Liars

Liars

L'aftershock della no wave

I newyorkesi Liars hanno impresso un nuovo shock "no wave" all'umano torpore delle coscienze, tra invocazioni pagane e ironico cinismo, sul sentiero della deflagrazione sonora. Racconti di urbana follia, dalla fantasmagoria di New York all'essenzialità di Berlino

di Mimma Schirosi

Il sistema sanitario degli Stati Uniti d'America, nella fattispecie quello psichiatrico, non è onnipotente, la cultura post-moderna/neo-millennica si nutre, bulimica, di apparenti follie, la tavola dei valori si tras-valuta e l'intellighenzia musicale si avvolge su un delirio compiaciuto.
I modi di perseguire l'originalità si diversificano: vecchie glorie si rifanno pietosamente il make-up, altre, con sincero coraggio, indossano i segni del tempo, nuove leve emulano con cocciutaggine da asini, i poser non mancano, l'indie-pop a volte diverte, altre fa sbadigliare, i live raramente inducono estasi, l'ascoltatore esigente/emotivo aspetta l'agognato pugno nello stomaco.
Se è vero che la catarsi passa attraverso una fase di doloroso scuotimento, la cui terapia prevede la somministrazione di incubi angosciosi, immagini raccapriccianti dai quali non distogliere lo sguardo, sinistri ghigni di un maligno che altera la mimica facciale, cigolii di una meccanica inquietante, metamorfosi bestiali, esistono ancora infermieri/fuorilegge che, sfuggendo al controllo di un'autorità viscidamente politically correct, periodicamente tornano a trafficare con la macchina dell'elettroshock. I Liars, come demoni ex machina risaliti dalle viscere della terra, vengono a dosare le scariche sonore sforando il fabbisogno quotidiano di endorfine e/o superando lo stato di calma che diviene, nella migliore delle ipotesi, caduta irresistibile in una spirale di oscura psichedelia vicina all'ottundimento.

Come un'entità che scivola, incolume, nella pelle del drago più incandescente, l'allampanato Angus Andrew, insieme con il chitarrista e percussionista Aaron Hempill, il bassista Pat Noecker e il batterista Ron Albertson, inizia a spaccare il timpano di una New York escatologicamente delirante millennaristiche fobie nel 2000, con l'album They Threw Us All In A Trench And Stuck A Monument On Top.
Il sistema musicale, intorpidito e ammansito, dopo le remote, ormai sfocate follie no wave, è afferrato, strizzato, scosso, alla stregua di un modesto colletto bianco intristito dal rimpianto dei giovanili fulgori. La morfologia liarsiana si staglia, infatti, come una cospirazione al sonno delle umane coscienze, una foga cieca ed esoterica, a tratti super-ominica, per la gran carica fisica e il potenziale di scuotimento psichico presente già dal primo album.
In They Threw Us All in a Trench And Stuck non esistono sorrisi, semmai ghigni beffardi, non c'è raggio di sole, ma solo scuri occhiali da sole che proteggano dall'invasione dello stesso, dimentichiamoci sconti di pena, perché la realtà è presa, capovolta, rigirata, accusata, sadicamente seviziata con surreale sdegno.
Immediatamente il furioso richiamo al pubblico, distratto dal bailamme delle umane stupidità: Angus Andrew, sempre più adirato, in un crescendo sinistro, urla "Can you hear us? Can you hear us? Can you hear us?", sostenuto dall'urto frontale di una batteria che tutto sp(i)azza ("Grown Men Don't Just Fall In A River Like That"). A seguire, il mister X, emblema della medietà, viene aggredito di spalle dalla scheggia punk-funk di "Mr You're On Fire, Mr", con un piglio alla Red Hot Chili Peppers in versione spiritata e funambolica.
Una fiera belva alla This Heat si aggira umorale e pronta all'attacco in "The Garden Was Crowded And Outside", esibendo il lato più acido di sé nell'omaggio/campionamento al graffio delle ESG ("Tumbling Walls Buried Me in Debris with ESG").
L'efferato basso funk, alternato da schitarrate finto pop, irrompe nella stanza dei bottoni con "We Live NE In Compton" chiuso dalla lunga catatonia in visionario e intimo soliloquio inaccessibile all'altrui orecchio di "This Dust Makes This Mud", traccia della durata di 30, angosciosi minuti circa.

