Okkervil River

Okkervil River

Il cuore sanguinante delle pecore nere

Nel solco che dai Neutral Milk Hotel conduce fino ai Bright Eyes, gli Okkervil River raccontano l'America del desiderio e del tradimento con uno stile visionario e chiaroscurale. Guidati dalla voce impetuosa e dallo spirito letterario di Will Sheff, hanno coniugato le radici folk-rock con una personalissima sensibilità indie

di Gabriele Benzing

She knows there's no success like failure / And that failure's no success at all
(Bob Dylan)

Acque misteriose, le acque del fiume Okkervil. Le sue onde racchiudono i segreti di un cuore vibrante.
Acque maledette, le acque del fiume Okkervil. Le sue anse oscure portano con sé peccati inconfessabili.
Acque redentrici, le acque del fiume Okkervil. Chi si immerge tra i suoi flutti insegue una catarsi liberatrice.
Lungo la riva, le radici sembrano congiungersi al cielo. Le note che ne sgorgano sono come brandelli dell'anima. Basta fermarsi sul limitare dell'argine e mettersi ad ascoltare.
Questa è la storia dei musicanti del fiume Okkervil.

Will Robinson Sheff andava al college quando prese la decisione più importante della propria vita: essere un completo fallimento. Un fallimento da professionisti.
Quando hai paura di fallire, rimani imprigionato nella gabbia di quello che gli altri si aspettano da te. Meglio un fallimento spettacolare, piuttosto che rassegnarsi a una vita prefabbricata.
Il suo desiderio, Will Sheff l'aveva scoperto per caso il giorno in cui si era ritrovato tra le mani un foglio di carta su cui il fratello aveva scarabocchiato per gioco i titoli di una serie di canzoni immaginarie. Solo i titoli. Ma quelle parole misteriose erano bastate per esercitare su di lui un fascino irresistibile: il fascino dei mondi infiniti che si spalancavano al suo sguardo attraverso quelle porte sconosciute.
Così, Will aveva cominciato a inventarsi le canzoni nascoste dietro a quei titoli. E a un tratto tutti quegli universi segreti erano divenuti improvvisamente alla sua portata. Non contavano più gli angusti confini di Meriden, New Hampshire: la musica gli aveva consegnato la possibilità di possedere ogni cosa. Poteva scommettere tutto senza più temere di perdere.

I compagni di viaggio di Sheff divennero inevitabilmente le pecore nere come lui. Una parola scambiata sul bus della scuola, uno sguardo d'intesa su un campo di calcio: insieme a Seth Warren e Zachary Thomas, Will si mise a fare musica inventandosi ogni giorno un nuovo nome per la propria band. The False Dmitri, Nine Men's Morris, My Wet. Seth alla batteria, Zach al basso e Will alla voce e alla chitarra. Nulla è più trascinante della forza di un'amicizia per convincerti di essere pronto a sfidare il mondo.
Fino a quando Will non se ne uscì con quel nome folle e assurdo. Okkervil River. Si intitolava così il racconto della scrittrice russa Tatjana Tolstoja (discendente nientemeno che di un certo Tolstoj…) che Will aveva appena finito di leggere, ispirato a un fiume che scorre nei pressi di San Pietroburgo. Di certo non era il nome per una band: e proprio per questo l'entusiasmo fu subito unanime. Inutilmente Will cercò di convincere gli altri a non dare retta alla sua sconsiderata proposta: di quel nome stravagante nessuno sarebbe mai stato in grado di ricordarsi. Troppo tardi: la decisione ormai era presa. Il fallimento era iniziato. Un meraviglioso fallimento.

 

This whole wide world isn't wide enough


Stars Too Small To UseÈ il 1998 e gli Okkervil River sono nati appena da una manciata di settimane quando un registratore a quattro tracce viene piazzato nella camera di Will Sheff per incidere il primo demo della band. Pieni di quell'entusiasmo ingenuo che accompagna gli inizi, gli Okkervil River sono impazienti di provare a catturare il loro suono, senza preoccuparsi troppo dei dettagli. Il risultato non è altro che un esperimento artigianale, significativamente intitolato Bedroom, che testimonia un'energia e un'ispirazione ancora grezze e allo stato embrionale, dove il sapore di cantilena di "Dreadful Wind And Rain" si alterna alle dissonanze di "This House Is Not A Home". Sheff confesserà senza mezzi termini che riascoltare oggi quelle prime registrazioni per lui è uno strazio. Ma si tratta solo delle prove generali per il debutto vero e proprio degli Okkervil River.

