Butthole Surfers

Butthole Surfers

Il rock della degenerazione

Dissacranti e violenti, i texani Butthole Surfers hanno attraversato tre decenni di musica rock tra hardcore, noise, psichedelia e metal. Dai leggendari dischi degli anni Ottanta, all’approdo major degli anni Novanta fino alla timida popolarità raggiunta all'inizio del nuovo millennio. L’oltraggioso nome della band, partito dai sobborghi di San Antonio, è comparso nei titoli di coda di famosi telefilm, celebri videogame e persino in un cartone animato. Ma in realtà la loro è la colonna sonora del nulla

di Salvatore Setola

...come le vostre speranze: nulla
come il vostro paradiso: nulla
come i vostri idoli: nulla
come i vostri capi politici: nulla
come i vostri eroi: nulla
come i vostri artisti: nulla
come le vostre religioni: nulla
(Francis Picabia, Manifesto cannibale nell’oscurità)  

Tra i gruppi  venuti fuori dalla scena underground americana degli anni Ottanta, i Butthole Surfers, sottovalutati da certa critica troppo impegnata a millantare i presunti pregi dell’effimera next big thing di turno per degnarsi di loro, sono stati tra i più importanti, geniali e innovativi. Se certamente non sono stati i primi a conferire prestigio culturale a un certo tipo di musica che di solito viene definita “demenziale”, sono stati di certo gli unici a darle addirittura un anelito spirituale, filosofico. L’assoluta centralità del quintetto texano nella storia del rock è confermata, in primis, dalla natura iconoclasta, dissacrante e fascinosamente ributtante della loro estetica: i Butthole Surfers sono stati gli ultimi degni discendenti del rock della degenerazione, e al tempo stesso risultano ancora oggi i padri della catastrofe post-moderna in musica.

Il lororock è figlio delle danze moderne dei Pere Ubu, del caos grottesco di Captain Beefheart, degli assemblaggi assurdisti delle Mothers Of Invention, delle sinfonie dell’alienazione dei Residents, dei baccanali metropolitani dei Cramps. Non solo, il loro hardcore cerebroleso è legato anche al folk ubriaco dei leggendari Holy Modal Rounders, alle visioni apocalittiche dei Chrome, ai rituali rumoristi dei Red Crayola. Di contro, generazioni di musicisti cha vanno dai misconosciuti Ed Hall agli Ween, passando per Shit & Shine e Human Eye, fanno intendere, attraverso le loro gesta, che la filiazione dei surfisti del Texas è stata di prima qualità.

Quella messa in scena dai Butthole Surfers è la parodia in musica della tragedia umana, e segna definitivamente la morte dell’uomo inteso in senso pirandelliano, che depone finalmente le sue maschere di compostezza, pudore, buonismo e si mostra in tutto il suo ribrezzo. Per i Butthole Surfers, la stupidità e la volgarità sembrano le uniche possibilità di esistenza, ma anche di redenzione, che l’uomo possiede. L’umanità da loro descritta, come quella dei Devo, è in irreversibile agonia ma felice della propria inettitudine. La differenza è che l’uomo-mongoloide cantato dai Devo è disumanizzato, mentre l’uomo descritto dai Butthole Surfers è più umano che mai: regredito mentalmente fino allo stadio infantile e storicamente fino a quello dell’Homo erectus. Per questo motivo la musica dei Butthole Suferfs può essere descritta con un solo aggettivo: libera, da ogni vincolo morale o sociale.

Fare poesia con rumori concreti e organici è molto più difficile che farla con termini aulici: le immense poesie in musica dei vari Bob Dylan o Nick Cave non potranno mai tenere testa filosoficamente all’anti-arte dei Butthole Surfers: se la realtà è così fallace e ingannevole, anche i valori su cui essa si fonda sono tali; tanto vale allora celebrarne le esequie, lasciandosi vincere dal nulla. In realtà questa posizione è tutt’altro che arrendevole: è come se bestemmiando si volesse arrivare a Dio; è come se negando la bellezza si volesse raggiungerla. Un enorme paradosso: questi sono i Butthole Surfers.
Tale paradosso è fatto di poesia tragica: l’epifania ultima dello sguardo infantile, che cerca di rispondere col delirio all'impossibile ricerca di un senso. La stupidità, la spontaneità, l’irrazionalità non sono altro che strumenti  per eludere la solitudine e la tristezza umane. Per dirla con André Gide: si finge di esser felici, dal momento che non si può esserlo, liberando il proprio spirito dalle pesanti catene della logica.
I Butthole Surfers non esprimono lamenti di sofferenza o di rabbia, come succede per esempio ai musicisti blues, a quelli hardcore o a certi esponenti del cantautorato più intimista; consci dell’ineluttabilità del dolore, essi ne ridono. Ma l’aspetto comico e divertente della loro musica è talmente ben amalgamato con quello emozionale e filosofico che risulta difficile capire quando stanno facendo sul serio e quando, invece, stanno solo prendendo per il culo il mondo intero.