Alimentando il clamore dell'esordio, i Liars incidono l'Ep Fink To Make Us More Fish Like che, insieme a una riproposizione di "Grown Men Don't Fall In The River, Just Like That", ospita la corsa urgente di "Pillars Were Hollow And Filled With Candy So We Tore Them Down" e la sprangata schizoide di "Everyday Is A Child With Teeth"; nello stesso anno pubblicano lo split Atheists Reconsider, piccolo gioiellino d'energia e deflagrazione condivise, attraverso la reciproca coverizzazione, con gli Oneida, altro prodigio della scena newyorkese di inizio millennio.
La sensazione è di germinale stato confusionale, immediatamente dichiarato dai Liars in "Rose And Licorice", per poi esser sbattuto in faccia all'ascoltatore dagli Oneida ("Privilege") che, con "Fantastic Morgue" si preparano alla dannazione punk della cover di "Every Day Is A Child With Teeth". I Liars, da virtuosi dell'irriverenza, recitano con provocatoria nonchalance la filastrocca di "All in All In A Careful Party" e combinano alienanti stralci di conversazione esasperati sino all'ossessione dai rintocchi di uno xilofono compulsivo ("Dorothy Taps The Toe Of The Famil"), rimandando a certe turbe della personalità di discendenza Death In June.

Dopo due anni di ulteriore avanzata verso l'abisso più allucinato, un cambiamento nella line-up (la fuoriuscita di Noecker e Albertson e l'entrata di Julian Gross alla batteria) e due Ep, We No Longer Knew Who We Were, brillante di cinico punk-funk ("I Hate Stupid Phones") e spintoni punk n' roll ("Every Two Hours With A Ducks Fan") e There's Always Room On The Broom, contenente i due inediti "Skull & Crossbrooms" (breve e strumentale), e "Broom"(ennesimo passo tratto dal breviario dei mantra), arriva il nuovo trip: l'ossessione della stregoneria, il limite dell'eresia, l'allucinogeno più macabro, mescolati in una pozione letale, generano They Were Wrong So We Drowned.
Il colore è sempre più oscuro e frazionato in particelle rosso cupo, pulsanti ipnotica attrazione. Il disco si apre con piglio industrial, echeggiante passi di un rituale di iniziazione massonica in piena narcosi, perfettamente resa dal vigore delle percussioni di Hempill ("Broken Witch"). L'entità Pop Group apre e rivolta l'aria con il semi-ululato di "There's Alwais Room On The Bro", mentre, sull'altare della cultura, si sta per celebrare il rito dei mantelli neri intorno a "We Fenced Other Houses With Bones of Our Own", dalla litania metropolitana ("Fly, fly, the devil's in your eyes... shoot... shoot").
Albe seguenti sabba notturni, guardano, sul ciglio, il baratro oceanico ("Read The Book That Wrote Itself"). Racconti di urbana follia girano nel vortice stordente di "They Took 14 For the Rest Of O", prima che un inaspettato organo segni la chiusura/filastrocca floydiana ("Flow My Tears the Spider Said").

La bellezza del secondo album viene ulteriormente enfatizzata dall'uscita di un altro suggestivo Ep, accompagnato dalla realizzazione di tre video: We Fenced Other Gardens With The Bones Of Our Own, contenitore di "Sex Boy", cover dei Germs resa scheggia impazzita, simile a una camicia di forza strappata con foga, e "The Fountain And Its Monologue", inumano strumentale di eco lontane, "disturbate" da sotterranei percuotere.
L'effetto impressionante di They Were Wrong So We Drowned viene confermato da un lungo tour che tocca anche l'Italia. La sensazione di rapimento, già suscitato dai lavori in studio, diventa inesorabile cooptare nel live. Andrew non nasconde l'esagitata e iconoclasta personalità, presentandosi in completi/pigiama mille righe su un palco che diventa quasi la gabbia di uno zoo, da cui sbraitare e divincolarsi, arruffianandosi un pubblico estasiato dall'energia primitiva e letale.

