Lullaby For The Working Class

Frammenti di un sogno infranto

Un sogno infranto, durato solo quattro anni e tre album. Una storia ambientata a Lincoln, Nebraska, provincia profonda americana, alla metà dei 90, un attimo prima che il mondo come lo conoscevamo prima scomparisse, travolto da internet, pc e cellulari. La storia della band che ha voluto scrivere ninnananne per la classe operaia

di Enrico Iannaccone

Ci sono sogni dai quali ci si sveglia troppo presto, sogni interrotti bruscamente che lasciano il rimpianto per dolcezze che hai appena sfiorato e, insieme, la consapevolezza che qualcosa di bello è svanito per sempre. E allora non resta altro che cercare di chiudere gli occhi e mettere insieme i frammenti sparsi di quel sogno ormai già così terribilmente lontano. Questa monografia è proprio il tentativo di raccontare un sogno infranto, durato soltanto quattro anni e dipanatosi nei solchi di appena tre album, un sogno lontano chiamato Lullaby For The Working Class.
Per iniziare questo racconto dobbiamo necessariamente spostarci nel tempo fino al 1994 e nello spazio fino a Lincoln, Nebraska, Usa.

La metà degli anni 90 è una sorta di passato/presente, un periodo ancora troppo vicino a noi per essere pienamente storicizzato eppure, se ci pensiamo bene, già terribilmente lontano. Gli ultimi momenti del mondo come lo conoscevamo una volta, un attimo prima che i pc, internet, la telefonia cellulare e la tecnologia digitale entrassero di prepotenza nelle nostre case e nel nostro quotidiano, modificando radicalmente le nostre abitudini e il nostro modo di essere. Un millennio fa, nel vero senso della parola.
Ebbene, nel 1994, un attimo prima che il presente diventasse definitivamente futuro cambiando per sempre le nostre vite, Ted Stevens e Mike Mogis, due ventenni di Lincoln, città di circa 250.000 anime, persa nelle sconfinate pianure del Nebraska, decidono di cominciare a fare musica, creando il primo nucleo di una nuova band. Ted Stevens, per la verità, è originario della non lontana Omaha, ma cambia davvero poco.
"Somewhere in middle America", da qualche parte in mezzo all'America, così i Counting Crows descrivono Omaha in una loro struggente canzone che rende bene l'essenza di un intero stato, il Nebraska, composto per metà da sterminati campi coltivati e per metà da desolanti e interminabili pianure deserte spazzate frequentemente da spaventosi tornado. Un luogo non esattamente allegro e non particolarmente accogliente, la cui intrinseca tristezza già aveva fornito lo spunto a un ancor giovane Bruce Springsteen per uno dei suoi album più introversi ed intensi.
Immaginiamo (ma possiamo sbagliarci) che a Lincoln, Nebraska, nel 1994 non ci sia granché da fare e la musica possa sembrare un'ottima possibilità di evadere dal tedio della profonda provincia americana. Ted Stevens è un cantante e chitarrista, Mike Mogis un polistrumentista che se la cava decisamente bene con gli strumenti a corda in generale: con l'aggiunta di un bassista (A.J., fratello di Mike) e di un batterista (Shane Aspegren) la line-up del nuovo gruppo è praticamente completa, anche se la band resterà sempre una sorta di collettivo aperto alla partecipazione di svariati musicisti, in questo aiutato dal grande spirito di collaborazione vigente nella scena musicale, sorprendentemente vivace, del Nebraska.

