Love

Forever Changes

1967 (Elektra)
pop

Arthur Lee, voce e chitarra, talentaccio dei Sixties con l'ambizione – perennemente frustrata - del motivo da classifica, trovò con i Love (e in special modo con Bryan Maclean, chitarra e voce), la formula giusta per mettersi in luce. Non arriverà la gloria della top ten, ma tre dischi impregnati di psichedelia, flamenco e tardo beat, a cui seguiranno apprezzamenti di critica e pubblico, una puntuale tossicodipendenza e un'inevitabile crisi: la storia dei Love si chiude con la tormentata incisione di "Forever changes": è un prisma versicolore a cui forse manca il "dark side" floydiano, ma che non difetta certo in visionarietà (magari più accomodante e un po' meno insidiosa), forte del suo mix di acerbe suggestioni beat (Stones e Kinks) e di trip elettroacidi alla Byrds bagnati nello stupore estatico di una latinità sensuale e decadente.

L'ascolto dona un senso di vertigine: la delicatezza dell'arpeggio introduttivo di "Alone Again Or" scivola rapidamente in una portata a base di flamenco-beat energico e struggente, con l'orchestra a disegnare contorni vellutati e un grande assolo di tromba (di quelli che Stuart Murdoch e soci devono aver ascoltato fino a totale assimilazione) a completare l'opera. Segue la sferzante "A House Is Not A Motel" (che potrebbe essere figlia illegittima di un insospettabile amplesso tra Keith Richards e Roger Mc Guinn), percorsa da una specie di languore trattenuto che si dissolve in un finale ad alto tasso psych, sui binari di due chitarre in fibrillazione e di un drumming perfetto che non ha nessuna voglia di "montare" sulla musica (grazie a dio): di fronte a tanta naturale esuberanza, si fa fatica a credere alle cronache che parlano di session travagliate, con cinque musicisti sfibrati da tossicodipendenze varie.

"Andmoreagain" è il ritorno prepotente del languore di cui sopra, ma anche di quintali di dolce e sfacciata malinconia, innamorata del dialogo a distanza tra un arpeggio acustico e il fremito discreto degli archi, sugli scudi di una melodia che diremmo d'altri tempi se – complice la sua disarmante semplicità - non suonasse ancora oggi tanto presente e viva. "The Daily Planet" ha l'incedere saltellante e la contagiosa irriverenza dei migliori Who, con qualche vago accenno – ma non vorrei essere tacciato di eresia! – alle gioiose provocazioni barrettiane dei primi Pink Floyd. Segue "Old Man", un vagabondaggio tra bucoliche visioni folk che richiamano alla mente suggestioni canterburiane o i primissimi Genesis. Insomma, un vero caleidoscopio di gusti e fragranze, e il miracolo è che – almeno per il momento – il tutto regge con perfetto equilibrio, in bilico tra visceralità, follia dolciastra ed il risvolto oscuro delle fiabe.

"The Red Telephone", tanto per gradire, è ineffabilmente sydbarrettiana, con un afflato melodico che riempie il petto e ci fa sentire vivo il cuore: la solita straordinaria misura negli arrangiamenti e qualche mossa azzeccata (il clavicembalo, i corettini, gli splendidi bordoni di violino, la sghemba visionarietà del finale) ne fanno il capolavoro del disco. "Maybe The People Would Be…" porta il suo bravo contributo energetico alla causa, con l'irresistibile incoscienza degli umori latini magnificamente sposati alla sempre più esorcizzata visionarietà psych. Suonavano davvero bene, questi ragazzi del tempo che fu: sentite l'assolo di chitarra che sembra piombare in "Live And Let Live" come la memoria di un incubo rollingstoniano, simpatia diabolica inclusa, con echi di flagranza garage sullo sfondo. "The Good Humor Man…" è un altro velluto a uso e consumo dei belleandsebastiani, mentre "Bummer In The Summer" si appropria di elementi country e r'n'b, con l'interazione chitarre acustiche-archi ancora una volta incantevole e vincente.

Si conclude con una "You Set The Scene" che inizia zampettando sulla spuma di una vitalità (che amo ormai senza riserve), per poi all'improvviso – con una dolce perentorietà che lascia senza fiato – virare sull'ennesima melodia spaccacuori, con un miracolo di orchestra che passa sulla scena, rarefatta come la soglia invalicabile di un sogno vaporoso: facendo le debite proporzioni, potrebbe essere la loro "A Day In The Life".

Insomma, se ultimamente avete inseguito con trasporto e alterna soddisfazione le tracce amarognole e le serenità minacciose dei Belle & Sebastian, di Badly Drawn Boy e dei Sodastream, non dovreste tralasciare questo gioiello dei tardi Sessanta, che come le pietre più preziose se ne frega soavemente del tempo che passa e si permette di brillare, nell'angolino in cui lo ha relegato la Storia, di fulgida luce propria. Cambiandoci – almeno un po' – per sempre.

01/11/2006

Tracklist

  1. Alone Again Or
  2. A House Is Not A Motel
  3. Andmoreagain
  4. The Daily Planet
  5. Old Man
  6. The Red Telephone
  7. Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale
  8. Live And Let Live
  9. The Good Humor Man He Sees Everything Like This
  10. Bummer In The Summer
  11. You Set The Scene