Buffalo Tom

Buffalo Tom

Canzoni perdute nell'oscurità

Ispirandosi al rock alternativo dell'epoca, in particolare alla fusione tra melodia e rumore degli Husker Du, al sound nervoso dei Pixies e alle chitarre selvagge dei Dinosaur Jr., il trio bostoniano capitanato da Bill Janowitz sfornò canzoni intense e struggenti, rimaste però quasi sempre "perdute nell'oscurità"

di Enrico Iannaccone

Ci sono gruppi che non diventeranno mai famosi, il loro nome comparirà per qualche attimo tra le pagine della storia del rock ma non ruberanno mai molto spazio, saranno notati da pochi e da pochissimi saranno ricordati con affetto e rimpianto quando saranno "perduti nell'oscurità". Questa è la storia di uno di quei gruppi.
I Buffalo Tom nascono alla fine degli anni 80, quando tre ragazzi di Boston e dintorni, iscritti all'Università del Massachusetts, cominciano a suonare assieme (Bill Janowitz alla chitarra e voce, Chris Colbourn al basso, Tom Maginnis alla batteria), ispirandosi in maniera evidente al rock alternativo dell'epoca, in particolare alla fusione tra melodia e rumore degli Husker Du, al sound nervoso dei Pixies e alle chitarre selvagge dei Dinosaur Jr. Ed è proprio grazie alla complicità del leader di questi ultimi, J Mascis, in qualità di mentore e produttore, che il terzetto bostoniano approda al suo primo album nel 1989.

Buffalo Tom, inciso per la Beggars Banquet (come quelli che seguiranno), paga l'inevitabile dazio della giovane età di Janowitz e soci, ancora carenti in quanto a personalità, e, come ovvio, appare fortemente influenzato dalla produzione di Mascis, tanto che, a tratti, la sensazione che i Buffalo Tom siano poco più che degli imitatori dei Dinosaur Jr si affaccia prepotente. Non mancano brani preziosi, ma non tutto il materiale sembra all'altezza delle aspettative e alcuni episodi sono assolutamente anonimi e poco incisivi. Eppure, nonostante i suoi difetti, s'intuisce che nella musica del terzetto di Boston c'è del buono: in particolare si affaccia, in vari punti dell'album, una spiccata propensione per la melodia e la ballata malinconica che, si percepisce subito, ha il potenziale di evolvere in direzioni molto interessanti.
L'album si apre bene con la splendida "Sunflower Suit", un'intensa cavalcata chitarristica che fonde melodia e rumore nella tradizione degli Husker Du di "Warehouse Songs & Stories". La voce di Bill Janowitz si alza, con enfasi struggente, a cercare di sovrastare il possente muro sonoro creato dalla band e, immediatamente, delinea quella che sarà la caratteristica peculiare e vincente dei Buffalo Tom: la capacità di realizzare canzoni emozionate ed emozionanti, che sapranno toccare nel profondo l'ascoltatore sensibile. Con il secondo brano dell'album, "The Plank", l'influenza dei Dinosaur Jr appare fin troppo evidente: il cantato è sempre enfatico e passionale, ma la chitarra distorta e l'indolenza nella voce di Janowitz richiamano direttamente alla musica del gruppo di Amherst.
J Mascis imbraccia la lead guitar nella canzone successiva, la notevole "Impossible", uno dei gioielli dell'album, una sorta di power-pop melodico e tiratissimo nel quale la voce di Bill Janowitz si fonde perfettamente con l'assolo di chitarra elettrica suonato dal produttore. Un primo esempio di quello che diventeranno i Buffalo Tom una volta liberatisi dell'amorevole ma un po' ingombrante tutela del leader dei Dinosaur Jr, è possibile trovarlo nella quinta traccia dell'album, l'intensa "The Bus", caratterizzata da un suono sempre veemente e chitarristico ma un po' più tradizionale, nella direzione del rock americano classico, e da un testo malinconico e struggente, che diventerà il marchio di fabbrica delle canzoni migliori del gruppo di Boston ("Walked home in the rain today/ Took the subway train today/ Went to my room, listened to Billie Holiday/ .../ I don't care if you don't understand/ I will be there anyway/ Just found out what to be today/ See it through"). Non male anche la decima traccia dell'album, quella "Reason Why" sulla quale torneremo più avanti.
In definitiva, Buffalo Tom è un disco interessante ma ancora decisamente irrisolto, con alcune belle canzoni che lasciano intuire la stoffa della band di Boston ma che sono ancora troppo legate alle fonti d'ispirazione di Janowitz e soci e ancora indecise sulla direzione da prendere.

