Michael Nyman

Strategie del sublime

intervista di Francesco Paolo Ferrotti

E' la seconda volta che incontro Michael Nyman a Palermo, e questa volta mi trovo al cine-teatro Metropolitan. Quando gli stringo la mano per salutarlo, il Maestro sembra ricordarsi vagamente della precedente intervista a fine 2006. L’abbigliamento del musicista inglese è quello ricorrente: completo nero e calze rosse. La conversazione comincia in un angusto camerino, ma Michael Nyman lamenta presto il caldo e il rumore eccessivo proveniente dal corridoio; mi chiede se possiamo continuare in un luogo più fresco e silenzioso, e ne sono ben contento. Lo accompagno fuori, nel retro del cine-teatro in cui si esibirà tra poco meno di un’ora: il musicista si accomoda su un sedile improvvisato e sembra finalmente a proprio agio, dimostrandosi molto aperto al dialogo e al confronto. Il risultato è una lunga conversazione che tocca il passato e il presente della sua attività musicale, passando attraverso il rapporto con l’avanguardia, con il minimalismo americano e la musica rock. Fino alla recente attività fotografica e il libro “Sublime”…

L’ultima volta a Palermo ha suonato al teatro Politeama; stasera invece si tratta di un cinema: cambia qualcosa rispetto a quando suona in un teatro d’opera?
Ad esser sincero, stasera prima di arrivare non sapevo ancora che si trattava di un cinema. Sai, a volte è un teatro, a volte una sala da concerti, a volte un cinema o qualcos’altro: è un luogo sempre diverso. La scorsa settimana eravamo a Santiago De Compostela, in Spagna, e lì abbiamo suonato in un palasport…

Quindi la scelta del repertorio non viene modificata in funzione del luogo…
No, in genere suoniamo la musica che desideriamo suonare, oppure quella che è richiesta dal promoter. A volte, capita di essere parte di un festival: in quel caso, magari modifichiamo qualcosa nel programma, sempre nell’ambito di ciò che il nostro pubblico conosce e ama.

La sua musica sembra dimostrare che oggi è di nuovo possibile produrre forme d’arte che non siano distanti dal pubblico. Aveva questa aspirazione, agli inizi? 
E' piuttosto una specie di istinto, e credo di essere molto fortunato nel possederlo. Nel 1977, quando cominciai a comporre, nutrivo un interesse per i problemi formali, ma anche per la melodia, per gli elementi ritmici e per una musica con una scansione semplice. Tutto ciò confluì in un certo mio modo di comporre, e non credo che oggi sia cambiato tanto. Forse, in passato mi capitava più spesso di scrivere musica basata su un processo di composizione piuttosto rigido; la musica che scrivo oggi è invece maggiormente determinata dal mio gusto personale: se desidero che una melodia si prolunghi più rispetto a quanto lo richiederebbero alcune regole, lo faccio senza problemi. In ogni caso, le scelte estetiche che ho compiuto nel corso degli anni Settanta sono state fondamentali per quello che sono oggi. La mia musica si è sempre rivolta a un pubblico, allora come adesso.

Come si pone nei confronti della scelta tra semplicità e complessità?
In genere, quanto più si scrive musica, tanto più si diventa esperti; maggiore è l’esperienza, più si diventa anche complicati. Spesso è invece la musica più semplice e diretta ad avere un maggiore impatto sugli ascoltatori, mentre quella più complessa finisce per risultare ostica. Tuttavia, mi piace sia scrivere musica semplice e diretta, sia musica più "evoluta". Dipende anche dal contesto: se sto scrivendo una colonna sonora, privilegio un approccio più semplice; in un quartetto d’archi o in un’opera invece, essendoci maggior respiro, è possibile adottare una scrittura più complessa rispetto alla musica per i film.