Trasferitisi ad Austin, in Texas, che da quel momento diventerà la loro base operativa, nell'estate del 1999 gli Okkervil River affittano una sala di registrazione nello studio di Jeff Hoskin e in soli tre giorni incidono i sei brani destinati a comporre l'Ep Stars Too Small To Use, pubblicato nel marzo del 2000.
Il suono è brullo come le pietre di una scogliera e urticante come carta vetrata, con quelle corde di chitarra acustica maltrattate senza pietà, quella batteria secca e veemente e quel contrappunto essenziale di basso, banjo e fisarmonica. L'andatura folk dei brani scritti da Sheff ondeggia tra aperture melodiche figlie dei Neutral Milk Hotel e virate tradizionaliste da storyteller di frontiera.
Ma quello che appare sin da subito evidente è che il cuore della musica degli Okkervil River sta nella voce di Sheff, sempre tesa e febbricitante, sia che trattenga l'angoscia sia che permetta alla rabbia di prendere il sopravvento. Una voce tanto sgraziata da diventare irritante, eppure irresistibilmente magnetica nel suo modo di pronunciare ogni sillaba come se ne dipendesse il destino di tutta un'esistenza, e forse del mondo stesso.
È proprio questa incontenibile urgenza espressiva a rappresentare la vera cifra stilistica degli Okkervil River: una visione catartica della musica in cui non c'è spazio per l'intrattenimento fine a sé stesso. "Non riesco a capire come sia possibile amare la musica tanto da dedicarle la vita e non essersi mai lasciati commuovere da una canzone fino alle lacrime", afferma convinto Sheff. "Quando i miei genitori mi comprarono la cassetta di "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", la prima volta che ascoltai 'With A Little Help From My Friends' mi misi a piangere a dirotto: quella canzone mi aveva ucciso".

Stars Too Small To Use rispecchia fedelmente tutto l'impeto che gli Okkervil River sono capaci di sfogare sul palco, fin dal ritmo asciutto di "Kathy Keller", che apre il disco con il suo folk tarantolato alla Violent Femmes. Ma proprio l'inclinazione a un approccio live diretto e senza troppe sfumature rappresenta anche il limite maggiore dell'Ep: non a caso, numerosi brani del disco verranno ripresi dalla band nelle proprie successive uscite per offrirne una rilettura più compiuta.
Con "The Velocity Of Saul At The Time Of His Conversion" ci si trova subito di fronte al primo classico del repertorio degli Okkervil River: da un chiaroscuro agreste, memore della lezione dei Lullaby For The Working Class, si innalza prepotente il pathos di una di quelle melodie viscerali che diverranno il marchio inconfondibile della band, sempre in bilico tra l'eccesso di lirismo e l'intensità della confessione.
Se gli aromi country di "Oh, Precious" e "Auntie Alice" non vanno oltre l'esercizio di stile, è nelle imperfezioni che va cercata l'essenza di Stars Too Small To Use, dalle urla scomposte con cui Sheff sembra volersi strappare le corde vocali nella suite in due movimenti di "For The Captain" fino ai cori ebbri di "He Passes Number Thirty-Three".

La storia raccontata da Sheff nell'iniziale "Kathy Keller" sembra introdurre nel songbook di un novello Johnny Cash, con l'immagine di un uomo in fuga dalle ombre dei crimini commessi nel passato e in cerca di qualcuno capace di credere alla verità di un cambiamento di cui neppure lui ha davvero la certezza. Ma a dominare il resto dei brani non è tanto la vena del cantastorie, quanto piuttosto la voce di una fame insaziabile che tormenta l'anima senza concederle mai pace: è un seme cresciuto nell'acqua delle lacrime, canta Sheff in "For The Captain", un seme che non smette mai di crescere e di diventare sempre più tenace, come un'infezione dalla quale non si può sfuggire. Tutti i progetti si sfaldano tra le dita, ammonisce "The Velocity Of Saul At The Time Of His Conversion", perché non basta nemmeno il mondo intero per placare la voragine di quella fame. Proprio come annuncia il titolo disco, persino le stelle sono troppo piccole per contenere il desiderio del cuore. "This whole wide world isn't wide enough". L'unica preghiera, in "Whole Wide World", è che l'autostrada non finisca mai, che la corsa lungo quel nastro d'asfalto che sembra puntare dritto verso il cielo non si interrompa prima di avere raggiunto la sua meta sconosciuta.