Da una prospettiva stilistica, invece, i Butthole Surfers vengono inquadrati nell’ambito di un hardcore imbastardito da chitarre acide, figlie delle primissime esperienze psichedeliche californiane, e da componenti ritmiche (su alcuni dischi sono ben due le batterie nella loro line-up) che esaltano l’elemento tribale, piuttosto che la velocità d’esecuzione tipica del suddetto genere.

La band si formò a San Antonio, per opera degli allora laureandi in economia (disciplina, questa, che poco si confaceva al loro stile di vita, fatto di alcol, droghe e atti osceni) Gibby Haynes (voce, chitarra e sassofono) e Paul Leary (chitarra), ai quali presto si aggiunse il batterista Paul Coffey con lo pseudonimo di King Koffee. Sarà questo il nucleo centrale dei Butthole Surfers, a cui di volta in volta si aggiungeranno nuovi componenti, in sostituzione dei precedenti, come in un estenuante giro di vite.

La scelta del loro nome fu dovuta a un aneddoto leggendario quanto la loro musica, memore della poetica del caso dadaista: quando Haynes, Leary e l’allora batterista Scott Stevens iniziarono a suonare,  il gruppo si chiamava  Dick Clark Five, ma destino volle che durante uno dei loro primi concerti, il presentatore, anziché col loro nome, li annunciasse con il nome del primo brano segnato sulla loro demo-tape. Il brano, che poi finirà sul loro album d’esordio, si chiamava "Butthole Surfer", in  italiano “Surfista del buco del culo”. Dopo questo episodio, i tre decisero di chiamarsi oltraggiosamente “Surfisti del buco del culo”. L’osceno nome, tra l’altro, li renderà vittime di non pochi ostracismi quando non di vere e proprie censure.

Lungo tutti gli anni Ottanta, i Butthole Surfers hanno marchiato a fuoco, tassello dopo tassello e album dopo album, la storia del rock. È questo il periodo in cui hanno sotterraneamente gettato le basi per molta della musica indipendente americana a venire, incidendo anche per label storiche dell’underground statunitense.

A Time For Drugs: il periodo indie (1983-1991) 

“Il genio non è che l’infanzia ritrovata per un atto di volontà”
 
(Charles Baudelaire)
 

L’esordio sulla breve distanza dei Butthole Surfers avvenne con un seminale Ep omonimo, conosciuto anche col titolo di Brown Reason To Live, pubblicato nel 1983 dall’etichetta indipendente Alternative Tentacles sotto segnalazione di Jello Biafra, storico leader dei Dead Kennedys
I brani dell’Ep sono in tutto sette e mostrano come la line-up della band a quel tempo fosse ancora in via di definizione: c’erano Leary e Haynes, ai quali si era appena aggiunto Koffee, che aveva avuto il tempo di registrare solo due dei brani finiti su Butthole Surfers (“Bar-B-Q Pope” e “Wichita Cathedral”). Koffee suonava la “batteria” (le virgolette sono d’obbligo, dato che si trattava di un assemblaggio di due tamburi, una grancassa e un piatto!) stando in piedi, proprio come Moe Tucker dei Velvet Underground; non a caso, le sue figure ritmiche, belluine e tribali, sembrano essere figlie di “Sister Ray” e di “European Son”.
Gli altri strumentisti che parteciparono alle registrazioni furono i freschi dimissionari fratelli Matthews, il batterista Brad Johnson, i bassisti Quinn e Bill Jolly.