Nel 1969, lei è stato il primo a parlare di "minimalismo" in riferimento a una nuova estetica musicale. Usa ancora questo termine per definire il suo stesso stile?
Diciamo che non potrei fare altrimenti: conosco le origini del mio stile, e sarebbe fuorviante pensare che non rifletta più alcuni principi estetici che assimilai dai compositori americani, quelli per i quali parlai di "minimalismo". E' vero, a volte la mia musica ha conosciuto anche sviluppi ulteriori, infrangendo in alcuni casi le regole che si sono imposte come definizione inconscia di "minimalismo"; tuttavia, non credo di essermi mai spinto troppo al di là di quei principi, di sicuro non abbastanza per poter dire che ho cambiato rotta. Ovviamente c’è un limite a ciò che può essere definito "minimalismo", poiché questa parola ha un significato: una volta superato il limite, si evolve in qualcos’altro. Ma questo limite dov’è esattamente? E se diventa qualcos’altro, cos’è? Quando facevo il critico, avevo il compito di trovare dei nomi per definire i fenomeni, e ne ero responsabile; oggi invece non me ne preoccupo troppo. In fondo, non credo sia così importante trovare una precisa definizione: basta sapere che è la musica di Michael Nyman, oppure la musica di Philip Glass… D’altro canto però, come ho detto, sono convinto di essere rimasto fedele e onesto a quei principi del minimalismo che formulai agli esordi: nel senso che la mia posizione estetica, i miei valori e i miei gusti musicali non sono cambiati particolarmente da allora. In definitiva, la mia risposta alla tua domanda è quindi un "sì".

Alcune persone la accusano di non comporre più quella musica "sperimentale" di cui parlava nel suo saggio del 1974, in particolare dopo il grande successo di "Lezioni di piano"… cosa vorrebbe rispondere a questo genere di critiche?
Innanzitutto, bisogna capire se è davvero importante che qualcosa suoni "sperimentale". In secondo luogo, bisogna capire cosa significa quel termine. Ci sono alcune parti di "Lezioni di piano" che io ritengo molto sperimentali, anche se riconosco che altre sono più conservatrici. Per quanto riguarda la musica che ho scritto fuori dai cinema, come i quartetti d’archi e i concerti, che la si voglia definire "sperimentale" o meno, oggi è sicuramente più coraggiosa e complessa rispetto a quella che scrivevo negli anni 80. Non voglio usare il termine "sperimentale", perché non sono sicuro di essere un compositore "sperimentale"; anche se la mia musica è parte di quella stessa tradizione, per come l’ho definita ai tempi in "Experimental music: Cage and Beyond". Ma cosa è "sperimentale", oggi? Questo termine non significa più niente…

Quindi, cosa è cambiato e cosa si è mantenuto dai tempi di quel libro?
In quelle pagine, trattavo della musica da John Cage fino a Steve Reich e Philip Glass; a quei tempi, ritenevo possibile parlare di una tradizione di "musica sperimentale". Da quando il minimalismo ha preso piede, qualcosa è cambiato: oggi, sono in pochi a parlare ancora di "musica sperimentale". Ciò nonostante, sono ben consapevole che il mio modo di pensare risente ancora di quella tradizione; anche in "Lezioni di piano" ci sono alcune parti che, a un'analisi attenta, fanno parte di quella stessa corrente e non sarebbero concepibili senza essa, benché a un primo ascolto possano sembrare convenzionali. La maggior parte delle persone che ama "Lezioni di piano" non capirebbe cosa intendo, se parlassi loro di "musica sperimentale". Si chiederebbero "di cosa accidenti stai parlando"?

Il Novecento è stato all’insegna dalla parola "avanguardia". E oggi?
Oggi, parecchia musica che negli anni 40 e 50 sembrava eccitante e rivoluzionaria suona sterile, stanca, ripetitiva, autoreferenziale. La musica che il pubblico odierno sembra voler ascoltare è piuttosto quella che deriva dal minimalismo americano degli anni 60 e 70. In parte, è anch’essa figlia dell’avanguardia; ma, di contro, è andata in una direzione opposta a tutto ciò che l’avanguardia promulgava e riteneva importante. Bisogna immaginare questa stagione musicale come qualcosa oltre l’avanguardia: sia in senso cronologico, ma anche nel senso che adotta un approccio diverso: più semplice e diretto, con molti riferimenti sia alla musica popolare, sia a quelle tradizioni armoniche che l’avanguardia cercò di rimuovere.