La band si dà da fare in prima persona per favorire la diffusione di Stars Too Small To Use, arruolando amici e conoscenti per assemblare le confezioni dei cd. Nonostante la pubblicazione del disco, però, nulla sembra cambiare per gli Okkervil River, che continuano a faticare per trovare qualche ingaggio nei locali di Austin.
Per cercare di farsi conoscere, si inventano una sorta di singolo autoprodotto, masterizzando di nascosto i cd nell'ufficio dove Zach lavora come programmatore. Il singolo, distribuito gratuitamente nei negozi di dischi della città, comprende "The Velocity Of Saul At The Time Of His Conversion" e il traditional "Omie Wise", registrato con un Dat nella nuova abitazione della band.
Nonostante l'esiguo seguito, i concerti degli Okkervil River sono un'esperienza che non lascia indifferenti. Ed è proprio alla fine di un concerto che si avvicina alla band uno studente di geografia e ornitologia di nome Jonathan Meiburg, valente polistrumentista dotato di un timbro morbido e intenso da coro di voci bianche, che Sheff ricorda come una via di mezzo tra il principe Myshkin e Pete Townshend. Jonathan diventa subito amico di Sheff ed entra ben presto in pianta stabile nella band come tastierista: il suo contributo sarà determinante per l'evoluzione del suono degli Okkervil River. Sempre insieme a Sheff, Meiburg darà vita anche agli Shearwater, un progetto parallelo destinato ad assumere una rilevanza tutt'altro che secondaria nelle rispettive carriere.
Sempre dopo un concerto, un altro strano personaggio si presenta al gruppo: si tratta del produttore Brian Beattie, già al lavoro con Daniel Johnston e proprietario degli Yacht Club Fantasy Studios di Austin, che si è deciso ad andare a sentire gli Okkervil River dopo aver letto sull'Austin Chronicle che vengono dal suo amato New Hampshire… Will Sheff ha il viso e la chitarra insanguinati, dopo essersi tagliato rompendo le corde della sua chitarra nella furia del concerto. Beattie gli propone senza esitazione di registrare il primo album della band.

 

I've got dreams to remember (Otis Redding)


Don't Fall In Love With Everyone You SeeBen presto la casella di Brian Beattie viene invasa di e-mail in cui un esaltato Sheff immagina per gli Okkervil River un suono alla Al Green: ormai la scarna essenzialità in presa diretta di Stars Too Small To Use va decisamente stretta alla band, che aspira a un suono più ricco e policromo, capace di dare voce a tutte le tonalità delle proprie visioni. Con il fondamentale aiuto di Beattie, gli Okkervil River si avventurano in una ricerca di identità da cui la loro musica esce radicalmente trasformata.
Per oltre un anno, dal luglio del 2000 all'agosto del 2001, la band si dedica anima e corpo al proprio album d'esordio, guarnendo lo scheletro dei nuovi brani con inediti intarsi di fiati, archi, wurlitzer, mellotron e pedal steel. "Abbiamo chiamato i nostri amici per suonare qualunque strumento venisse loro in mente, compreso il condizionatore d'aria del bagno…", ricorda Sheff. Alla fine, spigoli e ruvidità lasciano spazio a una nuova profondità di colori, che suggerisce l'immagine densa di fascino di una versione indie della Band.
I demo vengono inviati a decine e decine di case discografiche, ma le risposte sono nel migliore dei casi di cortese rifiuto. L'unica a manifestare interesse per gli Okkervil River è l'etichetta indipendente dell'Indiana Jagjaguwar, che però è disponibile a pubblicare il disco soltanto all'inizio dell'anno successivo. La band accetta, e per ingannare l'attesa decide di sfornare un altro singolo casalingo da diffondere ad Austin, con qualche anticipazione delle nuove composizioni: una prima versione di "Kansas City", una registrazione live di "My Bad Days" e una cover del classico folk "Moonshiner". Nel frattempo vede anche la luce il primo lavoro a nome Shearwater, "The Dissolving Room", che riflette le inflessioni più tenui e notturne di Meiburg e Sheff.