Il nome scelto per la neonata band è davvero geniale: Lullaby For The Working Class, Ninna-nanna per la Classe Operaia. L'origine del nome viene avvolta ben presto dalla leggenda e, nel corso degli anni, i componenti della band si divertiranno a cambiare sovente versione, parlando prima di una citazione di un non ben precisato saggio di Leone Tolstoj e poi svelando (tra il serio e il faceto) che in realtà si sarebbe trattato di un ironico accenno al lavoro di Ted Stevens, impiegato in un negozio di materassi.
A Lincoln i fratelli Mogis possiedono uno studio di registrazione chiamato Whoopass ed è proprio in quella sede che, senza aver ancora trovato (o forse cercato?) un'etichetta interessata e, per la verità, senza nemmeno aver mai suonato assieme in pubblico, la nuova band comincia a muovere i suoi primi passi.
Il processo di maturazione del materiale che andrà a costituire l'album d'esordio dei neonati Lullaby For The Working Class è lento e metodico, iniziando nel 1994 e andando avanti per un anno e mezzo abbondante, fino all'aprile del 1996. Una demo delle canzoni viene inviata all'etichetta Bar/None di New York che si mostra estremamente interessata, tanto da mettere sotto contratto la band di Ted Stevens, organizzarle un tour fino alla Grande Mela durante il quale i Lullaby For The Working Class possono finalmente esibirsi per la prima volta dal vivo e, nonostante incertezze e problemi tecnici, raccogliere ottimi consensi e sfiorare persino un tempio della musica rock come il CBGB'S di New York, esibendosi nella Gallery, una sorta di piccola dependance del celeberrimo locale sulla Bowery, nel Greenwich Village.
Sulla scorta di questi ottimi presupposti, nel corso del 1996, finalmente, viene dato alle stampe l'album d'esordio della band del Nebraska.

Il primo disco dei Lullaby For The Working Class, inciso per la Bar/None e distribuito dalla Rykodisc, s'intitola Blanket Warm ed è un capolavoro senza mezzi termini. Volendo incasellare in un genere le canzoni dell'album, si potrebbe parlare di alt-country (o anche di "Americana", come si dice negli Usa), fortemente venato di folk. Tra le influenze (o più semplicemente tra le affinità elettive) della band di Lincoln viene spontaneo citare il country riccamente orchestrato dei coevi Lambchop, il folk introverso di Bonnie "Prince Billy" e dei suoi Palace Brothers, il country rock melodico e diretto dei primi Wilco.
Sia come sia, Blanket Warm è un disco splendido e complesso, rigorosamente acustico, di una bellezza profonda e misteriosa, estremamente variegato, a tratti ironico e arricchito dalla partecipazione di un cospicuo numero di strumentisti aggiunti, con archi (Chris Gordon, Anil Seth), fiati (Nate Walcott, Nathan Putens, Andy Strain, Jonathan Hischke) e percussioni (Clint Schnaze).
L'album si apre con la splendida "Good Morning", tre minuti e passa di toccante crescendo strumentale e pochi secondi di poetico cantato a descrivere il ciclo della vita attraverso la metafora del sorgere del sole e il suo saluto ai palazzi della città ("Good morning, says the sun to all the buildings. You look like you've been up all night. There's no more room in heaven, so when you tumble down, your bricks will lay foundations for new structures, roads and towns"). Vivace, ritmato ed estremamente melodico è il secondo brano della raccolta, dall'inquietante (e si spera ironico!) titolo di "Honey, Drop The Knife", mentre la successiva "Turpentine" è un country dall'andatura introversa e indolente che improvvisamente si riempie d'intensità e tensione emotiva.
La quarta traccia, dal poeticissimo titolo di "Spreading The Evening Sky With Crows" e dal dolente testo che ricorda quanto le cose belle siano solo passeggere ("All good things must come to an end") è senza dubbio uno dei vertici della raccolta: un brano dolcissimo ed estremamente evocativo. Ma i Lullaby, per fortuna, non si prendono troppo sul serio e stemperano immediatamente le loro malinconie nella movimentata e divertente "Boar's Nest" (una citazione dell'omonimo locale del "cattivissimo" Boss Hogg nello scanzonato telefilm "The Dukes Of Hazzard?), per poi calmare di nuovo le acque con l'intermezzo quasi completamente strumentale di "Eskimo Duel Song" e lo scarno alt-country di "Three Peas In A Pod", che introduce al massimo capolavoro dell'album, la splendida e trascinante "Rye", con la sua andatura che alterna momenti pacati e riflessivi a emozionanti crescendo, con la voce di Ted Stevens, ora dolce, ora rabbiosa, a disegnare un brano di rara bellezza.
Giusto il tempo di rilassarsi attraverso la camera di decompressione della gradevole ma meno significativa "The Queen Of The Long Legged Insects" e si arriva agli archi della intensissima e struggente Americana di "The Drama Of Your Life", ennesima pietra miliare di un album incredibile per l'alto livello medio delle canzoni che lo compongono. Sezione fiati e atmosfere che sembrano citare i coevi Lambchop per "February North 24th St", mentre solo chitarra e voce per la bella "The Wounded Spider".
Un disco che si apre con un pezzo intitolato "Good Morning" non può che chiudere il cerchio con un brano intitolato "Good Night": pochi secondi di musica e diversi minuti pieni del silenzio della notte, riempito solo dal canto dei grilli e, verso la fine, dal lontano rombo di un auto che fugge nell'oscurità, accompagnato da pochi attimi di indistinto vociare. Un commiato poetico e bellissimo per un album fatto di musica, ma anche di silenzi e rarefazioni, di pause e di crescendo, di sentimenti trattenuti e di esplosioni emotive.
Indimenticabile anche l'artwork del disco (in copertina c'è un ragazzo che dorme con la faccia nascosta nel cuscino, sul retro lo stesso ragazzo che, con evidente fatica, si solleva a sedere sul letto: in entrambi i casi il volto non è visibile) che sembra simboleggiare una sorta di approccio alla vita rinunciatario e ripiegato su sé stesso, nemmeno nichilista, forse soltanto dolente e accidioso.

