East Of Eden

Folk-jazz agli albori del prog

Sospeso tra la psichedelia del recente passato, il jazz, il folk e le suggestioni del rock "duro", il combo degli East Of Eden, guidato dal violinista Dave Arbus, diede un contributo importante a quella caotica scena che, sul finire dei Sessanta, portò alla nascita del progressive-rock

di Marco Donato

Nella caotica scena sempre in evoluzione che alla fine degli anni 60 portò alla nascita del progressive-rock (la cui stagione si apre convenzionalmente con il primo disco dei King Crimson), per una folta serie gruppi non fu facile restare sulla cresta dell’onda e lasciare il proprio nome negli annali, nonostante il loro contributo spesso fondamentale allo sviluppo di questo "nuovo" sound. Uno dei più meritevoli tra questi gruppi ibridi, sospesi tra la psichedelia del recente passato, il jazz e le suggestioni del rock "duro", fu il combo degli East Of Eden. Formati nel 1967 a Bristol, non ebbero quasi mai una formazione stabile, e questo fu uno dei motivi per cui non riuscirono a sfruttare appieno le loro potenzialità, soprattutto al passaggio con il decennio successivo.

Mente e braccio del gruppo, nonché membro fisso fino al 1975, era il violinista e polistrumentista Dave Arbus (più famoso forse per aver suonato lo storico assolo finale di "Baba O’Riley" degli Who); a lui si affiancava nella formazione originale il sassofonista Ron Caines, nonché il chitarrista e cantante Geoff Nicholson, il batterista Dave Dufont e il bassista Steve York, anche se questi ultimi due avrebbero lasciato il gruppo appena dopo le registrazioni del primo album.

Questa instabilità di fondo non cariò tuttavia la compattezza del loro granitico sound: Mercator Projected (1969) è da considerarsi come un vero classico di questo strano genere non ancora codificato, debitore al blues ("Northern Hemisphere", trascinante riff di chitarra contrappuntato dal violino di uno splendido Arbus) quanto al jazz e al folk (l’esotica litania di "Isadora"); esso trova i suoi momenti migliori nella meravigliosa seconda facciata, che si apre con la malinconica ode di "Bathers", sospesa in una nebbia di mellotron dalla fragranza vivissima, incursione nel melodrammatico che non ha nulla da invidiare ai migliori lavori di Fripp e soci.
Ciò che sorprende fin dal primo ascolto di questo album è la fittissima policromia, insita negli arrangiamenti quanto nella straordinaria versatilità della band, che trova una salsa adatta per condire ogni brano: è il caso dell’incredibile "Moth", serenata dall’incedere epico, compressa in un sound incisivo e possente, e guidata da un grande riff di violino. Tuttavia non si deve pensare che la band si prenda troppo sul serio: sketch comici (a dire il vero di difficile e incerta fruizione) sono disseminati negli spazi fra le tracce, e il gusto della jam session di gruppo si ritrova nella finale "In The Stable Of The Sphinx", che suggella in maniera impeccabile un album che ha tutti i crismi per essere definito fondamentale, esaltando inoltre il virtuosismo sempre gustoso dei musicisti coinvolti nel progetto. Unica macchia vera e propria è "Centaur Woman", che oltre ad avere una struttura piuttosto convenzionale, ospita un terribile, raffazzonato e lunghissimo assolo di basso di York (in seguito disprezzato anche dal suo stesso autore); ma, vista la statura media del resto dell’album, una piccola caduta si può perdonare.

Nonostante l’apertura heavy un po’ goffa di "Have To Whack It Up", il seguente Snafu (1970) vira decisamente verso il free-jazz: un calderone di assoli dilatati e trovate estemporanee, segnato da un uso intensivo del backward recording ("Xhorkom", "Habibi Baby"), questo album rimescola gli ingredienti del primo disco in maniera caotica e spigolosa. Tra autocitazioni ("Boehm Constrictor" non è che una ripresa del tema principale di "In The Stable Of The Sphinx"), temi rubacchiati qua e là (echi di Mingus in "In The Snow For A Blow") e nonsense compiaciuti dalla patina avanguardistica ("Uno Transito Clapori"), il minestrone orientaleggiante della band si spinge avanti con grande mestiere, seppure con una certa fatica; certo la freschezza dell’esordio è perduta, assieme forse a buona parte delle idee che avevano saputo rendere unico il loro sound. Curioso che proprio mentre sfornano un’opera così complessa e magmatica, gli East Of Eden arrivino in classifica con il piacevolissimo violino folk di "Jig-A-Jig".

