Midlake

Midlake

La rinascita del folk-rock americano

Personaggi di fantasia immersi in un passato "ideale", una musica che si rivela un miscuglio di sensazioni contemporanee e precedenti: queste sono le coordinate in cui si muove l'esperienza dei Midlake. Nati più di dieci anni fa in una "comune" di Denton, la band ha centellinato le uscite proponendo sempre un'interpretazione personale ed emozionante dei classici del passato - fino all'abbandono del leader Tim Smith

di Lorenzo Righetto

Se vi foste aggirati per Denton, Texas, agli inizi del Duemila, avreste potuto imbattervi in una casa ai margini, abitata da qualche giovane individuo dall’aria particolare. Avreste visto di persona il primo nucleo dei Midlake, un gruppo di amici conosciutisi all’università e specializzati in musica jazz – da poco presi in mano dall’ispirazione di Tim Smith, improbabile frontman di una band incerta, posta sul crinale di un difficile cambio di decennio e con il complicato obiettivo di abbandonare le progressioni di accordi e l’improvvisazione per interpretare le pulsioni del pop indipendente a proprio modo.
La ricerca di una propria identità sarà sempre una delle preoccupazioni della band, e di Tim Smith in particolare, ossessionato dalle sue tendenze di scrittura e dal suo stile di canto, soprattutto all’inizio vicinissime a quelle della sua band preferita di sempre: i Radiohead. Anzi, per meglio dire, almeno agli inizi una delle pochissime band rock che Tim conosce, dichiarando candidamente di aver ascoltato “Ok Computer” negli ultimi mesi del college – il primo disco non jazz, sostanzialmente, che avesse mai ascoltato.

È infatti con una certa naivetè che il primo lavoro della band, il Milkmaid Grand Army Ep, viene composto ed eseguito, una sorta di riproposizione della band di Thom Yorke filtrata attraverso soluzioni più corpose e un sound più spesso, che ricorda da vicino i Grandaddy, con quelle sparse interiezioni elettroniche (“She Removes Her Spiral Hair”).
L’immediatezza emotiva – evidente anche in questo tentativo embrionale – rimarrà una delle caratteristiche fondamentali della musica dei Midlake, assai più importante e discriminante rispetto all’evoluzione stilistica della band e ai riferimenti del momento. Il cantautorato di Smith, infatti, è confidenziale e segnato da una placida, rassegnata malinconia, del tutto scevra dalla pretenziosità post-moderna di Yorke (la passeggiata crepuscolare alla Rufus Wainwright di “Golden Hour”).

E quest’anima indifesa e infantile trova realizzazione massima, forse, nella carriera dei Midlake nel loro esordio su Lp, lo scostante e bizzarro Bamnan And Slivercork, ludico esperimento psych-pop animato tanto da luminosi sprazzi poetici quanto da stramberie sgraziate, una collezione a suo modo affascinante di effetti casalinghi (soprattutto sintetici) che descrivono con coinvolgente ingenuità smozzicati sogni d’infante.
Immagini favolistiche di mongolfiere e personaggi d’invenzione (la straniante epica Beatles-iana di “Balloon Maker”, la dolce malinconia escapista di “He Tried To Escape”, il matrimonio tra bambini di “Anabel”) costruiscono un pantheon espressivo che può apparire troppo infantile o abbozzato per commuovere davvero, ma che regala momenti davvero intensi, ad esempio nel brano più completo del disco, l’elegante valzer di marionette di “Some Of Them Were Superstitious”, piena di slanci melodici, prima sommessi poi trascinanti, davvero emozionanti.

L’immaginario infantile di Bamnan And Slivercork non può nascondere il riuscito tentativo dei Midlake di misurarsi con la canzone pop, in cui eccelleranno anche e soprattutto nella sua versione più elementare – ad esempio nei due accordi di “They Cannot Let It Expand”, trascesi nel soliloquio finale, o, soprattutto, della narrazione nonsense e tambureggiante di “Kingfish Pies”.
Ci sono brani incerti, incespicanti (“Mr. Amateur”), altri ancora troppo debitori (“Mopper’s Medley”,“I Guess I’ll Take Care”, che mostra un bell’arrangiamento, però) – non ci si può aspettare che Bamnan And Slivercork liberi i Midlake dall’anonimato. E così, infatti, non avverrà, nonostante il demo del disco arrivi a Simon Raymonde, patron della Bella Union, che decide di pubblicarlo (e che determinerà fin da subito il maggior successo europeo della band).

