi quasi ne stempera la carica drammatica (“Spiral”), mentre in altri raggiunge vette di lirismo quasi insostenibili (“The Light In Your Name”). Nemmeno gli applausi fra le tracce riescono a intaccare questa portentosa enfasi, per la quale gran parte del merito va attribuita alla nutrita sezione fiatistica, che con le sue fanfare assume un ruolo di assoluta preminenza nella maggior parte dei movimenti, nei quali tuttavia trovano il giusto spazio persino le rifiniture elettroniche dell'Lp. Complice l'averne messo per iscritto ogni singola parte strumentale, l'opera riesce a conservare in sede live un impatto degno dei grandi componimenti classici del passato.
Se normalmente in questi casi si pone la questione della presunta “utilità” o meno di simili operazioni, nello specifico di EXPANDED non c'è alcun dubbio: la possenza con cui ribadisce il valore dell'opera puritana lo rende un ascolto essenziale per i già edotti come per gli scettici, i quali vi troveranno qualcosa in più di una sorvolabile “copia conforme”.

Dopo un progetto macroscopico e ambizioso come Field Of Reeds la via più logica, benché non semplice, era quella di un ponderato compromesso stilistico fra il trascinante manifesto bellico di Hidden e la profonda introspezione del successivo capolavoro. Un’impresa, anzi, che giustifica totalmente i quasi sei anni di distacco forzato, arco temporale di una covata malefica e sibillina che ha offerto al quarto album, Inside The Rose, una tavolozza di inedite cromie, su tutte uno stradominante rosso.
Tra copiosi velluti lynchani, torsioni di corpi nudi e riflessi acquei deformanti, i fratelli Barnett sembrano invitarci ad attraversare lo specchio, fanno appello alla sensorialità ma attraverso il filtro di un’inconscia e tormentata attività onirica, proiettando il rigore ritmico e percussivo dei precedenti lavori in uno scenario tanto sinistro quanto morbosamente sensuale. L’aura romantica e decadente dei testi, per la prima volta in mano a George, trova perfetta rispondenza nei solenni arrangiamenti neoclassici di Jack che, senza contrarre debiti ingenti, attingono segnatamente alla darkwave di Coil e Dead Can Dance.
La compagine dell’Essex dimostra anche stavolta una chiarezza d’intenti e una coerenza stilistica rare e invidiabili, convogliate in una prassi creativa che non ammette stasi né ripetizione, bensì un continuo progredire e affinarsi. Inside The Rose è un altro soggiogante cerimoniale del quale i These New Puritans sono al contempo officianti e vittima sacrificale, oracoli di un oscuro mistero che, non potendo sciogliersi, si fa viva e bruciante Arte.

A completamento del progetto Inside The Rose, a inizio 2020 viene pubblicato The Cut (2016-2019), raccolta di brani rimasti incompiuti durante le session di quell'album, uniti a versioni remix, reworkingalternative take, intermezzi assortiti, bozzetti lasciati allo stato embrionale e persino idee fermate a voce su uno smartphone. I cori dei fanciulli nell’iniziale “The Mirage”, scritta da Jack Barnett quando aveva appena sedici anni, e le manovre orchestrali nella revisione di “Infinity Vibraphones”, ribattezzata con l’aggiunta del suffisso “Orchestral Mirror”, sono le porte attraverso le quali entrare in questa nuova stanza dagli infiniti specchi. In tutto diciannove tracce per oltre un’ora di musica, con ospiti Ossian Brown dei Coil, Andrew Liles dei Current 93 e la cantante taiwanese Scintii.
Dentro “The Cut” emergono sia il lato più tenue e tenebroso dei These New Puritans (vedi la placida “If I Were You”), svelato senza mai rinunciare a quella tensione che vibra in maniera costante sottopelle, sia le baldorie electro che spezzano la solennità neoclassica del duo, conferendo per una volta un taglio più “popular”. Cosa che accade specie in corrispondenza dei boombastici remix di “Where The Trees Are On Fire” e “Inside The Rose”, posti in sequenza nella seconda parte del disco, con il probabile intento di creare una clubbing section.
Romantici e decadenti, arcani e onirici, i TNP rompono così la propria enigmatica coerenza facendosi (in parte) più estroversi, mischiando folk barocco, modern classical e chamber-pop con forti dosi di elettronica e scenari balearic lounge (lo Scintii remix di “Beyond Black Suins”). I suadenti intermezzi pianistici (“Infinity Vibraphones Postlude”) e le prove in studio inserite (“New Fire”) hanno lo scopo di lasciare traccia del processo compositivo del duo, e le riprese ambient dei due “Intro Tape”, poste in fondo alla scaletta, chiudono idealmente un’epoca nella discografia della band. Il progetto Inside The Rose, album apprezzatissimo da pubblico e critica, potrà ora dirsi ancor più completo e compiuto.


Contributi di Michele Palozzo ("EXPANDED", "Inside The Rose")