Nel 1971, la band non esiste già più: il solo Dave Arbus si ritrova a ricostruire una nuova formazione per quello che ormai è diventato il suo personale progetto; nel frattempo il contratto per la Deram è scaduto e la casa discografica ha messo in commercio, per lucrare sul successo di "Jig-A-Jig", una gustosa quanto futile compilation che porta appunto il nome del fortunato singolo. A firmare per la Harvest è una line-up del tutto diversa da quella di appena un anno prima: il violinista è adesso accompagnato da Jim Roche alla chitarra, David Jack al basso e voce, Jeff Allen alla batteria. Nonostante Arbus tinga ora i brani di bluegrass ("Wonderful Feeling"), ora li spinga verso un prototipo di raga-rock alla Quintessence ("To Mrs. V.", il brano più interessante), East Of Eden (1971) è fondamentalmente un album bruttino di hard-rock chitarristico, occasionalmente guarnito da tempi dispari e cadenze funk ("Here Comes The Day", "Crazy Daisy").

Ma il fondo sarà toccato entro la fine dell’anno dall’orrido minestrone country-rock di New Leaf, che per uno scherzo del destino contiene anche il brano migliore del periodo (lo strumentale "Bradshaw The Bison Hunter").

Another Eden (1975) lascia intravedere qualche timido segno di ripresa, all’insegna di un blues-rock ancora più convenzionale ma perlomeno piuttosto curato ("Mandarin’s Daughter"), anche se Arbus, ultimo superstite della formazione originale, lascerà la band dopo la pubblicazione per andare a suonare con l’amico Richard Sinclair (già bassista degli storici Caravan).
I nuovi East Of Eden pubblicheranno tre album mediocri di rock’n’roll danzereccio e vagamente discotecaro per poi sciogliersi alla vigilia del nuovo decennio.

Nel 1996 tre dei pilastri della formazione originale - Ron Caines, Dave Arbus e Geoff Nicholson – si ritrovano assieme a registrare un nuovo album sfruttando il moniker East Of Eden; Kalipse (1997), tuttavia, è ben lungi dal riprendere il discorso iniziato negli anni 60, e si rivela un album di fusion piuttosto pigra, salvato a stento dal solito ineccepibile Arbus ("5th Amendment"), mentre la sezione ritmica, fornita da un bassista di scarso profilo e da un’insipida drum machine, fa acqua da tutte le parti.

Armadillo (2000) versa un po’ di pepe nella minestra e si dimostra una sapiente e gustosa variazione sul tema; più versatile del suo predecessore, offre una visione d’insieme dell’abilità di Arbus e soci di spaziare tra diversi stili, conservando una patina unitaria: anche gli arrangiamenti sono decisamente più curati.

Graffito (2005) è il terzo, e probabilmente ultimo, album della serie, ma non aggiunge molto agli ingredienti del proprio predecessore.

Sia che decidano di andare avanti nei loro nuovi panni fusion, sia che abbiano raggiunto la fine della loro tormentata carriera discografica, gli East Of Eden di Dave Arbus saranno sempre giustamente ricordati per il loro favoloso debut-album più che per qualsiasi cosa pubblicata in seguito. E’ un vero peccato che le circostanze avverse non abbiano saputo trasformare questa band in uno dei nomi di punta del rock anni 70, è ancora più triste che al nome East Of Eden siano ormai legati dischi mediocri che non hanno niente a che fare con i capolavori di un tempo, da riscoprire e rivalutare.

East Of Eden

Discografia

Mercator Projected (Deram, 1969)

8,5

Snafu (Deram, 1970)

7

Jig-A-Jig (antologia, Deram, 1971)

7

East Of Eden (Harvest, 1971)

5

New Leaf (Harvest, 1971)

3

The World Of East Of Eden (antologia, Deram, 1971)
Another Eden (EMI, 1975)

4

Here We Go Again (EMI, 1976)

2

It’s The Climate (Harvest, 1976)

2

Silver Park (Harvest, 1978)

2

Son of East of Eden Live (live, 1990)

6

Kalipse (Transatlantic, 1997)

4

Armadillo (Talking Elephant, 2000)

5

Graffito (Eclectic, 2005)

4

Pietra miliare
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