Il secondo album, Birdbrain, esce nel 1990 e rappresenta un deciso passo in avanti rispetto alle incertezze dell'esordio. Il disco, coprodotto dalla band con il solito J Mascis e la new entry Sean Slade, tradisce ancora una volta l'amore dei bostoniani per i loro numi tutelari Husker Du e Dinosaur Jr, ma insaporisce la pietanza con un suono più personale e tradizionale, che vira decisamente verso un rock più classico, con echi (più o meno) lontani di Neil Young e dello spleen tardo-adolescenziale del nascente fenomeno grunge. La chitarra e la voce intensa ed enfatica di Bill Janowitz svettano sempre imperiose sulla martellante sezione ritmica di Maginnis e Colbourn a disegnare melodie epiche, rabbiose e struggenti. Difficile scegliere una canzone "simbolo" della raccolta: si passa dalla chitarra nervosa e dal riff contagioso di "Birdbrain" all'intenso crescendo di "Skeleton Key", dalla melodia "morbosa" della splendida "Caress" al tiratissimo (quasi) hardcore di "Guy Who Is Me", dalla solenne ballata "Enemy" alla solare e coinvolgente "Crawl", dal rock sempre tirato ma più tradizionale di "Fortune Teller" alla lenta "Baby" (con Chris Colbourn alla voce solista), dalla strepitosa cavalcata chitarristica di "Directive" alla melodia "aperta" della bella "Bleeding Heart".
In appendice all'album, almeno nell'edizione su cd, è possibile inoltre trovare due chicche davvero imperdibili: una bellissima, rilassata e sognante cover acustica di "Heaven" degli Psychedelic Furs e la già citata "Reason Why", presente sul primo album e qui ripubblicata in una notevole versione unplugged che, liberata dalle sovrastrutture elettriche che l'appesantivano eccessivamente, stupisce non poco per l'eleganza e il gusto melodico, e si propone come una delle più belle canzoni mai incise dal terzetto di Boston.
Birdbrain è un disco senza cadute, che sfiora lo status di capolavoro e completa la maturazione artistica della band di Bill Janowitz, avvicinando i Buffalo Tom a un rock forse maggiormente tradizionale ma sicuramente mai banale.

L'operà della maturità per i Buffalo Tom arriva con il loro terzo disco datato 1992, unanimemente salutato dalla critica come il loro capolavoro e intitolato Let Me Come Over. L'album, caratterizzato da una delle copertine probabilmente meno accattivanti della storia del rock, è coprodotto dalla band con Paul Kolderie e il confermato Sean Slade e completa l'affrancamento della band dagl'ingombranti modelli degli esordi. Il suono è sempre chitarristico e rabbioso ma decisamente più melodico, "pulito" e legato al rock americano più tradizionale piuttosto che all'underground. Ancora una volta la formazione di Boston dimostra di essere abile a scrivere canzoni intense, epiche e struggenti, alternando cavalcate chitarristiche a classiche ballate "con il cuore in mano".
La raccolta si apre con la melodica e solare "Staples" che immediatamente sottolinea il "nuovo corso" della band di Janowitz. Il capolavoro dell'album (e probabilmente la più bella canzone mai scritta dai Buffalo Tom) arriva con la seconda traccia, intitolata "Taillights Fade", sontuosa e commovente ballata elettrica che racconta in toni accorati una inarrestabile deriva esistenziale: "I'm lost in the dark/ And I feel like a dinosaur/ Broken face and broken hands/ I'm a broken man/ I've hit the wall/ I'm about to fall/ But I'm closing in on it/ I feel so weak/ On a losing streak/ Watch my taillights fade to black/ I read a thing about this girl/ She was a hermit in her world/ Her story was much like mine/ She could be my valentine/ And although we've never met/ I won't forget her yet/ She cut herself off from her past/ Now she's alone at last". Nemmeno il tempo di riprendersi attraverso la camera di decompressione costituita dai tre minuti e rotti della gradevole e movimentata "Mountains Of Your Head" e arriviamo alla seconda gemma dell'album, la quarta traccia intitolata "Mineral", ballata caratterizzata da una bella melodia e da un emozionante crescendo.
La scaletta dell'album procede senza cedimenti con pezzi più elettrici e tirati, come "Darl", "Velvet Roof", "Stymied", "Saving Grace", ballate chitarristiche cariche di pathos, come "Larry", "Porchlight", "Frozen Lake", e brani maggiormente legati al roots e al country-rock (e forse meno interessanti) come "I'm Not There".
Let Me Come Over è un gioiello che avrebbe tutte le carte in regola per riscuotere congruo e meritato successo, ma paga dazio all'essere sospeso in una sorta di limbo: troppo "alternativo" per il pubblico "mainstream" e troppo tradizionale per quello alternativo. Il risultato, inevitabile, è che di questo disco si accorgono in pochi e i Buffalo Tom non riusciranno mai a raggiungere un successo meritato (ma forse mai realmente cercato e desiderato).