Il tutto lascia presagire nuove bestialità che culminino nell'irrazionale, definitiva perdita del controllo, nella beffarda lobotomia di ogni stupidità. Ciò che accade, invece, è inaspettatamente più ponderato: agli inizi del 2006 esce Drum's Not Dead, album segnato e concepito da un netto cambio di residenza, che sposta il baricentro della ricerca dalla fantasmagoria di New York all'essenzialità di Berlino.
Come sradicandosi da un luogo che ha perso tutta la sua naturalità, il gruppo sembra compiere un atto di profonda introspezione, realizzando un lavoro che, stavolta, nasce dall'alto del corpo. L'approccio parte da una genealogia ancora ancestrale del mondo, quasi animato, nelle sue zolle più profonde, da un paganesimo celebrato sulle percussioni, paganesimo che trova, tra le sue divinità, Drum e Mt Heart Attack. Le due entità convivono in un dinamismo dialettico, dalla cui tensione hanno luogo le terrestri vicende, viste, dalla profondità dei creatori, come rifrazioni di un unicum illusorio, ingannevole per chi vi sguazza dentro.
Ad anticipare l'atmosfera vulcanica di Drum's Not Dead, i due Ep It Fit When I Was A Kid e The Other Side of Mt. Heart Attack; nel primo, oltre a un remix della title track, trova posto il punk-industrial di "Frozen Glacier Of Mastadon Blood" e l'avvitamento di bulloni di "Bingo! Count Draculuk". In The Other Side Of Mt Heart Attack, oltre ai due remix della title track e di "Drum And The Uncomfortable Can", squarcia le fondamenta il martello pneumatico dell'inedito "Do As The Birds, Eat The Remains".

E, finalmente, è Drum's Not Dead: l'incipit si trascina dietro un'aura alla "Amnesiac", confusa in un orizzonte troppo dilatato, portata quasi all'estasi dalle percussioni ("Be Quiet Mt. Heart Attcak") che, occupata la scena, richiamano, alla stregua di flauto magico, anche il cantato, in un'unica, angosciosa invocazione ("Let's Not Wrestle Mt. Heart Attack").
Come ingaggiata da un'imminente, cosmica lotta di sumo, arriva Drum, ammorbando l'aria della sua presenza altrettanto potente e determinante le sorti del conflitto: la voce si fa allucinato e lento declamare su un tappeto sonoro al rallentatore ("A Visit From Drum"). Sfiorando una psichedelia vicina al marchio Mercury Rev, avanza "It Fit When I Was a Kid", giocata sulla schizofrenia di un ego capace di mutare voce e stato d'animo, in corrispondenza di percussioni e pianoforte, come un'identità sospesa tra la veglia e il sonno.
Introdotta da un cantilenare ossessivo, torna Drum, evocata con drogato coinvolgimento ("Hold You Drum"), interrotta da un piccolo, oscuro ammonimento a Mt Heart Attack, e sostenuta dalla spinta emozionale di "Drum And The Uncomfortable Can".
Dopo il crepuscolare tribalismo alla Virgin Prunes di "You, Drum", si chiude con la stupefacente sorpresa di una pacata, lisergica ballata dedicata a Mt Heart Attack ("The Other Side Of Mt. Heart Attack"), momento di rilascio tensionale, successivo alla discordia.
Dopo, solo silenzio: lo sguardo si posa, attonito, sulle macerie dell'erosione e, spaventato, rifugge l'attrazione a guardare diritto negli occhi il delirio latente nell'ombra terribile e destabilizzante dell'umana ragione.
La coscienza offesa dall'andazzo generale delle cose brama, invece, nuovi accessi di collera che, alla stregua di movimenti tellurici, tutto distruggano e ogni cosa rimescolino, piegando l'auto-convinzione d'onnipotenza del sistema alla consapevolezza della propria miseria, e mutando la falsa casualità in terribile destino.