In che misura la musica rock ha avuto un’influenza nel suo modo di comporre?
Credo sia impossibile capire la mia musica senza considerare il fatto che nel corso della mia vita ho ascoltato parecchia musica rock. In molti miei brani c’è una forma di liricismo che si può accostare a una melodia rock; così come una certa tendenza alla ripetizione, un ritmo in genere semplice e regolare, spesso in 4/4. Sono stato influenzato anche nel modo di registrare musica, producendo trame sonore attraverso sovraincisioni. C’è poi un certo uso della dinamica, così come il fatto che usiamo l’amplificazione, che ci avvicina più a una rock-band piuttosto che a un’orchestra classica o un ensemble di musica da camera. Si può parlare quindi di una contaminazione della mia musica con il rock, anche se non si può dire che abbia mai composto musica rock. Ci sono tuttavia alcune parti di "Water Dances", in particolare l’ultima sezione, in cui ho utilizzato anche un batterista rock: Stewart Copeland.

Le piacerebbe collaborare con un artista rock?
Meno rispetto a una decina di anni fa. Forse potrei collaborare con un cantante e comporre musica per lui, ma non saprei come lavorare con un songwriter, per esempio David Byrne. Potrei anche tentare, ma non è mai capitato e non saprei davvero da dove cominciare.

C’è un artista r’n’r americano che ha un rapporto molto particolare con Londra… mi riferisco a Brian Wilson. Cosa pensa della sua musica? 
Brian Wilson… Quando viene a Londra, vado spesso ai suoi concerti: sai, prima "Pet Sounds", poi "Smile", e ora quel suo nuovo ciclo musicale ("That Lucky Old Sun", ndr). Trovo che Brian sia coraggioso e apprezzo la qualità della sua musica, così come apprezzo molto i suoi lavori degli anni 60 e 70 insieme ai Beach Boys. Sono meravigliato del modo in cui compone: non so che tipo di procedimento adotti, ma il risultato è spesso altrettanto valido che in passato. Bisogna anche riconoscere che è intelligente, perché si circonda di giovani musicisti che sono maledettamente bravi! Nella stessa serata, vedi lo stesso che sta suonando il violino e un momento dopo è alle prese con il corno francese! In Inghilterra non trovi musicisti così. Ma in tutto questo c’è anche il rovescio della medaglia… vedi Brian cantare sul palco e pensi: "Quest’uomo è già morto!". Voglio dire: si sta esibendo, e lo sta facendo con una buona dose di passione ed energia, eppure hai la continua sensazione che manca qualcosa… qualcosa che sembra compensata dall’entusiasmo e dal calore del suo pubblico. Quando termina la canzone, però, è come se Brian ritorni in una condizione di tristezza e solitudine: sembra gli manchi la piena consapevolezza di ciò che sta accadendo intorno a lui. Probabilmente risente ancora delle droghe che usava in passato...

Crede che la musica rock possa aspirare a essere considerata "arte"?
In alcuni casi può, anzi dovrebbe. Spesso, è una forma d’arte più vitale rispetto alla cosiddetta "musica d’arte". Oggi, però, una persona di una certa età è portata a pensare che la musica rock dei suoi tempi era migliore: discorsi del tipo "ai miei tempi c’erano i Beatles, gli Stones, i Grateful Dead, i Doors; oggi invece è tutto business". Io credo che il punto sia un altro: ormai, certi disc-jockey e i loro esperimenti sono diventati forse più interessanti e creativi dei gruppi pop-rock regolari.

Qual è oggi la differenza tra un artista pop e un musicista come lei?
La differenza è che nella musica pop permane una limitazione sia nel formato delle canzoni che nel linguaggio musicale, mentre noi musicisti classici possiamo realizzare tutto: sia quello che scegliamo di fare, ma potenzialmente tutto quello che la nostra immaginazione ci consente di immaginare. Se scelgo di farlo, posso comporre un pezzo musicale che somiglia a una canzone pop, in una tonalità semplice e con un approccio diretto, come "Franklin" di "Wonderland". Tuttavia, posso anche comporre qualcosa che suona inconsueto, strano, asimmetrico. Ho quindi disponibile l’intera gamma di possibilità che si presentano al mio gusto e alla mia immaginazione. Se sei un musicista pop-rock, non hai invece la libertà di andare oltre certe forme musicali: devi vendere album e, per farlo, sei in genere costretto a comporre qualcosa che suona in modo regolare.