I diciotto minuti e spiccioli dell’Ep scorrono all’insegna del delirio più malsano che la storia del rock ricordi: brani perlopiù brevi che spesso assumono le sembianze di schegge impazzite (il pandemonio hardcore-noise dell’iniziale “The Shah Sleeps In Lee Harvey’s Grave”; il brutale cazzeggio di “Suicide”). Nonostante l’acclarata verve demenziale mostrata dalla band, Haynes e Leary si dimostrano tutt’altro che adolescenti in preda a sterili pruriti avanguardisti: la musique concrete di Edgar Varése e Pierre Schaeffer, anche se espressione più aulica e “aristocratica”, non è poi così lontana dai sottofondi rumoristi che brulicano nei brani dei Surfers, così come pure le alienanti sinfonie per chitarre di Rhys Chatham e Glenn Branca sono solo dietro l’angolo. Leary, d’altronde, è un vero maestro nello sfregiare timbro e tonalità della propria chitarra; il suo campionario di distorsioni, dissonanze e disarmonie raggiunge un’apoteosi sfibrante nel funk vulcanizzato di “Something”.
In un paio di brani (“Hey” e “Bar-B-Q Pope”), però, questi surfisti malati si concedono un’escursione, ovviamente insana, nelle lande del folkpsichedelico di fine anni Sessanta, aggiornandolo ai ritmi nevrastenici del post-punk dei Feelies.
I due capolavori del disco si chiamano “Witchita Cathedral” e “The Revenge Of Anus Presley”, quest’ultima geniale fin dal titolo. “Witchita Cathedral” è un brano incentrato sul boogie depravato della sezione ritmica, sul quale Haynes intona (pardon: stona) un blues grandguignolesco, mentre la chitarra di Leary produce detriti sonori di ogni sorta. “The Revenge Of Anus Presley” è un pezzo di cabaret tragicomico, vestito di cadenze hard-blues, sfigurato con ogni mezzo possibile (mostruoso è il canto gutturale di Keith Rumbo, frontman dei concittadini Marching Plague, così come mostruose sono le reiterazioni rumoriste delle corde di Leary).
La filosofia dei Butthole Surfers può essere sintetizzata in alcuni estratti dal testo di “The Shah Sleeps In Lee Harvey’s Grave”: “There’s a time to shit and time for God/ There’s a time for drugs and time to be sane/ There’s a time to live and time to die/ There’s a time to fuck and time to crave” ("C’è un tempo per la merda e un tempo per Dio/ C’è un tempo per le droghe e un tempo per essere lucidi/ C’è un tempo per vivere e un tempo per morire/ C’è un tempo per fottere e un tempo per desiderare”).

Dopo l'Ep omonimo, la band passò dalla Alternative Tentacles alla Touch & Go, e per questa fondamentale etichetta dell’underground americano, nel 1985, i Butthole Surfers pubblicarono il loro epocale disco di debutto: Psychic Powerless... Another Man’s Sac.
“Concubine”, il primo brano, si apre con le distorsioni omicide della chitarra di Leary, le urla isteriche di Haynes e una rovente sezione ritmica, affidata a due batteristi (oltre a Koffee, c’era Teresa Taylor, detta “Nervosa”, che dal vivo suonava a torso nudo!) e al bassista  Mark Kramer. I due minuti e mezzo del pezzo sembrano essere gli ultimi che precedono la fine del mondo, che infatti sta per arrivare nella successiva “Eye Of The Chicken”, la quale si rivela, però, soltanto un bluff: l’attacco supersonico viene troncato di colpo, poi ripreso e ancora strozzato, e così via fino alla fine. Dopotutto questa è musica per menti instabili.
“Dum Dum” è una danza collettiva della scemenza, guidata da poliritmi ferini a sostenere la chitarra abrasiva di Leary e il canto malfermo di Haynes. Segue “Woly Boly”, un altro rituale postmoderno incalzato dalle dissonanze magistrali di Leary; un inno selvaggio alla gioia di essere ebeti.
Rispetto alle prime quattro canzoni “Negro Observer” è più ragionata, per quanto questa musica possa esserlo: arpeggi puliti, sezione ritmica accomodante, canto deliziosamente sguaiato e sax vagamente anemico. Pop suonato in manicomio.
L’hardcore troneggia ancora nelle scariche propulsive di “Butthole Surfer”, ma anche in questo caso il risultato sembra essere più vicino a un improbabile cerimoniale aborigeno post-urbano che all’hardcore feroce suonato dai coevi gruppi di Washington o Los Angeles. Il raccapricciante incipit disarmonico di “Lady Sniff” si apre a un ritmo heavy-funk farcito di disturbi “concreti” (rutti, sputi, peti, conati e sciacquone del cesso!): è il vertice inarrivabile del loro cabaret del disgusto.
“Cherub”, il pezzo più lungo del lotto, è aperto da una chitarra che rimanda a pinkfloydiani suoni astronomici, e da un basso mortuario. Si tratta di un brano di pessimismo futurista, che attraverso la musica descrive il regresso oltre il progresso: anche se l’uomo arrivasse a conquistare l’intero universo, rimarrebbe comunque becero e trivio. I rutti, che ancora una volta si odono in mezzo alle distorsioni intergalattiche, potrebbero esserne un segno emblematico. La follia riprende la sua posizione dominante nella cavalcata psicolabile di “Mexican Caravan” e nel tripudio anarchico di “Cowboy Bob”. Si chiude col tragicomico country-rock, malsano e sgangherato, di “Gary Floyd” (brano dedicato all’omonimo cantante dei Dicks che Koffee considerava la più grande voce blues mai esistita).