Giunti sulla linea di demarcazione tra Eros e Thanatos, pare che con Liars (2007) la band newyorkese abbia scelto un controverso limbo, costruito sull’illusoria convinzione di "essere dentro" al sistema, convinzione, però tentata dai più angosciosi, terrificanti e catartici incubi, che a volte ritornano in tutta la loro forza demistificatrice ("Leather Prowler"), a volte si sciolgono su catatoniche chitarre disturbate da sinistri rumori di fondo ("What Would They Know"), altre sfondano la zolla più coriacea del sistema nervoso con un pestare la batteria alla stregua di un divertissment con il martello pneumatico ("Pure Unevil"), per poi inseguire il miraggio di ciò che è stato immediatamente prima, adesso confuso da una nuova appartenenza alla realtà che ne sfoca la vista ("The Dumb in the Rain").
La ricerca di un unicum smarrito prosegue con l'inaspettato chitarrone hard-rock che tenta di restituire una maggior immediatezza al lavoro ("Cycle Time") e un'intro di finta tenebra voodoobilly smarritosi su un alt-rock non troppo gonfio ("Freak Out").
In chiusura, quasi a dimostrare di non aver rinnegato un certo, fortunato passato, un ritorno al punk funk più acido e psichedelico, alla They Were Wrong So We Drowned ("Clear Island"), e una ballata in bianco e nero per organo, batteria, voce ed effetti, capace di anticipare certo bramoso mood autunnale ("Protection").
La capacità di rimescolare abilmente il tutto per tirarne fuori gli incubi più attraenti e, allo stesso tempo, sedurli sino alla catarsi, anche scegliendo la strada di una più ostica eterogeneità, ci restituisce un disco inaspettato, più complesso di quanto sembri e libero dall’ansia di assurgere a definitivo capolavoro.

Nei tre anni che separano Liars da Sisterworld (2010), la calma apparente con cui li avevamo lasciati lascia il posto a tensioni che, come ribollire vulcanico, emergono prepotenti. "Scissor" è il pericoloso strumento che si muove nelle mani di un uomo affetto da disturbo di personalità multipla ("I found her/ With my scissor/ This heart fell/ To the round/ I'm supposed to save you now/ But my hands are freaking out"), la cui alternanza di stati d'animo è efficacemente resa dall'intro dolente e messianico, alla maniera di un ambiguo, nuovo Re Lucertola, per poi esplodere nel falsetto percussivo di Angus e tornar nei ranghi della gravità di un organo. Laddove "Barrier No Fun" lascia il retrogusto di una festa, seppur mesta, nella quale il senso d'alienazione viene ricamato nell'aria da un violino à-la Tuxedomoon, "Drip" è rituale cigolante, ambient mefistofelica, cerimonia oppiacea per pochi adepti.
La no wave citazionista di se stessa e la nevrosi scoppiano tutte nella follia omicida di "Scarecrows On A Killer Slunt", atto di feroce salvezza da esistenze inconsapevoli della propria mediocrità, come reca il ritornello finale ("How can they be saved from the way they live every day?"), condito da distorsioni à-la Throbbing Gristle, per poi andare a passeggiare con i Radiohead nell'Ade denso di sottili polveri sulfuree ("Drop Dead"). Servito il dancefloor avvezzo a ballare i Liars (e quanto è liberatorio!) con "The Overachievers", si chiude con materiale onirico tratto dalla più narcotica delle evanescenze ("Too Much Too Much).
Il sogno potrebbe essere anche terminato. O potremmo illuderci che lo sia. In fondo, l'importante è non tentare d'aggirare l'Apocalisse, ma starci al gioco senza pretendere di vincerla. La presunzione del bene potrebbe nullificare quanto la banalità del male. E i Liars, ancora una volta, dimostrano d'esserne consapevoli.