Vorrei concludere con una domanda sulla sua recente passione fotografica. Che tipo di relazione c’è tra le due attività, ovvero tra la sua musica e le sue immagini?
Questo è un discorso interessante… In molti, presumono che ho cominciato a scattare fotografie per poterle poi accompagnare alla musica, mentre il rapporto è piuttosto inverso. Fotografo perché mi guardo intorno e vedo cose che mi colpiscono, ma le stesse cose non potrei affatto esprimerle in forma musicale. Non c’è nessun equivalente sonoro di una certa immagine; non c’è niente che mi faccia pensare che potrei utilizzarla come un’idea musicale. Sono due registri totalmente diversi: non si può mettere sullo stesso piano la bellezza di un’immagine e la bellezza di una sequenza di note. Sfogliando il mio nuovo libro "Sublime", tuttavia, forse si può notare un rapporto con la musica: ma è un rapporto piuttosto vago, basato sul colore e sull’intensità di certa mia musica. Inoltre, è qualcosa che io stesso ho notato soltanto nelle ultime due settimane, quando il libro era già nelle mie mani. Si tratta quindi di due attività che restano separate; sta ai fruitori – se vogliono – la ricerca alcune connessioni, così come ho fatto io stesso. In fondo, la fotografia è l’opposto della musica: l’arte dei suoni è costituita da una serie di momenti persi nel tempo; l’immagine fotografica invece estrae un istante dal tempo, congelandolo, e compie un commento sul tempo stesso. La fotografia è insieme passato e presente. La musica invece, una volta che è presente, è già passata... E' qualcosa a cui sto pensando ora per la prima volta, ti ringrazio per avermi fatto questa domanda.

Tante grazie a lei per la piacevole conversazione. A proposito, sono scattate da lei le fotografie presenti su www.michaelnyman.com?
Sì, così come le foto dei miei nuovi album usciti per MN Records.

(Palermo, 23/05/2008)

* * *

di Francesco Paolo Ferrotti e Ignazio Torres

In occasione del suo ritorno a Palermo, il terzo concerto dall’anno 2000, siamo prenotati al Teatro Politeama per un’intervista esclusiva con Michael Nyman.
Una volta ricevuta l’autorizzazione, percorriamo il lungo e stretto corridoio che conduce ai camerini degli artisti. Il musicista inglese ci attende presso la porta di una piccola stanza. Veste rigorosamente in nero, camicia compresa; unica eccezione, le calze color carminio. Dopo esserci presentati, Michael Nyman ci invita a entrare nel salottino e a chiudere la porta alle nostre spalle; poi si accomoda su un basso divano, accanto a un pianoforte. Mentre parla, spesso sorride dietro i suoi inseparabili occhiali tondi, con un’aria a volte un po’ trasognata.

Vorrei cominciare facendole una domanda sulla definizione della sua musica: si considera un autore di musica “classica”? Se sì, in che modo? 
Posso dire di sentirmi sicuramente un artista “classico”, perché non sono né un artista rock né un musicista pop. Il modo in cui scrivo la mia musica è tradizionale; le mie sono composizioni “serie”, concepite in maniera classica e scritte per musicisti classici: penso che tutto ciò si possa definire “musica classica"!
D’altro canto, però, il mio pubblico non è esclusivo da musica classica, e nemmeno d’avanguardia. La mia musica sembra conquistare un pubblico più ampio ed eterogeneo. Devo confessare che è ogni volta un grande stupore vedere ai miei concerti così tante persone, alcune per la prima volta, altre reduci già da diverse volte: mi stupisce il modo in cui la musica agisce sulle persone e le influenza, diventando non soltanto una parte dell’esperienza del concerto, ma addirittura una componente della loro vita. Questo è anche il motivo per cui ho dato vita alla mia etichetta personale, la “MN Records”, per poter rendere la mia musica accessibile ad un pubblico sempre più vasto.

Cosa accade quando le colonne sonore vengono suonate dal vivo, come stanotte? Che senzazioni prova?
Anche se la maggior parte della musica che suoneremo stanotte non sarebbe esistita se non per i film per i quali l’ho composta, ai concerti si finisce per dimenticare che essa all'origine era parte di una colonna sonora, concepita in forma registrata. Sia per me, che per i musicisti, che per il pubblico, e per voi giovani, si rinnova invece nell’esperienza del concerto e acquisisce nuova vita. Capita a volte di dover ricordare a me stesso che la musica che stiamo suonando è legata ai film: per me è soltanto la colonna sonora della mia vita… la mia musica.