Sono gli anni in cui gli appassionati di musica indipendente americana si dividono entusiasti tra le complesse geometrie sonore del cosiddetto post-rock e i suoni scarni ed essenziali dell'alt-country di gruppi come Lambchop, Willard Grant Conspiracy e 16 Horsepower. I Lullaby For The Working Class vengono unanimemente ascritti a quest'ultimo filone e il loro disco d'esordio diviene rapidamente album di culto per  una piccola ma agguerrita schiera di estimatori, guadagnandosi anche diverse recensioni positive nel nostro paese.

Il seguito di Blanket Warm si fa attendere molto poco, arriva nel 1997, dopo appena un anno, e s'intitola I Never Even Asked For Light. Il disco è prodotto dai fratelli Mogis, inciso presso i soliti Whoopass Studios e ancora una volta pubblicato dalla Bar/None Records, con distribuzione Rykodisc.
Con il nuovo lavoro i Lullaby For The Working Class confermano la loro natura di collettivo aperto alle più svariate e diverse collaborazioni, complice il fertile e solidale sottobosco musicale di Lincoln, Nebraska, e dintorni, e ospitano la consueta sfilza di musicisti aggiunti, tra i quali troviamo il confermatissimo Nate Walcott alla tromba che, più che un semplice turnista, diventa di fatto un membro aggiunto della band.
Qualcosa però è cambiato nella "Piccola Orchestra Lullaby": la musica impetuosa dell'esordio si è fatta più scarna, timida, introversa, le melodie "escono" decisamente meno rispetto al primo album, le atmosfere si sono fatte più autunnali, cupe, uggiose, come del resto è facile intuire dal tetro artwork, con quattro piccole immagini (tre notturni sfocati e una radiografia toracica) su funereo sfondo nero.
Se Blanket Warm si era chiuso con il canto dei grilli, la nuova raccolta si apre con un flebile cinguettare di uccellini che fanno da sottofondo a una breve e malinconica ballata folk senza titolo ("Untitled") per chitarra e voce. Ben più vivace e movimentata è la seconda traccia, intitolata "Show Me How The Robots Dance", probabilmente uno dei vertici dell'album, mentre "Irish Wake" sorprende e disorienta piacevolmente per le continue variazioni e le complesse tessiture sonore.
Malinconica e introversa è la delicata  "Jester's Siren" che introduce nel migliore dei modi il capolavoro del disco, la trascinante "Hypnotist (Song For Daniel H.)", splendida cavalcata sonora country-rock che non sfigurerebbe nel canzoniere dei Willard Grant Conspiracy più epici (quelli di "Flying Low", per intenderci) o nella colonna sonora di qualche western moderno. Ancora Americana nelle pause e nelle improvvise accelerazioni di "In Honor Of My Stumbling", mentre le atmosfere si fanno di nuovo impetuose in "The Sunset & The Electric Bill" e "Descent".
Decisamente più pacate, riflessive e, forse, meno interessanti sono le folk-song "This Is As Close As We Get" e "Bread Crumbs". L'album si conclude con una dolente e introversa suite in tre movimenti intitolata "The Man vs. The Tide" che, similmente a quanto accadeva in Blanket Warm e nel brano "Untitled" che apre la seconda raccolta, arricchisce musica e voce di effetti sonori "ambientali" (in questo caso uno scroscio, non si capisce se di onde o di pioggia, e il rombo finale del passaggio di un piccolo aereo).
In definitiva I Never Even Asked For Light è un buon disco, ma di non semplice approccio, spesso introverso e malinconico, solo a tratti riesce a eguagliare i vertici toccati nel suo predecessore.
I Lullaby For The Working Class confermano la loro notevole capacità di costruire trame melodiche complesse e mai banali, ma questa volta il miracolo alchemico, la pietra filosofale che aveva fatto del disco d'esordio un sorprendente capolavoro non trova le dosi giuste per trasformare il piombo in oro e anche il piccolo seguito di culto che si era ritagliato la band di Lincoln rivolge altrove il proprio sguardo, all'avida ricerca della next big thing.