WIXIW (2012), sesto album in studio per la Mute, generato in un non-luogo isolato dal delirio urbano - quasi come a prenderne le distanze per studiarlo con maggior distacco - e registrato a Los Angeles, conferma la capacità di modificare la forma senza alterare troppo la sostanza di quella che, da sempre, resta un'oscura poetica del post-Apocalisse. Smembrando l'ossatura dell'album è immediatamente percettibile un uso privilegiato dell'elettronica, che stavolta diventa matrice fondamentale e sempre più contigua al mood dei più recenti Thom Yorke & co., talvolta in un contrasto più vischioso, netto e sofferto nella tensione e nella pulsione ("No. 1 Against The Rush"), in altri casi apparentemente più accostabile a quell'incedere etereo, per poi rivelare una forza di gravità ben più pesante ("Who Is The Hunter"), sino ad aprirsi a una tessitura più leggera e consanguinea ("His And Mine Sensations"). Se l'esperienza primordiale dei Liars affonda le proprie radici in una serie prolungata di scosse d'assestamento, successive all'apice della scala no-wave, gli anni trascorsi dall'esordio ripescano dal torbido del più oscuro post-punk, complice la co-produzione di Daniel Miller, storico fondatore della Mute, che fa salire il panico sino al ricordo angoscioso del ghigno malefico di Johnny Rotten nella preziosa scatola di metallo ("A Ring On Every Finger", "Brats").
La fedeltà a se stessi resta inalterata e memorie sfocate dell'antico mood visceralmente catartico e alienante à-la-Drum's Not Dead tornano ad affacciarsi e rivendicare la storica importanza ("Octagon"). Malgrado il rilascio tensionale, nella title track la fame d'aria non passa e si dilata in un confuso, avvolgente incubo circolare, scandito da un fragile mantra, epicamente recitato dai rintocchi sui piatti. L'inquietudine della quiete - ché mai nessuna quiete è realmente tale - cala il sipario su quella che non è una fine, ma l'ennesima, enigmatica suggestione ("Annual Moon Words"). Una fragilità desolante permea l'intero album, e messi da parte i sabba e le ossessioni monocordi è forse, come mai prima, nuda, offrendo all'ascoltatore la possibilità di rifugiarsi negli spigoli di un'architettura mentale complessa e seducente.

Negli ultimi anni, dunque, i Liars si sono progressivamente avvicinati a una struttura elettronica debitrice tanto al synth-punk dei Suicide, quanto ai ritmi dance della Ebm anni 90 che tanto faceva faville nei club vagamente dark di quei tempi, oltre ovviamente alla techno e in parte l'house.
Mess (2014) è l'inesorabile, definitivo approdo a questo stile, una personale e ulteriore definizione di punk. Il nuovo lavoro dei losangelini gioca a essere un album dance senza esserlo mai del tutto, mischia le carte buttando dentro versioni distorte del synth-pop, della techno e dell'elettronica in generale. Versioni dei Depeche Mode imbottiti di ansiolitici affiorano negli episodi più “pop” (il singolo di lancio “Mess On A Mission”, le bordate taglienti di “Vox Tuned D.E.D”), trasfigurazioni techno mischiano le carte virando verso lidi finora inesplorati dal gruppo (sia “Darkside” che “Mask Maker” ricordano The Architect), mentre i rimandi prettamente Ebm danno un esempio di cosa significhi il termine dance per i Liars (i giri circolari del synth di “I'm No Gold”, le stasi e le implosioni di “Pro Anti Anti”). La vena fortemente sperimentale della musica partorita dai “bugiardi” rimane nelle scomposte note che reggono la difficoltosa “Can't Hear Well”, nelle deliranti e dolorose sonorità della lunga “Perpetual Village”, oltre al finale “Left Speaker Blown”, nove minuti di catarsi malata, una purificante discesa agli inferi, il perfetto compimento che riesce contemporaneamente a spalancare le porte al nuovo rimanendo fedeli al passato. Dopo anni di sferragliate chitarristiche e drumming incessante, forse la via dell'elettronica potrà essere nuova linfa vitale per una band mai doma e sempre pronta a sorprendere.