“Lezioni di piano” è la colonna sonora che l’ha resa celebre. Nel film, è la stessa protagonista a suonare quei brani al pianoforte; questo comporta che, in alcune scene, la colonna sonora risulti più interna al film, parte integrante della “fiction” stessa. Forse, in questo caso, il rapporto tra musica e immagini è particolare rispetto ad altre colonne sonore… cosa ne pensa?
In genere, la colonna sonora di un film è una sorta di commento musicale separato e spesso non c’è alcuna necessità intrinseca, per una certa musica, di accompagnare una data scena; nel senso che, normalmente, non c’è niente nelle scene che richiede davvero la musica: essa serve a creare tensione o a esprimere qualcosa in una forma più intensa. Tuttavia, in “Lezioni di Piano” la protagonista non parlava, quindi aveva bisogno di esprimere se stessa attraverso la musica; perciò, quei pezzi al piano sono, in qualche modo, come dei monologhi. Ho avuto il difficile compito di creare per Ada un linguaggio interiore e, dato che ho dovuto farlo prima che il film fosse realizzato, ciò ha comportato un problema formale che il modo convenzionale di comporre colonne sonore non presenta. Ho dovuto praticamente dar vita al personaggio per mezzo della musica e, tra le cose più straordinarie, c’era il fatto che il ruolo interpretato da Holly Hunter risultò influenzato dal personaggio che avevo creato io tramite la musica: non c’era discontinuità tra come lei diventava musica e come la musica diventava lei. Questo non è accaduto in nessun’altra delle mie colonne sonore, ed è ciò che ha reso “Lezioni di piano” così speciale…

Lei ritiene che ogni brano musicale esprima uno specifico stato d'animo? Oppure, al contrario, crede che i sentimenti espressi dalla musica siano indefiniti?
Dipende... Quando scrivo un brano musicale, non devo esprimere necessariamente i miei sentimenti. Per esempio, posso scrivere un’opera, in cui le emozioni cambiano costantemente perché riflettono quello che succede, seguendo gli elementi narrativi, i caratteri e i personaggi… Più in generale, non credo che la mia musica esprima gli stessi sentimenti che esprimo come uomo. Possono esserci certamente molti legami, analogie, affinità… tuttavia, ritengo che la musica più alta comunichi sentimenti esclusivamente musicali, che né possono essere tradotti in altre forme d’arte né possono essere descritti; l’unico modo per esprimerli è proprio mediante la musica stessa.

La musica è la sua vita. In che modo invece vive il silenzio? Come assenza di suoni oppure come una presenza creativa?
Io sono turbato dal silenzio… mentre siamo qui, posso sentire dalla finestra il rumore delle sirene [“sirens, not silence…”], delle auto, delle ambulanze: non c’è silenzio, e mi sento rassicurato. La vita è completamente immersa nel rumore. Certamente la mia musica ha bisogno anche del silenzio come presenza drammatica, ma in quanto musicista il mio mestiere è quello di comporre suoni; il silenzio rappresenta un’assenza… l’assenza di Michael Nyman.

Gli eventi geopolitici influenzano la sua musica?
Tutto ciò che accade nel mondo può avere un effetto sul modo in cui intendo la vita, e questo nel mio subconscio può influenzare il mio modo di comporre. A volte ho composto anche brani con contenuti politici. Al momento, sto componendo un brano per coro ed orchestra, con un testo scritto da un poeta marocchino, sotto forma di lettere poetiche inviate al fratello durante la prima guerra mondiale, quando quest’ultimo era stato catturato dagli americani e fatto prigioniero per due anni.
In generale, però, credo che la musica sia spesso impotente: quando al potere ci sono uomini come Blair, Bush e Berlusconi, è davvero inadeguata…! E’ molto difficile che tramite la musica si riesca a far accadere qualcosa di nuovo: anche se viviamo nelle nostre moderne democrazie, siamo davvero impotenti...