Alla fine del 1985 Teresa Taylor lasciò momentaneamente il gruppo (vi ritornerà due anni dopo), e così, con una formazione rimaneggiata, nel 1986, i surfisti osceni pubblicarono Rembrandt Pussyhorse (Touch & Go), album che mostra una faccia dei Surfers ancora goliardica, ma decisamente meno esistenzialista. Il disco segnò il distacco definitivo della band da quel sound  hardcore che essa stessa  aveva reso meno spartano grazie alle contaminazioni stilistiche (avanguardia e psichedelia) e concettuali (il taglio arty, così lontano dall’austerità ostentata da gruppi come Minor Threat e Black Flag) apportate al genere nei dischi precedenti. E proprio la capacità di essere profondamente hardcore, pur prescindendo dalle convenzioni e dagli schemi da esso codificati, ha reso i Butthole Surfers un caso quasi  unico nel suo genere (eccezion fatta per gli immensi Minutemen, anche loro capaci di trascendere l’hardcore da cui partivano e di approdare a un genere altro, e per gli ottimi Flipper ).
Il brano di apertura, “Creep In The Cellar”, è spiazzante: una breve sonata “da camera” per piano e violino che materializza il fantasma ubriaco di Peter Stempfel (Holy Modal Rounders, Fugs). Altrove (“Sea Ferring” e “Waiting For Jimmy To Kick”), complice una sezione ritmica dalle pulsazioni torbide, la band di San Antonio manifesta una sorprendente ascendenza verso il cabaret darkwave dei Tuxedomoon. L’apice di questa musica più cupa e seriosa è rappresentato dal brano “Strangers Die Everyday”: un raccapricciante requiem per organo alle morti anonime.
L’impotenza psichica chiede una possibilità di rivalsa  (“Perry” è un pandemonio creativo a base di punk andato in cancrena), ma viene nuovamente smorzata dalla cantilena psichedelica di “Whirling Hall Of Knives” e dai Killing Joke immersi nell’acido di “Mark Says Alright”. Non convince, infine, la versione lobotomizzata del celebre brano dei Guess Who “American Woman”, che conserva solo la parvenza di sberleffo dadaista (Leary, pur non rinunciando al suo armamentario distorsivo, sembra annaspare tra riff ingentiliti e assoli tutto sommato “garbati”).
Rembrandt Pussyhorse è senz’altro una buona prova di eclettismo stilistico, che però non vale i primi due capolavori della band: la sensazione è che il disco faccia il verso alla new wave fuori tempo massimo.

Nel 1987, tornata Teresa Taylor in squadra e avvicendatisi almeno tre bassisti (Kramer, Trevor Malcom e Jeff Pinkus), i Butthole Surfers approntarono il loro disco più ambizioso: Locust Abortion Technician (Touch & Go). Anche se il budget per la produzione dell’album era come al solito modesto, la band texana si ingegnò molto per cercare di recuperare la potenza sonora degli esordi, evitando però di ripetersi. Ne venne fuori un album-parodia monotematico, che, pur con le dozzinali strumentazioni tecniche avute a disposizione dalla band, presenta inediti effetti elettronici, tra cui le manipolazioni della voce di Haynes, definite “gibbytronics” in ossequio (o sfottò) ai famosi “frippertronics” di Robert Fripp.
Dopo un’ introduzione a base di archi celestiali, una voce alticcia annuncia l’esecuzione di una canzone satanica; partono riff di chitarra crepitanti, ma ovviamente è tutta una presa in giro dei cliché di certo metal maledetto: la voce è talmente cupa da risultare grottesca, gli assoli sono quelli stereotipati dei gruppi "metallici" degli anni Ottanta, la sezione ritmica è turgida e ossuta. Però é tutta una farsa (il brano si intitola “Sweat Loaf”, storpiatura della sabbathiana “Sweet Leaf”), come nel loro stile. Già da questo primo brano, dunque, si possono intuire i propositi di questi surfisti irriverenti: mettere in croce (per una volta!) l’heavy metal. I brani successivi ne danno una pervicace conferma: in “Graveyard 1” la sezione ritmica maciulla in modo impetuoso tempi  doom metal mentre Leary scortica la sua chitarra a colpi di fuzz, scordature ed effetti slide lerci; “Pittsburg To Lebanon” è, invece, un terrificanteblues delle tenebre à-la Black Sabbath.
Leary, con i suoi mini-concerti dissonanti (“Weber” e “22 Going On 23”), è il protagonista assoluto del disco, anche perché, rispetto agli album precedenti, la sezione ritmica appare, per esigenze “di copione”, più monolitica e meno duttile. “Human Cannonball”, coi  suoi assoli da guitar-hero maniacale su un impianto ritmico “motoristico” degno dei Neu!, è allora il capolavoro del disco. Le digressioni elettroniche (“Hay”, “U.S.S.A.”) sono momenti ludici che danno respiro al disco, ma gli esotisimi di “Kuntz”, pezzo che vede i Butthole Surfers nei panni di scellerati dj, superano ogni immaginazione: un brano tradizionale thailandese viene ignobilmente alterato per effetto di manipolazioni e remix.