Nel 2014 il batterista Julian Gross decide di abbandonare la band. Di lì a poco la medesima decisione viene presa anche da Aaron Hamphill. In particolare questa seconda separazione segna profondamente Angus Andrew, il quale decide di proseguire l’avventura in perfetta solitudine, rifugiandosi in una baita sperduta nella natia Australia, cercando ispirazione nell'isolamento dai clamori luccicanti di New York, Los Angeles e Berlino, le città al centro dei propri interessi per tanti fruttuosi anni. Andrew mette tutti i propri demoni in musica ed il risultato è TFCF (acronimo che sta per “Theme For Crying Fountain”), il quale diventa così il suo primo esperimento solista. Pubblicato a fine agosto 2017, l’ottavo capitolo dei Liars trasuda sofferenza da tuttii pori, e rappresenta la coraggiosa scelta di non rinunciare alla ragione sociale storica, vincendo la scommessa di continuare a stupire, anche da solo, sterzando rispetto alla direzione puramente elettronica intrapresa nei due lavori precedenti. Optando per una forma di rock avanguardistico diversa da ogni altra cosa già fatta in passato, è riuscito a trarre forza compositiva dalle negative vicissitudini degli ultimi mesi, trasformando il disagio in undici tracce nelle quali ha abbracciato un deviato sentimentalismo cantautorale, spesso incentrato sull’inatteso uso della chitarra acustica, ma tenendosi in qualche modo legato al percorso del gruppo, fra beat sintetici (“Staring At Zero”) e strutture mai convenzionali. Il piglio acustico - sempre opportunamente disturbato - è evidente sin dalle prime note dell’iniziale “The Grand Delusional”, eloquente nel mostrare lo sconforto per la relazione artistica interrotta. Una chitarra, la voce trattata, i beat electro sopraggiunti a metà traccia, l’estetica lo-fi, le medesime caratteristiche proposte nella successiva “Cliché Suite”, condita da malinconiche atmosfere spanish, e poco più avanti in “No Help Pamphlet”, prossima al Conor Oberst di “Digital Ash In A Digital Urn”.
Altra caratteristica portante di TFCF è il massiccio utilizzo di field recordings, suoni della natura e rumorismi assortiti catturati durante le fasi di registrazione tenendo un microfono acceso nella foresta adiacente lo studio. I risultati sono rintracciabili in particolare nelle prime parti di “Face To Face With My Face” ed “Emblems Of Another Story”, e nel closing ambient di “Crying Fountain”, il mesto addio, un corteo funebre che sancisce il definitivo epilogo di un lungo capitolo esistenziale. Tutto appare disorientante, frastagliato, lacerato e ricucito, fortemente manipolato in studio, con atmosfere che divengono persino drammatiche in “Ripe Ripe Rot”, quasi un volgere lo sguardo all’ultimo dilaniato Nick Cave. Ma dall’auto imposto isolamento sgorgano anche squarci di "pop" dissonante, concentrati dopo la metà dell’album, dove “No Tree No Branch”, l’elettronica lo-fi di “Cred Woes” (quasi un outtake del disco precedente) e il ritmo di “Coins At My Caged Fist” danno respiro, lasciando entrare qualche spiraglio di luce. Il "Liar" sopravvissuto riesce anche a togliersi la soddisfazione di inviare ai diretti interessati, in forma pubblica, l’istantanea col vestito nuziale immortalata sulla copertina, con la quale intende raffigurare l’abbandono sull’altare. TFCF diviene così il nuovo punto fermo dal quale ripartire per nuovi disegni futuri, la transizione verso nuove free form song meravigliosamente disallineate.

Dopo ben diciotto anni di onorata carriera tentano la strada della soundtrack con 1/1, primo film del regista Jeremy Phillips, triste storia di una giovane donna tormentata da problemi esistenziali, droghe e eccessi di vario genere. Una storia della modernità quindi, un malessere figlio del suo opposto, il “benessere” dell’opulenza americana. Registrato poco dopo la pubblicazione di “Mess” (2014),  i Liars (qui in versione duo, Angus Andrew e Aaron Hemphill) puntano decisi su una soundtrack elettronica, con tenaci appigli dubstep alla ricerca di ritmi nevrotici e atmosfere claustrofobiche che spesso si riducono a mero abbozzo. Pulsazioni e ritmi d’n’b (“Cottagevej”), glitch (“Caused By The Glitch”), scenari industrial (“The Jelling Ship”), si susseguono uno dopo l’altro per inserirsi nelle immagini del film. “Helsingor Lane”, una cantilena ipnotica tra sciami di chitarre, piano, voce spettrale e fiati distorti, torna ai “vecchi” Liars di “Drum’s Not Dead” e rappresenta il momento più commovente di 1/1 insieme al drone incessante di “Telepathic Interrogation” che ricorda che colonne sonore di Nick Cave e Warren Ellis, e alle angoscianti manipolazioni di "Shitraver". Il tentativo di soundtrack rappresenta un esperimento per la band newyorkese, un esperimento dove - in fin dei conti - non sperimentano nulla; probabilmente un album piacevole ma di transizione, in attesa di un nuovo prossimo lavoro.