Il suono di un campanello ci avverte che il tempo a nostra disposizione sta per terminare: tra cinque minuti, Michael Nyman è atteso sul palco. C’è giusto il tempo per un’ultima breve domanda:

Quali sono al momento i suoi lavori preferiti?
Sono molto orgoglioso di “Six Celan Songs”, che è recentemente uscito per “MN Records”. La mia opera preferita è “Love Counts” che ho appena eseguito a Modena e che uscirà nei prossimi mesi; un altro dei miei preferiti è “Memorial” che suoneremo stanotte… ma ce ne sarebbero altri.

(Palermo, 7 novembre 2006)

Discografia

5 Postcards From Capital Cities (soundtrack, 1967)
Decay Music (1976)
Keep it Downstairs (soundtrack, 1976)
Vertical Features Remake (soundtrack, 1976)
Goole by Numbers (soundtrack, 1976)
Tom Phillips (soundtrack, 1977)
1-100 (soundtrack, 1977)
A Walk Through H (soundtrack, 1978)
The Falls (soundtrack, 1980)
Michael Nyman (1981)
Terence Conran (soundtrack, 1981)
The Draughtsman's Contract (soundtrack, 1982)
Brimston and Treacle (soundtrack, 1982)
Nelly's Version (soundtrack, 1983)
Frozen Music (soundtrack, 1983)
The Coastine (soundtrack, 1983)
The Cold Room (soundtrack, 1984)
Making a Splash (sountrack, 1984)
The Kiss and Other Movements (1985)
A Zed and Two Noughts (soundtrack, 1985)
Inside Rooms: 26 bathrooms, London & Oxfordshire (soundtrack, 1985)
Ballet Méchanique (soundtrack, 1986)
Le Miracul (soundtrack, 1987)
The Man Who Mistook His Wife For A Hat (1987)
Drowning by Numbers (soundtrack, 1987)
Death in the Seine (soundtrack, 1988)
Monsieur Hire (soundtrack, 1988)
The Cook, The Thief, His Wife And Her Lover (soundtrack, 1989)
The Nyman/Greenaway Soundtracks (anthology, 1989)
Out of the Ruins (soundtrack, 1989)
Men of Steel (soundtrack, 1990)
The Hairdresser Husband (soundtrack, 1990)
Les Enfants Volants (soundtrack, 1990)
String Quartets Nos. 1-3 (1991)
Prospero's Books (soundtrack, 1991)
Songbook (1991)
The Piano (soundtrack, Virgin, 1993)
A La Folie (six days, six nights) (soundtrack, 1994)
Mesmer (soundtrack, 1994)
Michael Nyman Live (live, 1994)
Carrington (soundtrack, 1995)
The Diary of Anna Frank (soundtrack, 1995)
The Ogre (soundtrack, 1996)
After Extra Time (1996)
Gattaca (soundtrack, Virgin, 1997)
The Suit and the Photograph (1998)
Ravenous (soundtrack, 1999)
Wonderland (soundtrack, 1999)
Michael Nyman Band Live in Concert (1999)
Nabbie No Koi (Nabbie's Love) (soundtrack, 1999)
The End of an Affair (soundtrack, 1999)
The Claim (soundtrack, 2000)
The Very Best of Michael Nyman: film music 1980-2001 (anthology, 2001)
Subterrain (soundtrack, 2001)
Facing Goya (2002)
String Quartets Nos. 2-4 (2002)
Luminal (soundtrack, 2002)
24 Heures de la Vie d’une Femme (soundtrack, 2002)
The Actors (2003)
Nathalie… (soundtrack, 2003)
The Libertine (soundtrack, MN, 2005)
The Piano Sings (MN, 2005)
Nyman/Greenaway revisited - The Composer's Cut Series - Volume I (MN, 2005)
The Draughtsman's Contract - The Composer's Cut Series - Volume II (MN, 2005)
The Piano - The Composer's Cut Series - Volume III (MN, 2005)
Man and Boy: Dada (MN, 2005)
Acts of Beauty / Exit No Exit (MN, 2006)
Six Celan Songs/The Ballad of Kastriot Rexhepi (MN, 2006)
Nyman Brass (MN, 2006)
Love Counts (MN, 2007)
Mozart 252 (MN, 2008)
8 Lust Songs: I Sonetti Lussuriosi (MN, 2008)
Michael Nyman-Sublime (MN, 2008)
The Glare (con David McAlmont, MN, 2009)
Pietra miliare
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