Il primo album degli Okkervil River, Don't Fall In Love With Everyone You See, vede finalmente la luce nel gennaio del 2002.
La maturazione della band si annuncia immediatamente nella scoperta di un equilibrio capace di offrire spessore a ogni sospiro: anche la voce impetuosa di Sheff si distende con un nuovo senso della misura sulle trame intessute con cura appassionata dai compagni d'avventura. Non svaniscono le impennate di furia, ma acquistano un punto di fuga che permette loro di non rimanere fine a sé stesse, aprendosi a una dimensione dagli orizzonti meno circoscritti.
A sorgere spontaneo è il parallelo con i Bright Eyes di "Fevers And Mirrors", che sembrano condividere con gli Okkervil River quella stessa enfasi bruciante, quello stesso amore per le melodie accorate e quella stessa veste di moderna Americana. Ma Sheff liquida l'ingombrante paragone con Conor Oberst con una battuta stizzita: "Ci accomunano solo perché entrambi non abbiamo una gran voce…".

Don't Fall In Love With Everyone You See si apre con gli occhi arrossati di pianto di una madre. "Il rosso è il mio colore preferito", canta quasi con pudore Sheff nel felpato ondeggiare di spazzole e tastiere di "Red". Poi l'armonica alla Neil Young di "Kansas City", cantata in duetto con Alice Spencer, riporta dalle parti della ballata western, con il suo violino danzante, la sua dolcezza di pedal steel e il suo vento desertico di batteria. Insieme alla scalpitante cavalcata in stile Giant Sand di "Dead Dog Song", vecchio brano già presente nel primo Ep della band, si tratta degli episodi più classicamente folk del disco.
Ma è quando gli Okkervil River non temono di allontanarsi dal canone di Counting Crows e Grant Lee Buffalo che Don't Fall In Love With Everyone You See riesce a trovare la strada per lasciare il segno. I fiati di "Lady Liberty" raccontano di tradimento, amarezza e rabbia con un tono svagato da banda di paese, mentre la marcia funebre di "My Bad Days" si dipana tra un basso fatale e le sottolineature drammatiche dell'hammond, lasciandosi ferire da un violino sofferente. Gli Okkervil River invitano a seguirli nella penombra di una sera invernale, mentre dallo stereo il calore della voce di Otis Redding avvolge nel suo abbraccio la nostalgia, sulle note di "I've Got Dreams To Remember". Will Sheff prende spunto da quel motivo e ne lascia sgorgare un arpeggio fatato, di quelli che Mark Kozelek avrebbe prediletto per dipingere la sua casa rossa. È "Listening To Otis Redding At Home During Christmas", e per oltre sei minuti è un palpitare di orchestrazioni discrete e soffi d'organo che cullano i sogni fino al calare della notte.
Ed ecco che in "Happy Hearts" sbuca a sorpresa accanto a Sheff la voce traballante e malferma del folle genio di Daniel Johnston: è il comune produttore Beattie a rendere possibile l'incontro con quello che Sheff considera uno dei suoi più grandi idoli musicali. La band lo va a prendere nella sua casa in Texas e dopo aver registrato insieme il duetto a cuore aperto di "Happy Hearts", lo portano a mangiare hamburger e comprare fumetti. Eppure alla fine Sheff racconta di essersi sentito invadere da un senso di amara inadeguatezza, pensando che avrebbe dovuto essere lui a cantare una canzone di Daniel Johnston, e non il contrario.