Il terzo album di Ted Stevens e soci, ancora una volta inciso per la Bar/None presso i Whoopass Studios (che nel frattempo, però, hanno cambiato nome in Dead Space) arriva nel 1999, due anni dopo il precedente. Del disco, intitolato semplicemente Song, non si accorge praticamente nessuno ed è davvero un peccato, perché trattasi di un lavoro interessante (anche se assai complesso) che avrebbe decisamente meritato maggiore considerazione da parte di pubblico e critica.
La band di Lincoln ormai è una vera e propria "famiglia allargata" e anche stavolta la lista dei musicisti coinvolti nel progetto è lunghissima. Nel solco di band come i Lambchop, la musica del gruppo si è evoluta sempre più nella direzione di un pop orchestrale estremamente complesso e variegato, al quale il canto dimesso e sofferto di Ted Stevens conferisce una fortissima carica emozionale. Il manifesto di Song è probabilmente il toccante crescendo del brano di apertura intitolato "Expand, Contract", che inizia in maniera spoglia e scarnificata, per poi colorarsi delle mille sfumature del vibrafono, della pedal steel, del dulcimer suonati dal versatile polistrumentista Mike Mogis, della sezione d'archi di Tiffany Kowalski, Erin Wright, Liz Schuller e Becky Hamilton, dei fiati di Eric Medley e Jeff Poindexter. Musica sacra per scettici convinti, è il paradosso che viene in mente leggendo i testi ("I can't even tell you what is real/ .../ Can you tell me what's important?") che, per una volta, arricchiscono un artwork per il resto scarno ed essenziale come al solito, con piccole foto formato francobollo su uno sfondo color crema.
Nessun musicista aggiunto, invece, per "Inherent Song", ma l'impasto di suoni generato dai quattro membri "titolari" della band è talmente vario e sfaccettato da lasciare sbalorditi, mentre le spoglie atmosfere di "Asleep On The Subway", sottolineate dal trombone di Josh Rouse e dal filicorno di Nate Walcott, sembrano evocare i Tindersticks e conferiscono un tono ulteriormente spettrale a un brano dal testo sofferto e disperato, ma non privo di una spiazzante forma di autoironia ("Asleep on the subway/ I've been dreaming of Venice/ Having never been there./ Once, I saw a postcard").
"Seizures" è un macabro folk apocalittico dal testo amareggiato e disilluso ("What good is one's toil underneath the sun?"), mentre ancora più derelitta è la successiva "Non Serviam", con la voce incerta e piena di tremiti di Ted Stevens a dare un tono ulteriormente affranto. Dopo tre canzoni così intense e strazianti, le successive "Sketchings On A Bar Room Napkin" e "Kitchen Song", più movimentate e vicine alle atmosfere dei primi due album, pur non rinunciando a testi malinconici e depressi ("Where have the good times gone?"), arrivano come raggi di luce a squarciare il buio fitto sotto nubi gravide di pioggia che, in ogni caso, subito si richiudono su sé stesse per la plumbea folk-song "Ghosts", dal testo ancora una volta tetro e privo di speranza ("Pull down the shades/ Unplug the telephone/ Let's disappear/ .../ No one remembers a face or a name/ These struggles are vain/ My love let us fade").
Il commiato finale di Song, ma anche dell'intera avventura dei Lullaby For The Working Class, è affidata alla conclusiva "Still Life", decisamente il brano più ambizioso mai inciso dalla band di Lincoln: diciassette minuti di un ininterrotto e impegnativo flusso di coscienza orchestrale che abbatte definitivamente le barriere tra l'alternative country e la musica classica.
Song non è sicuramente un disco semplice, bensì un lavoro tortuoso e spesso persino irraggiungibile, dalla bellezza algida e distante, come la luce delle stelle più lontane. Blanket Warm è stato realizzato solo anni prima, ma sembra ormai che siano passati decenni: Song è il classico punto di non ritorno, oltre il quale appare oggettivamente difficile prefigurare un futuro per una band che, in soli tre anni, sembra aver condensato un processo evolutivo che normalmente necessita di un periodo ben più lungo per potersi esplicare. Evidentemente se ne rendono conto anche i quattro di Lincoln e il gruppo si scioglie. In un'intervista di qualche tempo dopo Ted Stevens racconterà quanto faticosa fosse stata la gestazione di Song, resa ancora più problematica da suoi problemi di voce, dall'abuso di sostanze e dall'insicurezza sulla validità del risultato finale.