Nonostante il tema della parodia dell’heavy metal e il ricorso all’elettronica, Locust Abortion Technician può essere considerato il disco noise dei Butthole Surfers (a supporto di tale tesi basta citare l’olocausto sonoro di “The O-Men”). L’originale mix stilistico offerto dai Butthole Surfers in questo disco, infatti, li candidava al ruolo di band foriera di un linguaggio alternativo al noise branchiano dei Sonic Youth, a quello melodico dei Dinosaur Jr e a quello meccanomorfo dei Big Black.
Ma le promesse fatte dal gruppo in tal senso non saranno mantenute perché il successivo Hairway To Steven (Touch & Go, 1987) sarà un viaggio, come al solito sgangherato e buffonesco, nel rock psichedelico di fine anni Sessanta e nell’hard-rock di inizio Settanta. 

Locust Abortion Technician, intanto, conquistava la critica statunitense (che continua a considerarlo l’album capolavoro del gruppo), una buona fetta di pubblico (per promuovere il disco venne addirittura realizzato un video che riuscì ad ottenere passaggi su Mtv), e le giovani leve di musicisti indie americani (tra tutti Kurt Cobain, che considerava quest’album il principale precursore del grunge di Seattle). Bellissimo anche l’artwork di copertina, splendido esemplare dell’ “arte antropomorfa” di Arthur Sarnoff, artista che realizzò per Haynes e soci l’enigmatica immagine dei due clown che addestrano un cane.

L’anno seguente i Butthole Surfers diedero alle stampe un disco bizzarro fin dal titolo, Hairway To Steven (che prendeva di mira attraverso una sorta di anagramma l’immortale canzone dei Led Zeppelin “Stairway To Heaven”), e dal retro di copertina, che riportava ogni canzone, non con il proprio titolo, bensì con disegnini grotteschi e irriverenti. Per esempio: la traccia uno era rappresentata da un uomo e una donna nudi che defecano e urinano mentre giocano a baseball; le tracce quattro e cinque, invece, erano rappresentate rispettivamente da una sigaretta e da una siringa, e così via. I reali titoli delle canzoni vennero resi noti solo qualche anno dopo.
Questi giochetti goliardici, come al solito, si ritrovano anche nella materia musicale, ma stavolta appaiono meno complessi e più fine a se stessi. Non è un reato, infatti, affermare che, pur nella sua gradevolezza (anzi, è proprio questa gradevolezza il suo difetto principale), Hairway To Steven sia un album di cazzeggio tout-court, laddove i lavori precedenti trovavano un’uniformità poetica ed estetica ben definita. Con quest’album i Surfers andavano a frugare tra i lacerti della musica californiana dei Sixties e disinfettavano con essi le escoriazioni noise-punk-hardcore causate dalla loro indole anarchica. I risultati, però, possono essere sì esilaranti (“Ricky”, ovvero: Kevin Coyne riletto da Lux Interior accompagnato dai Grateful Dead!), ma anche claudicanti (lo scialbo western salmodiante di “I Saw An X-Ray Of A Girl Passing Gas”), e tra un rock’n’roll malvagio (“Julio Iglesias) e una laida ballata byrdsiana (“Rocky”), i Nostri trovavano il modo di calare il tris d’assi che (non) ti aspetti: “Jimi”, “John E. Smoke” e “Backass”.
“Jimi” è il brano d’apertura, nonché la canzone più lunga del disco: su una base ritmica distruttiva, la chitarra di Leary si produce in amplessi hendrixiani, scanditi da mostruose voci alterate che blaterano nella tempesta elettrica; uragani elettronici interrompono questo stillicidio sonoro per lasciare spazio a un più rassicurante folk-rock. “John E. Smoke” è, invece, una litania psichedelica che accelera in un cow-core balzano à-la Meat Puppets, mentre “Backass” scaraventa una crisalide chitarristica disarmonica contro un monolite ritmico imponente.