Don't Fall In Love With Everyone You See è un disco ammantato di un romanticismo springsteeniano, dedicato fin dal titolo a chi non può fare a meno di guardare il mondo lasciandosi ferire da ogni cosa che incontra. Dal rapporto tra madre e figlia di "Red" fino alla solitudine piena di struggimento di "Listening To Otis Redding At Home During Christmas", l'album è un diario che racconta con scoperta sincerità il bisogno di un amore incondizionato e gratuito, quell'"unconditional love" che Daniel Johnston vagheggia in "Happy Hearts".
La sensibilità letteraria di Sheff insegue le tracce di Flannery O'Connor lungo la lama di rasoio tra peccato e redenzione, tratteggiando in "Westfall" una murder ballad tesa e asciutta come una scena di "Badlands" di Terence Malick, fino alla consapevolezza che l'ombra del male è più sottile di quanto si possa immaginare: "They're look for evil, thinking they can trace it, but evil don't look like anything".
Alla fine, il cerchio riporta al fiume dove tutto è iniziato: "Okkervil River Song" è una ninnananna inquieta intorno al fuoco del bivacco, riscaldata da riflessi di banjo e fisarmonica accanto a un letto abbandonato.

Nel frattempo, Seth Warren decide di trasferirsi con la sua fidanzata in California e di non partecipare più direttamente alla vita degli Okkervil River, pur rimanendo sempre nell'orbita della band e continuando a comparire negli album. In compenso, il gruppo arruola alla batteria il barbuto Mark Pedini, che però non fa in tempo a partecipare alla registrazione di Don't Fall In Love With Everyone You See.
È proprio al matrimonio di Pedini che Sheff incontra William Schaff, artista visionario già autore di evocative illustrazioni per Godspeed You! Black Emperor e Songs: Ohia. Schaff, che il cantante degli Okkervil River definisce "il mio doppelgänger", si occupa dell'artwork di Don't Fall In Love With Everyone You See e da quel momento in poi la sua presenza diviene essenziale nel dare forma agli incubi di Sheff con il gusto retrò del suo tratto grottesco e favolistico.
Con l'uscita di Don't Fall In Love With Everyone You See la fama degli Okkervil River comincia a diffondersi anche al di fuori dei confini della scena musicale di Austin. Nel 2002 la rivista musicale inglese "Comes with a smile" inserisce un inedito della band, intitolato "Disfigured Cowboy", in una compilation allegata al giornale. Un'altra outtake dell'album, "Satisfy You", esce su un 7'' cointestato con i South San Gabriel. Sempre nello stesso periodo, gli Okkervil River registrano anche un'energica cover di "Riot Act" di Elvis Costello per un'altra compilation, mentre gli Shearwater danno alle stampe il loro secondo disco, intitolato "Everybody Makes Mistakes".
La febbrile intensificazione dell'attività della band culmina all'inizio del 2003 nella realizzazione di uno split con la canadese Julie Doiron, già bassista degli Eric's Trip. Gli Okkervil River registrano la loro parte del disco presso lo studio Adult Audio Megaplex di Austin con la burbera assistenza di Micheal Crow, che contribuisce con il suo violino a caratterizzare con un senso di drammaticità i brani. Per la copertina di Julie Doiron/Okkervil River, pubblicato dalla spagnola Acuarela, viene scelto un disegno del nuovo batterista della band, Mark Pedini.
Se la voce eterea di Julie Doiron, con il suo tenue accompagnamento acustico, richiama le atmosfere più care a Cat Power, gli episodi che vedono protagonisti gli Okkervil River tornano a mostrare l'anima folk della band. Accanto a una nuova versione di "He Passes Number Thirty-Three", irrobustita dalle tastiere di Jonathan Meiburg, spiccano gli accenti rurali alla Willard Grant Conspiracy di "Omie Wise" e il madrigale leggero di "A Leaf". Ma è solo un momento di transizione in vista della nuova sfida sulla lunga distanza di Will Sheff e soci.

 