Titles With The Word Fountain (2018) mostra fin dal titolo una continuità con TFCF, con una serie di ben diciassette tracce che farebbero malignamente pensare di trovarsi di fronte a semplici scarti del lavoro precedente. Niente di più falso; se si cerca ragionare in termini di un unico lungo brano, tutto l’album assume significati ben nobili. Non più piccoli abbozzi di idee di pochi minuti, ma un lungo flusso sonoro fatto di sofferenza e tragedia, dove l’ironia della cover e dei live (per chi ha avuto la fortuna di assistervi) è sommersa da synth macabri e voci sospirate (“Feed Truth”), continui field record, strida di uccelli e bizzarre tastiere simil-Residents (“Fantail Creeps”). E’ in certo senso il loro “The Faust Tapes”, l’album contenitore sparso. Tutto è un grande calderone di idee nuove e meno nuove, messe lì un po’ alla rinfusa, costantemente alla ricerca di un punto di continuità, come un flusso di coscienza solitario freudiano in stile James Joyce, che sa di lotta interiore e di dialogo con se stesso. Nella sua bizzarria Titles With The Word Fountain è un sincero tentativo di creare arte autentica, da elogiare e apprezzare indipendemente dal risultato raggiunto.

Angus Andrew si addentra in luoghi oscuri densi di lirismo ed echi con The Apple Drop (2021), mescolando ulteriormente le carte con la (storia della) musica di avanguardia. In questo visionario decimo capitolo della saga Liars le sue fantasie generate al computer e le architetture vocali sono rese tattili e concrete dal batterista avant-jazz Laurence Pike (Triosk, Pivot/PVT, Szun Waves) e dal polistrumentista Cameron Deyell (Streets of Laredo, Sia), mentre la poetessa Mary Pearson Andrew (High Places), compagna nella vita di Andrew, è co-autrice dei testi.

The Apple Drop è un album massimalista, classico e retrofuturista. È progressive, avant-garde, simbolista e psichedelico. Dentro c’è tutto ciò che lo precede e, allo stesso tempo, tutto ciò che lo supera, plasmato da un songwriting robusto ed eclettico. “Sekwar” non avrebbe sfigurato dentro “WXIXW” (Mute, 2012), ma dentro i suoni elettronici pulsano gli Swans. Così in ogni brano in cui abbiamo l’impressione di riconoscere qualcosa di familiare troviamo il guizzo: il finale gospel di “Star Search”, l’arpeggio à-la Radiohead di “In Rainbows” (XL, 2007) in “From What The Never Was”, le interferenze astrali dal pianeta Sun Ra nel garage obliquo di “My Pulse To Ponder”, le fughe degli strumenti a tastiera in piena vertigine Bjork nell’electro post-punk di “Leisure War”, la laccatura pop anni ’70 nella dream ballad “King of the Crooks”, l’andamento gothic di “Acid Cross” con i suoi calibrati eccessi nella manipolazione vocale.



Contributi di Alessandro Biancalana ("Mess"), Claudio Lancia ("TFCF"), Valerio D'Onofrio ("1/1" e "Theme From Crying Fountain"), Maria Teresa Soldani ("The Apple Drop")

Liars

Discografia

They Threw Us All In A Trench And Stuck A Monument On Top (Gern Blandsten, 2001)

7

Fink To Make Us More Fish Like (Ep, Mute, 2002)

7

Atheists Reconsider (Split, Reconsider, 2002)

7

We No Longer Knew Who We Were (Ep, Mute, 2003)

7

There's Always Room On The Broom (Ep, Mute, 2004)

7,5

They Were Wrong So We Drowned (Mute, 2004)

8

We Fenced Other Gardens With The Bones Of Our Own (Ep, Mute, 2004)

7,5

It Fit When I Was A Kid (Ep, Mute, 2006)

7

The Other Side of Mt. Heart Attack (Ep, Mute, 2006)

7

Drum's Not Dead (Mute, 2006)

7,5

Liars (Mute, 2007)

7

Sisterworld (Mute, 2010)

7,5

WIXIW (Mute, 2012)

7,5

Mess (Mute, 2014)

7

TFCF (Mute, 2017)

6,5

1/1(Mute, 2018)

6

Titles With The Word Fountain(Mute, 2018)

7

The Apple Drop (Mute, 2021)

7,5

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