Siamo alla fine degli anni 90, un millennio fa, nel vero senso della parola. Ricostruire le storie successive dei soci fondatori della band (senza contare i tanti musicisti aggiunti) è un'impresa abbastanza improba, in quanto, come si suol dire, nessuno dei quattro pensa minimamente a restare con le mani in mano e tutti s'immergono nella vivace e variegata scena musicale del Nebraska, dando vita a incroci e collaborazioni assortite nelle quali è francamente difficile districarsi.
Ted Stevens entra a far parte dei Cursive, indie-rock band di Omaha guidata dal frontman Tim Kasher, con la quale incide quattro album (l'ultimo nel 2009), mentre, contemporaneamente, tra il 2002 e il 2005, porta avanti un progetto più personale chiamato Mayday (dopo la ninna-nanna per la classe operaia, il giorno dei lavoratori, a sottolineare chiaramente la continuità/contiguità tra i due progetti), che genera tre dischi, nei quali compare anche Tiffany Kowalski, la violinista che aveva collaborato attivamente, come additional musician, alla trilogia dei Lullaby For The Working Class.
Sia Cursive che Mayday incidono per la Saddle Creek Records, etichetta di Omaha fondata proprio da Mike Mogis che, diventato un apprezzato produttore e ingegnere del suono, intreccia una fitta rete di relazioni e connessioni che lo portano a collaborare letteralmente con decine di band, a entrare in pianta stabile nei Bright Eyes di Conor Oberst e di Nate Walcott, già membro aggiunto dei Lullaby, e a diventare, assieme allo stesso Oberst, uno dei componenti del supergruppo Monsters Of Folk.
Non meno intensa l'attività di A.J. Mogis che, oltre a gestire assieme al fratello i Presto! Recording Studios di Lincoln (già Dead Space e prima ancora Whoopass) e ad annoverare svariate collaborazioni con gruppi del Nebraska, suona il basso nei Criteria dell'ex-Cursive Steve Pedersen, con i quali incide due album, ovviamente per la Saddle Creek. Shane Aspegren, infine, oltre a collaborare con i Bright Eyes per l'album del 2007 "Cassadaga", fonda una band con il francese Lori Sean Berg, chiamata The Berg Sans Nipple, che incide tre dischi (l'ultimo nel 2011), stranamente non per la Saddle Creek ma per la newyorkese Team Love, fondata da Conor Oberst (l'ennesimo intreccio!).

Con tutti questi incroci e sovrapposizioni, siamo abbastanza sicuri che saremo costretti ad aggiornare periodicamente una vicenda artistica talmente complessa e ramificata da meritare, in effetti, una trattazione a parte. Eppure, nonostante che sulle loro ceneri siano nate svariate nuove band, i Lullaby For The Working Class non ci sono più e quei tre dischi restano lì sullo scaffale, piccolo, minimale ma robusto oggetto di culto per quei pochi che li hanno vissuti e amati e per quei pochissimi che, non molti anni dopo ma a un millennio di distanza, magari complice questa monografia, vorranno provare a raccogliere i frammenti di quel sogno infranto e a ricomporli. Per sognare di nuovo e di nuovo ancora.

Lullaby For The Working Class

Discografia


Blanket Warm (Bar/None Records, 1996)

8

I Never Even Asked Fo Light (Bar/None Records, 1997)

7

Song (Bar/None Records, 1999)

6,5

Pietra miliare
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