Hairway To Steven è senz’altro il primo disco dei Butthole Surfers in cui si avvertono i sintomi iniziali della patologia creativa che Haynes e soci contrarranno da lì a qualche anno: pur trattandosi di un buon disco, le idee danno la sensazione di essere decisamente meno geniali, e neanche il ricorso a soluzioni elettroniche più professionali e ad arrangiamenti acustici insolitamente eleganti impedirà al germe di sedimentarsi.  

Nel 1989 i Butthole Surfers celebrarono i loro sei anni di carriera con la pubblicazione di un doppio album dal vivo, intitolato pleonasticamente Double Live (Latino Buggerveil): si tratta di un bootleg, scaricabile oggi sul loro sito ufficiale, la cui scarsa qualità acustica finisce per rovinare anche quella musicale. Questo live, che contiene anche due curiose cover di Rem (“The One I Love”) e Grand Funk Railroad (“Paranoid”), resta comunque una testimonianza importante dell’attività dal vivo della band nei tardi anni Ottanta.
Tra l’altro, gli show dei Butthole Surfers conservano un’aura di leggenda venerata dagli appassionati di contaminazioni tra rock e altre forme d’arte: i loro assurdi spettacoli vedevano la partecipazione di ballerine nude, dedite spesso a provocanti giochi erotici, che danzavano davanti a surreali filmati anatomici (per esempio, quello che illustrava la ricostruzione cartilaginea di un pene), mentre intorno ai musicisti scoppiava un putiferio di luci stroboscopiche, fuoco e fumo. 

Nel 1991 i Butthole Surfers pubblicarono l'album Pioughd per un’altra importante etichetta indipendente, la Rough Trade, prima di firmare con la Capitol l’anno successivo. Uscita definitivamente dal gruppo Teresa Nervosa, il ritmo restava ora affare solitario di King Coffee, che modellò timbri più corposi e meno selvaggi. Il disco si apre con “Revolution”, divisa in due parti, che oltre al titolo ha ben poco di rivoluzionario: il delirio è solo simulato. Infatti, dietro il canto malfermo e negletto di Haynes, dietro gli assoli aciduli ma impeccabili di Leary, affiorava l’esigenza di razionalizzare, in qualche modo, la confusione.
Con Pioughd i Butthole Surfers passarono di fatto dal cabaret del disgusto al cabaret e basta. Le falle sul fondo della loro arte cominciavano a essere vistose, il giocattolo si era rotto e non era più divertente giocarci. Se dovessimo trovare una metafora per rendere l’idea di cosa sono stati  i Butthole Surfers dal 1991 in poi, potremmo dire che con Pioughd i Butthole Surfers smarrirono definitivamente la loro infanzia ritrovata. Solo così si possono spiegare canzoni fino a qualche anno prima impensabili per la band texana: “Lonesome Bulldog”, country da sagra paesana cantato con un timbro vocale alla Sinatra; “Something”, che mette il testo della loro omonima canzone del 1983 sulle note di “Never Understand” dei Jesus & Mary Chain.
In altri episodi, “Golden Showers” e “Blindman”, i surfisti provano a riattizzare il fuoco morente: la prima si muove tra hard-blues psichedelico e jazz-soul insanamente screziato, attraverso un organo energico, un sax euforico e una chitarra graffiante; la seconda, invece, sfodera un hard-rock tellurico che va a lambire l’allora nascente stoner-rock.
Il disco, nella sostanza, non è un disastro, e anche la lunga e caotica jam “P.S.Y” si lascia ascoltare con interesse, ma mancano il furore anarchico, l’anelito esistenzialista e lo spirito dadaista che avevano reso i dischi precedenti, quale più quale meno, degni di elogi.

Nel 1992, come anticipato, i Butthole Surfers firmeranno per la major Capitol e, successivamente, arriveranno importanti riconoscimenti in termini di pubblico e popolarità, tanto che la canzone “Dracula From Huston” (da Wired Revolution) finirà nella colonna sonora del celebre telefilm “Scrubs”, mentre “Who Was In My Room Last Night?” (da Independent Worm Saloon) sarà scelta dalla Activision per il videogioco musicale “Guitar Hero II”.

A Time To Be Sane: il periodo major (1992-2002)

“Un mucchio di merda, è questo, l’arte”
(Kurt Schwitters)

La lezione dei Butthole Surfers è stata quella di dimostrare che la merda può diventare musica, può diventare arte, e i continui riferimenti scatologici presenti nelle loro canzoni sono l’evidente segno dei loro intenti concettuali, andati ovviamente a buon fine. Raggiunto il proprio obiettivo, la band texana è diventata se non un gruppo famoso, almeno più popolare, questo anche grazie alla maggior visibilità ottenuta dal contratto firmato con la Capitol.