Please stop ignoring the heart inside, oh you readers at home


Down The River Of Golden DreamsPer il loro secondo album, gli Okkervil River decidono di utilizzare un approccio antitetico rispetto alla lunga e laboriosa lavorazione di Don't Fall In Love With Everyone You See: caricano tutti i loro arnesi su un van e nella primavera del 2003 vanno a trovare Seth Warren in California. A San Francisco li attendono gli studi Tiny Telephone di John Vanderslice, songwriter di razza, amante delle tastiere dalle screziature analogiche. L'immagine usata da Sheff parla chiaro: "Volevamo qualcosa di rapido e sporco, e quando dici sporco pensi immediatamente a San Francisco".
Lontani dall'atmosfera familiare di Austin, gli Okkervil River si immergono completamente nelle nuove composizioni per un paio di settimane, concentrando tutte le loro risorse in un'attività che i tempi ristretti rendono ancora più intensa. Ma nelle sessioni californiane degli Okkervil River non c'è nulla di improvvisato o frettoloso: a colpire è piuttosto la compattezza d'insieme del lavoro e il tono deciso e brillante degli arrangiamenti. Lo stesso John Vanderslice vuole assolutamente comparire nel disco e si accontenta di suonare in un brano delle non meglio identificate campane.
Il disco prende il nome dalla sghemba introduzione pianistica affidata alla prozia ottantenne di Seth (!), intitolata "Down The River Of Golden Dreams". "Nuotare, affondare, salpare per non tornare mai più indietro…": sono queste le suggestioni che Sheff racconta di avere accostato istintivamente ai nuovi brani. Ma se davvero, come sostengono gli Okkervil River, il loro secondo album deve essere considerato un disco "d'acqua", non è certo a placide onde che lambiscono la spiaggia che si deve pensare, quanto piuttosto agli abissi di oceani popolati dalle misteriose creature di qualche vecchia storia marinaresca, come la piovra antropomorfa che compare sulla copertina del disco, ancora una volta opera di William Schaff.

In Down The River Of Golden Dreams l'alternanza di sussurri e grida ormai tipica della band assurge definitivamente a perfetto distillato emotivo, acquistando incisività e sicurezza in ogni passaggio.
La prima parte dell'album sorprende per la sua forza, dagli appassionati crescendo di "It Ends With A Fall", "For The Enemy" e "The War Criminal Rises And Speaks", fino alle onde travolgenti di "Blanket And Crib". I tratti marcati del wurlitzer delineano i contorni di figure inquiete, su cui l'hammond distende dense pennellate di colori impressionisti. Gli ottoni gettano una luce vivida e sanguigna, mentre la voce di Sheff si innalza fino a incendiare l'orizzonte.
Poi, le chitarre acustiche e il pianoforte tornano a tessere trame più sottili, lasciando sbocciare petali discreti di violino e fisarmonica e corolle di batteria e spazzole. Una rarefazione che in brani come "Maine Island Lovers" e "Yellow" si assottiglia in una grazia impalpabile degna dei Mojave 3, ricalcando soltanto nella conclusiva "Seas Too Far To Reach" lo stile più prevedibile della band.
A fare da ponte tra le due anime del disco, la nuova versione di "The Velocity Of Saul At The Time Of His Conversion", che rivela come in Down The River Of Golden Dreams quel suono di cui gli Okkervil River erano in cerca sin dagli esordi sia giunto ormai a compimento.

Il modo in cui le radici della tradizione americana si imbevono di suggestioni pop ripercorre la strada tracciata dagli Wilco a partire da "Summerteeth". Ma le melodie struggenti di "It Ends With A Fall" e "The War Criminal Rises And Speaks" dichiarano inequivocabilmente tutta la loro personalità, ponendo instancabili interrogativi sul senso del tempo, sul legame tra delitto e castigo e sulla radicalità dell'amore e dell'odio.
Del resto, guai a parlare a Will Sheff di alt.country a proposito della musica degli Okkervil River: "E' un'etichetta che deriva solo dalla pigrizia dei critici", sentenzia infastidito. "Appena sentono una pedal steel e un mandolino dimenticano tutto il resto. Noi non abbiamo cappelli da cowboy né cd di Gram Parsons e non abbiamo mai fatto la line-dance…". E Sheff conosce bene la materia, visto che si è dilettato a lungo come critico musicale scrivendo recensioni per l'Austin Chronicle e per il sito web Audiogalaxy. Ma nessuno può servire due padroni: "Coltivare una sorta di ignoranza musicale è prezioso per il mio songwriting, mentre fare il critico richiede una riflessione molto più analitica sulla musica", afferma Sheff per giustificare le ragioni che l'hanno spinto a lasciare da parte la sua carriera giornalistica.
Down The River Of Golden Dreams sfoggia una scrittura molto più complessa rispetto al passato e molto più densa di influenze letterarie. Lungo il fiume dei sogni dorati si trovano fantasmi che scrutano nel profondo degli occhi attraverso il vetro di una finestra: il cuore di un criminale di guerra e un fratello in cerca di conforto nella notte, Saulo caduto a terra dal proprio cavallo e la luce di una stella già morta da millenni… Ma la chiave di tutto, per Sheff, continua a essere semplice come l'ammonimento di una madre: "So just reach inside yourself and find the part that still needs help/ Find that part in someone else and you'll do good", è l'esortazione di "Blanket And Crib". E se il richiamo delle onde continua a parlare di "mari troppo lontani da raggiungere", dalla riva del fiume si leva un'eco che non si stanca di indicare la strada verso l'oceano.