Tra Let Me Come Over e il suo successore Big Red Letter Day passa soltanto un anno. Il nuovo disco, coprodotto dalla band in collaborazione con Robb Brothers, esce infatti nel 1993 e segna un nuovo deciso allontanamento dall'underground degli esordi e dall'influenza di Husker Du e Dinosaur Jr, così marcata sui primi due album. Ormai i Buffalo Tom sono un gruppo di rock americano alternativo, ma decisamente tradizionale e con un buon appeal radiofonico. La chitarra di Bill Janowitz è sempre in evidenza, così come la sua voce appassionata e a tratti commovente, le melodie sono più morbide e l'album risulta gradevole ma forse un po' troppo monocorde, senza gli intensi picchi emotivi che avevano caratterizzato il predecessore.
Le canzoni sono tutte di buon livello ma non s'imprimono particolarmente nella memoria. "Sodajerk" è il brano trainante del disco, un pezzo piuttosto tradizionale che a sprazzi sembra citare i Rem. "I'm Allowed" è un'ottima ballata nella scia dei brani del disco precedente, con un testo intenso e struggente: "Waited for an answer/ But I waited for twenty five years/ They stopped my bleeding/ But could never stop all those tears". Il resto dell'album è gradevole ordinaria amministrazione.
L'impressione è che con Big Red Letter Day i Buffalo Tom si siano troppo "normalizzati", finendo per perdere la loro specificità e assomigliare a un gruppo "qualsiasi" di rock americano mainstream.

A questo punto anche i componenti della band si accorgono che urge una scossa, un salutare ritorno alle radici, ai volumi alti degli esordi, alla passione riversata su muri di chitarre rabbiose e a una più rocciosa sezione ritmica. Per il nuovo album, che esce nel 1995 e s'intitola Sleepy Eyed, viene chiamato alla produzione un mostro sacro del rock alternativo come John Agnello che aiuta la band a riportare in auge il sound grezzo e "sporco" dei primi dischi, senza ovviamente rinunciare alla melodia, da sempre marchio di fabbrica del terzetto di Boston.
Il disco si apre subito con la veemenza chitarristica di "Tangerine" e con il sorriso benevolente di Bob Mould degli Husker Du, che fa di nuovo capolino fra le note suonate dalla band di Bill Janowitz. La canzone è una delle migliori mai scritte dai Buffalo Tom ed è degna di far parte di una ideale antologia del gruppo. Il secondo brano della raccolta, "Summer", è una struggente e trascinante ballata che riesce a fondere benissimo il suono grezzo di Birdbrain con l'emozionante pathos di Let Me Come Over. Più morbida e immediata è la terza traccia "Kitchen Door" (cantata da Chris Colbourn, come anche "Clobbered" e "Twenty Points"), mentre il volume ritorna alto con le coinvolgenti "Rules", "It's You" e "Your Stripes". "Sunday Night" è l'ennesima commovente ballata scritta da Janowitz e soci ("Sunday night and now I know/ How the night can pass slow/ All kinds of ugly outside that's right/ And I'm all alone tonight").
Sleepy Eyed, insomma, rialza decisamente le quotazioni della band rispetto all'elegante ma opaco Big Red Letter Day e riporta i Buffalo Tom al crepitante sound chitarristico delle origini. In tal senso possiamo dire che, tranne che per un paio di momenti più melodici e tradizionali, Sleepy Eyed è l'ideale prosieguo di Birdbrain, piuttosto che di Let Me Come Over, nonché uno dei migliori album della band di Boston.