Potrebbe sembrare sconsiderato, oggi, che una multinazionale del disco si prendesse allora l’onere e le responsabilità di pubblicare la musica di un gruppo simile, ma ormai i Surfers stavano normalizzando il loro sound in un innocuo miscuglio di hardcore melodico, hard-rock di “maniera” e rap asettico, adeguandosi alle mode musicali del momento: il crossover e il grunge. Ecco perché la Capitol decise di puntare su di loro: avrebbero potuto fare il botto come i Nirvana o i Red Hot Chili Peppers; non lo fecero, ma almeno, se non qui in Italia, nella loro patria qualche persona in più si ricorda di loro (per esempio Matt Groening, creatore dei Simpson, che in una puntata della serie fa indossare una maglietta dei mitici surfisti al figlio dell’ultrabigotto Ned Flanders!).
In fondo fa piacere veder tributato a una grande band anche questo genere di riconoscimenti. Detto questo, era fisiologico che il calo d’ispirazione del gruppo, percepito in Pioughd, dovesse manifestarsi compiutamente nei dischi successivi. Sarebbe quindi capzioso affermare che i Butthole Surfers degli anni Novanta si siano svenduti alla grande industria musicale. Resta il fatto che gli artisti texani, pur non scendendo quasi mai sotto la soglia della decenza, non pubblicheranno più un disco degno della loro fama di terroristi musicali.

Il nuovo corso si aprì con Independent Worm Saloon, disco del 1993 prodotto da John Paul Jones dei Led Zeppelin, e la traccia d’apertura, “Who Was In My Room Last Night?”, subito svela gli effetti che tale scelta aveva causato al sound della band, la quale vagava ormai in terre prossime a un hard-rock canonico e a un metal standardizzato. Anche gli assoli di Leary suonavano ormai tanto impeccabili e pirotecnici quanto vanesi, e una ballata elettro-acustica come “The Wooden Song” confermava che i Butthole Surfers avevano svoltato l’angolo una volta e per sempre.

Independent Worm Saloon, apprezzabile in alcuni episodi, scorre infatti senza particolari guizzi, tra deliri addomesticati (“Tongue”, “Alcohol”, “Some Dispute Over T-Shirt Sales”), strizzate d’occhio al grunge (“Goofy’s Concern”, “Dancing Fool”) e all’heavy metal (“Dog Inside Your Body”, “Dust Devil”, “Edgar”). Allora, il brano più interessante finisce per essere quello che da tali clichè si allontana: “The Ballad Of Naked Man”, con cadenze campestri nell’arrangiamento per banjo, chitarra acustica e percussioni. Il contraltare di un pezzo simile non può che essere la fiera delle banalità racchiusa in “Clean It Up” (rumorismo chitarristico di seconda mano su amenità metalliche di terz’ordine).
Sessantatré minuti, questa la durata del disco: decisamente troppi per un gruppo che andava esaurendo  le proprie idee e trovate. La noia è spesso in agguato e l’inedita veste pseudo-metallara che i Surfers cercavano di cucirsi addosso, stava decisamente stretta a chi aveva avuto l’ardire di scegliersi quel nome e di mostrarlo al mondo del rock come fosse un dito medio alzato.

I Butthole Surfers versione-Capitol tornarono nel 1996 con Electriclarryland, album che continuava a cavalcare praterie heavy metal grazie a brani, feroci nel ritmo e graffianti nelle chitarre, come “Birds”, “Ulcer Breakout” e “Space”. Siccome trattasi comunque di un disco dei Butthole Surfers, non potevano mancare allucinate ballate di acido folk-rock, anche se meno spiazzanti rispetto ai loro soliti standard (“Cough Syrup”, “Jingle Of A Dog’s Collar”). Non contenti, i Nostri provano anche una via al crossover, quello più convenzionale di “Thermador” e “The Lord Is A Monkey”, e quello più personale di "Pepper" (rap, metal e venature etno).
L’episodio più sconcertante è però “Tv Star”, il punto più basso del disco e uno dei più bassi dell’intera epopea Butthole Surfers: una spiazzante (sì spiazzante, ma nell’accezione negativa del termine) folk ballad ricoperta di miele pop del più disgustoso; praticamente un misto tra un Neil Young per niente ispirato e una boy band per ragazzine quattordicenni in calore.