Da "It Ends With A Fall" viene tratto un video in cui la band, nei panni di una sorta di orchestrina teatrale, racconta in uno scenario di cartapesta la propria odissea tra i flutti, fino al naufragio finale. Tra il 2003 ed il 2004 la band si impegna in un lungo tour, acquisendo Travis Nelsen alla batteria al posto di Mark Pedini. I concerti degli Okkervil River sono un furibondo tour de force in cui la band dà libero sfogo alla propria anima più aggressiva e graffiante. In occasione dei loro show gli Okkervil River mettono in vendita uno split realizzato insieme agli Shearwater, intitolato "Sham Wedding/Hoax Funeral". Il disco, registrato nella gelida casa di Thor Harris degli Shearwater durante l'inverno del 2003, ha uno spirito di improvvisazione a bassa fedeltà che riporta direttamente al clima acustico e alcoolico dei primi giorni della band. I cinque brani firmati Okkervil River sono in buona parte cover di classici folk, tra cui "Moonshiner", "See See Rider", resa dalla band come certe scheletriche ballate di Vic Chesnutt, e "Willow Tree", che con il suo arpeggio ancestrale evoca lo spettro di Devendra Banhart. Nonostante tutto, però, il disco rimane sostanzialmente un oggetto per fan. Sempre nel 2004 arriva anche il terzo album degli Shearwater, "Winged Life", che consolida ulteriormente la reputazione del gruppo di Meiburg e Sheff, rendendo sempre più chiaro come non si tratti semplicemente di una costola degli Okkervil River.

Ancora più significativa è però l'uscita, nel novembre del 2004, dell'Ep Sleep And Wake Up Songs, che raccoglie i fili lasciati in sospeso dalla band dopo la pubblicazione di Down The River Of Golden Dreams. Finito il tour, infatti, Sheff decide di passare qualche tempo a Bloomington, nell'Indiana, dove ha sede la Jagjaguwar, e comincia a lavorare su alcune idee rimaste nel cassetto: partendo da "And I Have Seen The World Of Dreams" e "No Hidden Track", outtake rispettivamente di Julie Doiron/Okkervil River e di Down The River Of Golden Dreams, nascono così un pugno di nuove composizioni, a cui Sheff si dedica incessantemente un giorno dopo l'altro, dall'alba al tramonto. Canzoni da sonno e risveglio, per l'appunto.
Registrato nello studio di Dan Burton degli Early Day Miners, Sleep And Wake Up Songs offre un affascinante scorcio del lato più riflessivo degli Okkervil River, testimoniando la fase di passaggio di una band pronta ad appropriarsi di nuovi territori musicali. L'apertura di "A Favor" si annuncia dolente come un paesaggio dipinto da Will Oldham, fino a quando il controcanto celestiale di Jordan Geiger dei Minus Story non introduce in una dimensione di drammaticità estatica, in cui si fanno strada una chitarra elettrica affilata e un'apertura di tromba. Alla voce di Sheff si affianca quella di Nicole Evans per la soffusa e fluttuante "And I Have Seen The World Of Dreams" e per "You're Untied Again", che suona come un malinconico omaggio al cantautorato di Elliott Smith. Un modello che anche i delicati arpeggi di "Just Give Me Time" sembrano riecheggiare.
Al centro di Sleep And Wake Up Songs c'è insomma più il songwriter Sheff che non la band Okkervil River, anche se la conclusiva "No Hidden Track" sembra recuperare un senso di coralità. Eppure l'incanto di Down The River Of Golden Dreams riesce ugualmente a rinnovarsi in tutta la sua pienezza, aggiungendo un'inedita e pensosa leggiadria allo spettro cromatico degli Okkervil River.