Nel 1997 esce un disco solista di Bill Janowitz intitolato Lonesome Billy e realizzato dal cantante e chitarrista in collaborazione con Joey Burns e John Convertino, componenti di Giant Sand e Calexico. Lontano dai Buffalo Tom, Bill Janowitz prende inaspettatamente la strada del folk e del country più tradizionale. A Lonesome Billy seguiranno nuovi lavori solisti di Janowitz nel 2001 (Up Here) e nel 2004 (Fireworks On TV, realizzato con i Crown Victoria).

I Buffalo Tom ritornano nel 1998 con Smitten, un disco coprodotto dal gruppo con David Bianco e letteralmente ignorato da pubblico e critica. Ormai la band di Janowitz sembra non interessare più a nessuno e anche lo scarso e relativo successo di Let Me Come Over appare come un ricordo lontano.
Dopo i volumi alti e le atmosfere crepitanti di Sleepy Eyed, con Smitten il pendolo dei Buffalo Tom sembra oscillare di nuovo verso un rock più "pulito" e tradizionale, melodico e orecchiabile, gradevole ma non particolarmente originale. I brani migliori della raccolta sono all'inizio: l'album si apre con la bella "Rachel", cantata da Chris Colbourn e che sembra trarre ispirazione dal rock di Tom Petty, con qualche eco dei Rem più tradizionali. Ottime anche "Postcard" e "Knot On It", che grazie alla voce enfatica e intensa di Bill Janowitz per un attimo sembrano rievocare i tempi d'oro. Troviamo di nuovo Chris Colbourn alla voce per l'orecchiabile "The Bible", mentre "Scottish Window" è una elegante e gradevole ballata dalla melodia aperta e rilassata. "White Paint Morning" è puro power-pop chitarristico, "Wiser" l'ennesima buona ballata scritta dal gruppo di Boston.
Purtroppo, nonostante contenga qualche ottima canzone, Smitten non decolla mai davvero e l'impressione che se ne ricava è che si tratti di un disco stanco e fine a sé stesso, che non aggiunge nulla di nuovo e significativo alla storia del gruppo. Un disco in qualche modo "fuori tempo massimo", un album di rock americano "classico" uscito in un periodo storico nel quale il pubblico e la critica guardano in tutt'altra direzione, verso i suoni scarni e sperimentali del lo-fi e del post-rock. Partiti come dei cloni dei Dinosaur Jr, i Buffalo Tom, ormai, per tutti sono diventati un gruppo di dinosauri. Anche Janowitz e soci percepiscono il paradosso della situazione e decidono di prendersi una lunga, e forse definitiva, pausa di riflessione, durante la quale, a suggello dell'avventura della band, vengono pubblicate due raccolte di singoli e rarità.