Ed è con altrettanta naturalezza e ingenuità che nasce il capolavoro dei Midlake, quelle “prove” del mitico e inesistente Van Occupanther, nome di fantasia di un personaggio di fantasia – niente più che un alter ego di Smith. La mitologia che si creerà successivamente sulla genesi del disco, sorta di concept album senza concetto, è frutto unicamente del suo contenuto, un’opera di tale completezza e profondità emotiva che parrebbe naturale ricondurla a un progetto più generale.
Invece anche The Trials Of Van Occupanther è la rielaborazione, fervida ed erudita, di dischi anni 70 che Tim trova negli scatoloni dei vinili usati, quelli da un dollaro – per dire, quella ristampa sdrucita di “Rumours” che non manca mai anche nel negozio più improbabile, tutte cose per lui del tutto sconosciute, però. È un po’ frustrante, forse, pensare che qualcuno possa misurarsi coi classici senza esservi cresciuto insieme – e punto d’appoggio per chi si azzardasse a pensare che il tutto sia frutto prima di tutto di una competenza tecnica superiore, piuttosto che artistica.

Entrambe invece agiscono in modo complementare, in Trials: da una parte la sinergia essenziale ma di grande ricchezza e dinamismo degli arrangiamenti, esaltati da una padronanza certamente maggiore delle tecniche di produzione, dall’altra un cantautorato immaginifico, pittoresco nel vero senso della parola (non si contano le metafore antropomorfe – il cervo che si getta nel mare di “Chasing After Deer” – e i quadretti naturalistici, Bruegel-iani di una vita primigenia, ridotta, anzi elevata alle emozioni primarie, tra i montanari di “Roscoe” e i “Bandits” affamati e in fuga), narrato con estro infantile e un’emozionante sensibilità, con una finezza da grande romanziere russo (memorabili i brani a tema nuziale, il realismo imbiancato e frugale di “Young Bride”, la soverchiante malinconia , e comunque ancora trionfante – brividi di segno opposto da “We won’t get married” a “It’s hard for me but I’m trying” - di “Branches”, il racconto di diserzione d’amore di “In This Camp”).

Musicalmente Trials ha tutta la magica spensieratezza (“It Covers The Hillsides”), il romanticismo abbandonato (“In This Camp”) del folk-rock anni 70 più “soft”, quello di “Rumours” e di “Homecoming”, in cui la forza delle immagini (la solitudine dello “scienziato immaginario” “Van Occupanther”, grande pezzo alla Neil Young) dona un carattere non solo lenitivo, ma soprattutto immediatamente familiare alle canzoni, in cui le vicende, i dolori quotidiani si ammantano di suggestione e significato.
È così che passaggi come:

Give me a day full of honest work
And a roof that never leaks
I’ll be satisfied

Bring me the news all about the town
How it struggles to help all the farmers out
During harvest time
(da “Head Hone”)

suonano liberatori e gloriosi, in un disco in cui il tono principale è in realtà rimuginante, un’ode depressa che si rialza poderosamente in queste trionfanti progressioni finali, tra l’indulgenza col proprio rifiuto del mondo (“Let me not be too consumed/ With this world/ Sometimes I wanna go home/ And stay out of sight/ For a while”, in “Van Occupanther”) e faticose dichiarazioni d’intenti (“It’s hard for me but I’m trying”, in “Branches”).

The Trials Of Van Occupanther segna il successo sia di critica che di pubblico (compreso un tour europeo di supporto ai Flaming Lips su precisa segnalazione di Wayne Coyne) dei Midlake, che sarà però fin da subito circoscritto ai confini europei.
Ciò non toglie che questo disco rappresenti, senza averne assolutamente l’intenzione, un punto d’inizio per il revival dell’Americana anni 70 vera e propria, fino a quel momento relegata agli strascichi acustici degli anni 90 e solo nella seconda metà dei Duemila davvero revivalista di certi suoni e atmosfere, delle armonie vocali, degli arrangiamenti pieni, etc. (un nome su tutti, Fleet Foxes, ma anche Other Lives, Grizzly Bear etc.).

Nuove passioni e cali d’ispirazione


"Non vogliamo essere accusati di plagiare i Radiohead. Penso che i Radiohead siano molto più vicini alle mie inclinazioni naturali rispetto a, che ne so, i Jethro Tull. Ascolto molto molto di più i Jethro Tull che i Radiohead in questi giorni, ma potrei scrivere dieci canzoni simili a quelle dei Radiohead prima di riuscire una che ricordi i Jethro Tull. Voglio suonare più come i Jethro Tull, ma non ci riesco proprio. E' una grossa lotta"
(Tim Smith)