Si può tranquillamente affermare che i Butthole Surfers nel 1996 erano una band alla frutta, in preda a un eclettismo talmente vacuo da partorire esperimenti sonori, come “My Brother’s Wife”, privi di motivi di interesse, nonché totalmente inespressivi. Un peccato, perché Electriclarryland, grazie a un pugno di canzoni se non più rivoluzionarie almeno decenti, avrebbe potuto riscattare il passo falso di Independent Worm Saloon, quando invece risulta solo meno irritante.

Dopo la pubblicazione di Electriclarryland, nel 1998 la Capitol bocciò l’imminente progetto dei surfisti, il cui titolo avrebbe dovuto essere “After The Astronaut”, e loro, risentiti, ripiegarono tre anni più tardi verso la label Surf Dog, che pubblicò quello cha ancora oggi risulta l’ultimo album in studio dei Butthole Surfers: Weird Revolution, composto da gran parte delle canzoni che sarebbero dovute comparire in “After The Astronaut”.  

I Butthole Surfers sono approdati così anche al nuovo millennio, e lo hanno fatto con un disco che vanta una produzione impeccabile in grado di cammuffare con rutilanti interventi di studio canzoni che spesso non stanno in piedi, così da rendere apprezzabili episodi che altrimenti risulterebbero indigesti (l’hip-hop sensuale di “The Shame Of Life”, il punk-pop adolescenziale di “Dracula From Huston” e l’insolita ballata malinconica di “Jet Fighter”).

In Weird Revolution, tranne il collage postmoderno di “After The Astronaut”, non ci sono pezzi di particolare rilevanza, però nel complesso si tratta di un lavoro omogeneo e solido, esente dalle cadute di stile imbarazzanti che avevano minato la credibilità del gruppo nei due dischi precedenti. In fondo, chi ama i vecchi surfisti potrebbe compiacersi anche del rap delirante di “Shit Like That”, dell’etno-disco di “Mexico” o dell’electro-funk danzereccio di “Get Down”.

Nel 2002 i Butthole Surfers tornavano finalmente a essere gli sbeffeggiatori anarcoidi di un tempo, ma solo grazie a una lodevole operazione antologica della Latino Buggerveil, che pubblicò diciassette schegge perdute (scarti, bonus track, b-side, inediti) registrate tra il 1982 e il 1994.
Humpty Dumpty Lsd, questo il titolo della raccolta, è un interessante mosaico che raffigura l’immagine di una band straordinaria al proprio apice - gran parte del materiale, infatti, proviene dalle sessioni di registrazione tra il 1983 e il 1985 - attraverso frammenti di vecchie canzoni (“Perry Intro”, “Concubine Solo”), esperimenti terroristici free-form (“One Hundred Million People Dead”, “Hetero Skeleton”), maelstrom electro-noise (“Space I”,  “Day Of The Dying Alive”), immancabili cavalcate lisergiche (“I Love You Peggy”, “Ghandi”) e un grandissimo inno post-punk qual è “Just A Boy”. Un disco senz’altro da avere, almeno per chi ha amato i primi album dei surfisti meno fighi di tutti gli Stati Uniti.

Dopo sette anni, i Butthole Surfers ritornano dal vivo per un'unica data italiana. Si esibiranno il 25 aprile all'Estragon di Bologna, proprio con la formazione che li vide protagonisti negli anni 80: Gibby Haynes, Paul Leary, Jeff Pinkus, King Coffey e Teresa Taylor. Sul palco riproporranno solo materiale del periodo 1980-1991, e saranno accompagnati da visuals e da una ballerina.

Referenze:

Mark Paytress,
Mark Paytress Unravels the Career of the Cult American Band
Bob Gulla, Austin
's BUTTHOLE SURFERS host a theater of the Absurd
Steven Blush, Tex-ass in American Punk Hardcore (Shake edizioni)
Andrea Prevignano, Trance Syndicate in Noise (Castelvecchi editore)

Butthole Surfers

Discografia

Butthole Surfers Ep (Alternative Tentacles, 1983)

9

Psychic Powerless... Another Man's Sac (Touch & Go, 1985)

9

Rembrandt Pussyhorse (Touch & Go, 1986)

7

Locust Abortion Technician (Touch & Go, 1987)

8

Hairway To Steven (Touch & Go, 1988)

7

Double Live (Latino Buggerveil, 1989)

5

Pioughd (Rough Trade, 1991)

6

Independent Worm Saloon (Capitol, 1994)

5

Electriclarryland (Capitol, 1996)

5,5

Weird Revolution (Surf Dog, 2001)

6

Humpty Dumpty LSD (Latino Buggerveil, 2002)

7

Pietra miliare
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