I Buffalo Tom ritornano con materiale inedito solo nove anni più tardi, nel 2007, con un nuovo disco intitolato Three Easy Pieces, prodotto dalla band e inciso per una nuova etichetta, l'indipendente New West Records. Ormai i tempi di Birdbrain e di Let Me Come Over sono lontani anni luce e, per fortuna, lo sono anche quelli dello spento Smitten. I Buffalo Tom sono un gruppo ormai dimenticato dal pubblico e snobbato dalla critica, le loro emozionanti canzoni sembrano ormai "perdute nell'oscurità", come lo era il protagonista della loro canzone-capolavoro, la splendida "Taillights fade". Il treno del successo è passato da un pezzo, i Buffalo Tom ci sono saliti per un attimo ma sono scesi subito alla prima fermata: ora Bill Janowitz e soci sono tre ex-ragazzi con la capacità di scrivere belle canzoni, che possono permettersi di suonare insieme quello che gli piace senza assilli di sorta.
Three Easy Pieces non aggiunge nulla di nuovo e indimenticabile alla storia dei Buffalo Tom: è solo un onestissimo disco di alternative-rock americano, suonato bene e cantato con la passione sopita ma mai spenta di chi, superata la fatidica soglia degli "anta", preferisce non guardarsi indietro per immalinconirsi con bilanci amareggiati, ma sceglie di guardare avanti, imbracciare i propri strumenti e fare quello che meglio gli riesce: suonare. Le canzoni sono tutte di buon livello, fresche ed emozionanti come quelle di un gruppo esordiente, ma con la maturità rilassata di chi nelle scarpe ha parecchia polvere delle tante strade percorse. L'iniziale "Bad Phone Call" e "Lost Downtown" sono eccellenti ballate, la title track e "Bottom Of The Rain" sono brani più movimentati e rabbiosi, "Renovating" e "Good Girl" gradevolissimo guitar-pop, "Gravity" addirittura folk-rock (vecchio amore di Bill Janowitz e oggetto delle sue fatiche soliste).
Three Easy Pieces, insomma, è un album discreto, ma, anche stavolta, se ne accorgono in pochi.

Evidentemente la reunion del 2007 non è un caso isolato, perché Janowitz e soci ritornano nel 2011 con un album, intitolato semplicemente Skins, prodotto dalla band (con l'aiuto al mix del vecchio amico Paul Kolderie) e inciso per la Scrawny Records.
Il nuovo lavoro sostanzialmente conferma la buona vena di Three Easy Pieces, mettendo ulteriormente a fuoco le melodie e la costruzione dei brani e dando la concreta impressione che non si tratti solo della riproposizione di un copione un po' scontato ma un nuovo punto di partenza e di rilancio di un gruppo che non ha alcuna intenzione di diventare una band di “dinosauri”. Con il nuovo album i Buffalo Tom non tentano di proporre nulla che non sia già abbondantemente nelle loro corde, ma le canzoni sono sorprendentemente belle, curate e intense.
La band di Boston con ammirevole coerenza (o, dal punto di vista di eventuali detrattori, nell'incapacità di rinnovarsi), snocciola una serie di ottimi brani, concisi e diretti, di rock americano di stampo tradizionale, che non possono che risultare gradevolissimi per chi è cresciuto con le canzoni di Birdbrain e Let Me Come Over nel cuore e nelle orecchie.
Skins è un album vario, che alterna brani più leggeri e rilassati, come il piacevole, ma forse un po' frivolo, guitar-pop di “She's Not Your Thing” e “The Kids Just Sleep”, il bel duetto acustico tra Bill Janowitz e Tanya Donnelly in “Don't Forget Me”, le ariose e vivaci ballate “Here I Come”, “Guilty Girls” e la splendida “Out Of The Dark”, la melodia “classica” di “Miss Barren Brooks”, le atmosfere languide di “Paper Knife” e il country-rock di “The Hawks And The Sparrows” a episodi ben più crepitanti e chitarristici che non sfigurerebbero tra i momenti più graffianti di Sleepy Eyed e che impetuosamente accendono un fuoco che sembrava ormai spento dal passare degli anni ma che, evidentemente, covava solo sotto le ceneri del tempo.
“Rock n' roll will never die” canterebbe uno come Neil Young che conosce bene l'argomento. E ballate elettriche come “Arise, Watch”, “Down” (decisamente il capolavoro della raccolta), “Lost Weekend” e “The Big Light” non fanno che ribadire la capacità dei Buffalo Tom di colpire al cuore con cavalcate chitarristiche emozionanti e piene di passione, talmente inconfondibili che l'appassionato del gruppo riuscirebbe a riconoscerle senza indugi fin dalle prime note.
In definitiva, “Skins” è un gran bel disco, che pur non raggiungendo le vette dei loro capolavori, si pone come un nuovo punto di partenza per tre musicisti che, alla fatidica soglia dei venticinque anni di attività, dimostrano di non avere alcuna intenzione di rinunciare alla propria personalissima e minimale missione di scrivere ballate rock, per quei pochi che, infischiandosene di mode e tendenze, ancora hanno il cuore e la passione di “sentirle” sulla propria pelle e nella propria anima.