Questa confessione "a cuore aperto" è una buona introduzione a The Courage Of Others, il disco che segue il successo di Trials e la nuova passione musicale di Tim Smith: il folk inglese. Impaludato nella bianca tunica di druido celtico, sembra quasi che Amith abbia talmente interiorizzato l'immaginario dei suoi padri putativi da riuscirne un personaggio dei mondi evocati da questi ultimi. Va detto subito: se l'unico obiettivo dei Midlake era quello di perlomeno "assomigliare" ai Jethro Tull, probabilmente possono ritenersi soddisfatti.
"The Courage Of Others" è infatti una lunga litania ambientata tra le selve e le radure dell'Inghilterra medievale: il tutto suona limpido, sapientemente intrecciato; a volte pare di essere nel mondo fatato degli Espers, col suono del flauto che incornicia certi idilli psych-folk. Il rifiuto della contemporaneità che risuona nelle parole di Tim Smith (sotto il profilo strettamente musicale) abbraccia tutta l'opera, in una sorta di chiamata alle armi ecologista: "Great are the sounds of all that live", canta Smith nell'apertura affidata al maestoso giro melodico di "Acts Of Man". Il volteggio acustico di accordi, ricamato su reiterati hammer-on e slide, riporta alle costruzioni di Pentangle e Fairport Convention ("The Horn"). Un riferimento che può ingannare perché, dell'estro chitarristico di questi ultimi, rimane un po' poco: il disegno dei pezzi contiene sostanzialmente soluzioni sempre molto simili.
Ciò che cercano i Midlake non è progettare grandi architetture sonore (come nelle ultime band citate); non è neanche comporre canzoni nel senso tradizionale del termine, come avveniva in "The Trials Of Van Occupanther". L'attenzione sembra focalizzata nel comporre qualcosa di più compatto possibile, nel ripetere con invidiabile ostinazione l'atmosfera di cupa, vigorosa predicazione frammista a una più interiore nostalgia per un tempo che è passato e che forse non è mai esistito. Quest'ultimo aspetto era centrale nel disco precedente: là i Midlake erano però riusciti a lasciarlo trapelare tra le pieghe delle storie raccontate nel disco, invece di farne una sorta di manifesto fin troppo evidente della loro musica.
I Nostri riescono in toto a restituire ciò che hanno in mente come leit-motiv del disco, traducendolo con queste ballate dall'incedere possente, in cui l'arpeggio acustico viene ora accompagnato ora sovrastato dal rombo imponente dell'elemento elettrico e dalla cantilenante declamazione di Tim Smith. Così dall'impatto iniziale, che può essere inebriante, con l'antifona liturgica di "Acts Of Man", si scivola ben presto nella ripetizione, in un disco così tanto impegnato nel rimanere "composto" che l'unica traccia che tenta di discostarsi dal resto ("Fortune", dolce stornello bucolico) pare quasi fuori posto. E' un peccato perché, per una volta, si respira un po' di aria fresca, nonostante non cambino di molto gli ingredienti.

La varietà di registro e, soprattutto, di composizione delle canzoni che era un punto fondamentale di The Trials Of Van Occupanther scompare quasi del tutto in The Courage Of Others: laddove i cambi di umore disegnavano in modo narrativo lo sviluppo delle canzoni nel primo dei due, nell'ultimo il meccanismo viene utilizzato assai meno. Il risultato è che spesso si assiste a qualcosa di prevedibile, macchinoso, cosparso di segni di un’evidente stanchezza artistica.

Gli anni seguenti della band saranno complicati, con una serie di progetti di registrazione iniziati e abbandonati (ma anche collaborazioni di successo, come quella con John Grant), lunghi tour in cui l’ipertrofia strumentale della band sul palco diventa specchio dell’esaurimento della vena artistica del suo frontman, che nel novembre del 2012 decide improvvisamente di abbandonare la band e, con essa, il nuovo disco, in remota fase di completamento. Una scelta “violenta” ma non del tutto inaspettata data la fatica mostrata dalla band nell’ultima esibizione al completo, all’End Of The Road di quell’anno.

I Midlake non finiscono qui, però: Eric Pulido, uno dei chitarristi e “secondo” di Smith a tutti gli effetti, prende in mano la band, che decide di mettersi al lavoro su un nuovo disco.
Ne esce Antiphon, carico fin dal titolo delle aspettative dei membri superstiti verso sé stessi e verso una nuova carriera. Lo spettro di Smith, in questo senso, è forte e temibile, non solo per il suo ruolo di cantautore della band, ma anche per come ha sempre indirizzato anche lo stile musicale dei Midlake. Per questo Antiphon deve rappresentare una cesura netta rispetto al passato, lo sbocciare della personalità di comprimari feriti dall’abbandono della propria guida.
Sul piano identitario, il disco di certo non fallisce: una psichedelia anni 60, suggestiva e notturna (la straniante e inconsistente “Provider”, dagli echi soul), si trasforma in crooning cantilenanti (“Ages”) e imbarazzati tributi al passato (“Aurora Gone”, tra Midlake e John Grant).
Ne risulta una buona dimostrazione di orgoglio personale e un riuscito smarcamento dall’ombra di Smith, ma ben poco di sostanza per l’ascoltatore, con lo smarrimento del pur residuo contenuto melodico del precedente The Courage Of Others (l’ammorbante singolo di lancio e title track  a spiccare). Col che si può augurare tutta la fortuna del caso ai Midlake – con la consapevolezza che, a dispetto del nome, si tratta e si tratterà sempre di un’altra band.

Dopo Antiphon, dei Midlake si perdono le tracce per nove anni. Poi un bel giorno, come nelle favole, appare in sogno al tastierista Jesse Chandler il padre, un ex-hippy che in gioventù era stato spettatore del festival di Woodstock respirandone tutta l’atmosfera di pace e amore, il quale intima al figlio di riformare la band. E infatti eccoli i nostri che si rifanno vivi con For The Sake Of Bethel Woods (2022), con tanto di foto del padre 16enne tra la folla sulla copertina e titolo dedicato al luogo dove è stato costruito il museo del celebre festival. Il vento della positività che soffiava in quegli anni è presente in molti brani dell’opera: dalla voglia di ritrovarsi per ripartire dell’intro “Commune” fino all’ossessione-devozione per il luogo di “Bethel Woods” della title track.
Da sempre figlio di un certo classicismo rock ma con un background jazz e una passione per il folk della West Coast, il gruppo di Denton sembra riprendere il discorso interrotto nove anni fa schiarendo le tinte e cercando di allargare ulteriormente gli orizzonti senza rinnegare il passato, attingendo anche alle propulsioni indie-rock degli esordi. Emerge subito la volontà di scardinare la gabbia delle ballate per avventurarsi in terreni meno battuti con brani che tendono a evolversi durante lo svolgimento, come “Glistening”, che parte ai confini del funk con uno scarno ma sinuoso riff fino a dilatarsi in una nuova dimensione piena di estatici mellotron e slide celestiali, o “Feast Of Carrion” che da una soft ballad alla Jonathan Wilson lievita fino a prendere le forme di un folk jazzato venato di prog tra flauti e armonizzazioni alla CSN&Y.
Il nuovo suono della band appare rinforzato a livello di arrangiamenti, spiccano, infatti,  l’elaborato drumming della title track “Bethel Woods” e il robusto tiro dello space-rock di “Exile”, e non manca il coraggio di tentare di accostamenti pop nell’incedere elegante di “Gone” o nelle atmosfere sospese ma un po' ruffiane di “Meanwhile”.
Il passato dei Midlake fa capolino in alcuni passaggi di “Noble”, struggente brano dedicato al figlio del batterista, dove tra i soffici tappeti di synth torna in parte quell’emotività marchio di fabbrica della band, o come nell’evocativo crescendo di “Dawning”. Nel poderoso attaccone alla Grandaddy di “Of Desire” c’è addirittura qualcosa del periodo pre “The Trials Of Van Occupanther”.

I Midlake vogliono sopravvivere a loro stessi, sanno di essere un’altra band rispetto a quella del 2012, fanno di tutto per comunicarlo e il nuovo abito risulta anche convincente. Purtroppo la voce educata di Eric Pulido non ha il carisma di Tim Smith e i brani, per quanto ispirati e di buona qualità, raramente riescono a toccare le vette emotive del periodo d’oro, ma forse questo non è più nelle loro intenzioni.
Se Antiphon era la fotografia di una band in movimento, ripresa durante il colpo di reni verso una nuova identità, For The Sake Of Bethel Woods è lo scatto in posa dei Midlake ritrovati che hanno metabolizzato il passato e sono entrati alla fase successiva.

Contributi di Lorenzo Montefreddo ("For The Sake Of Bethel Woods")

Midlake

Discografia

Milkmaid Grand Army (Ep, self-released, 2001)

6

Bamnan And Slivercork (Bella Union, 2004)

7

The Trials Of Van Occupanther (Bella Union, 2006)

8,5

The Courage Of Others (Bella Union, 2010)

6,5

Antiphon(Bella Union, 2013)

5

For The Sake Of Bethel Woods (Bella Union, 2022)

6,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

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Midlake sul web

Sito ufficiale
Testi
  
 VIDEO
  
Balloon Maker (da "Bamnan And Slivercork", 2004)
Roscoe (da "The Trials Of Van Occupanther", 2006)
Young Bride (da "The Trials Of Van Occupanther", 2006)
Head Home (da "The Trials Of Van Occupanther", 2006)
Bandits (live, da "The Trials Of Van Occupanther", 2006)
Acts Of Man (da "The Courage Of Others", 2010)