Una storia semplice, quella dei Buffalo Tom: una storia che, per fortuna, sembrerebbe non essere ancora in procinto di concludersi e che ha consegnato finora ai posteri ben otto album di intenso e appassionato rock, e una manciata di belle e struggenti canzoni che avrebbero meritato miglior sorte di quella di “perdersi nell'oscurità, come fanali posteriori che si spengono nel  buio”.

A fine aprile del 2017, sul palco dell'Hot Stove Cool Music, un concerto di beneficenza che si tiene annualmente a Boston, i Buffalo Tom raggiungono Eddie Vedder per una jam session nella quale viene eseguita un'accorata versione a due voci dell'ormai classica “Taillights Fade”. Il video dell'evento, reperibile su YouTube, è una significativa (e per certi versi commovente) testimonianza di come la band del Massachusetts non sia passata invano, guadagnandosi nel suo lungo viaggio il rispetto e la considerazione anche di colleghi di successo come il leader dei Pearl Jam.
Immaginiamo che un simile riconoscimento abbia contribuito a spingere Bill Janowitz e soci ad andare avanti nella loro minimale missione di mettere in musica le luci e le ombre del Sogno Americano e, a ben sette anni di distanza dall'ottimo Skins, ai primi di marzo del 2018, i Buffalo Tom pubblicano il loro nono album, di nuovo per l'etichetta Scrawny e con un aiuto al mixer del vecchio amico John Agnello. Per inciderlo, con un mercato discografico sempre più asfittico e appiattito sullo streaming, il gruppo di Boston è stato costretto a fare ricorso al sostegno dei fan (ringraziati pubblicamente nelle note di copertina del disco) attraverso una raccolta di fondi sulla piattaforma Pledgemusic. La line-up è quella di sempre, immutata e immutabile nel corso di una ormai trentennale carriera, anche se Bill Janowitz, Chris Colbourn e Tom Maginnis, ritratti in una foto all'interno del nuovo lavoro, tradiscono nelle loro rughe il raggiungimento di una evidente mezza età.
Per fortuna, i segni sulla pelle non affliggono la passione della voce e lo scintillante clangore del classico chitarra-basso-batteria del rodatissimo trio: Quiet And Peace, prevedibilmente, ancora una volta non azzarda rivoluzioni, ma sciorina con mestiere una manciata di buone canzoni di tradizionale rock americano, oscillanti (nomen omen) tra la quiete di atmosfere ariose e solari e il (relativo) rumore di passaggi più rabbiosi e crepitanti, lasciando il compito di chiudere il programma (al netto di alcune bonus track) a una splendida cover della classica “Only Living Boy in New York” di Simon & Garfunkel. Un lavoro gradevole e godibile, ma nonostante la consueta energia profusa generosamente dalla band, forse questa volta manca la scintilla, il sacro fuoco che aveva illuminato le raccolte precedenti, con il risultato di brani si susseguono troppo simili gli uni agli altri (notevoli, in ogni caso, “All Be Gone” e la splendida “Freckles”). Nell'insieme, Quiet And Peace non va oltre un'onesta sufficienza.

Buffalo Tom

Discografia

BUFFALO TOM

Buffalo Tom (1989)

6,5

Birdbrain (1990)

7,5

Let Me Come Over (1992)

8

Big Red Letter Day (1993)

6

Sleepy Eyed (1995)

7

Smitten (1998)

5,5

Three Easy Pieces (2007)

6,5

Skins (Scrawny, 2011)

7

Quiet And Peace (Schoolkids Records, 2018)6
BILL JANOWITZ
Lonesome Billy (1997)

Up Here (2001)

Fireworks On TV (2004)

Pietra miliare
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