 

I'm the family's unowned boy (Tim Hardin)


Black Sheep BoyA volte basta il verso di una canzone per sciogliere il groviglio dei pensieri che si agitano nella mente e condensare ogni cosa in un'unica nota.
Will Sheff deve avere vissuto un'esperienza del genere la prima volta che ha ascoltato "Black Sheep Boy", minuta gemma incastonata tra le pieghe del secondo album di Tim Hardin. "Se mi ami, lasciami vivere in pace, ti prego comprendimi", cantava il songwriter dell'Oregon in quella breve elegia acustica. E la figura di quella tormentata pecora nera cantata da Hardin si deve essere impressa come una visione infuocata nella memoria di Sheff.
Per anni Sheff cova l'idea di dare un seguito all'intuizione di Tim Hardin. Ma è solo nel 2004 che comincia a scrivere una serie di canzoni incentrate sull'immagine del "black sheep boy": durante il suo ritiro di frenetica immersione compositiva a Bloomington, Sheff non scrive solo i brani dell'Ep Sleep And Wake Up Songs, ma getta anche le fondamenta del nuovo album degli Okkervil River.
Il titolo, è appena il caso di dirlo, è Black Sheep Boy.
La band riprende la strada per un nuovo tour, anche se Zach Thomas deve rimanere a casa per la nascita del suo primo figlio. Ma la mente di Sheff continua a essere ossessionata dal nuovo progetto, che assorbe completamente le sue energie. "Ero diventato talmente melodrammatico da sperare di non morire in un incidente stradale durante il tour solo per poter portare a termine l'album", ricorda Sheff con una punta di autoironia.
Quando finalmente gli Okkervil River fanno ritorno ad Austin, si sentono improvvisamente come degli stranieri: "Ci sembrava che l'America stesse scivolando nella follia, o forse eravamo noi a stare diventando pazzi… o più probabilmente entrambe le cose", osserva sempre Sheff.
Con l'aggiunta del polistrumentista Howard Draper, la band inizia a provare i nuovi brani nel clima rovente di una baracca senza aria condizionata, affittata all'aeroporto di Austin. Per la registrazione dell'album, gli Okkervil River scelgono però il più confortevole ambiente degli studi casalinghi del fido Brian Beattie. Stavolta la band vuole dimostrare a tutti di non poter essere inquadrata sbrigativamente nel calderone del country più o meno alternativo e vuole ridimensionare quella centralità delle tastiere che aveva caratterizzato il suono di Down The River Of Golden Dreams.
Al processo creativo partecipano direttamente anche i disegni di William Schaff, che durante la lavorazione del disco danno corpo al "black sheep boy" immaginato da Sheff con dei contorni molto più cupi e minacciosi che in passato.
Alla fine, Sheff sembra non volersi staccare più dalla propria creatura, cullata per così tanto tempo in un angolo della fantasia, e continua a seguire con cura maniacale ogni rifinitura del disco. Ma il nuovo lavoro è ormai pronto per uscire allo scoperto e la band progetta da subito una collocazione alternativa per i brani esclusi a malincuore dalla tracklist definitiva.

L'uscita del disco è preceduta nel marzo del 2005 dal mini Ep For Real (There's Nothing Quite Like The Blinding Light). Il brano d'apertura, "For Real", è l'unico estratto dal nuovo album e suona come una vera e propria dichiarazione d'intenti: "Some nights I thirst for real blood, for real knives, for real cries", canta Sheff. E a far vibrare le sue parole ecco arrivare crude staffilate di chitarra elettrica, che creano un'alternanza di pieni e vuoti da togliere il fiato. "Siamo così alienati dalla realtà da credere che la vita vera sia quella che vediamo in tv", osserva Sheff. "Non sappiamo più che cosa sia davvero un'esperienza reale". È proprio questa sete incontenibile di realtà ad animare "For Real", accompagnata da un video dal sapore radioheadiano, incentrato su un fosco e raggelante cartoon. Completano l'Ep una magnetica versione live di "For The Enemy" e l'inedita "The Next Four Months", meravigliosa e disperata invocazione nel cuore della notte.

Black Sheep Boy fa la sua comparsa nei negozi di dischi il mese successivo, e per gli Okkervil River è la consacrazione agli occhi della critica e del pubblico indie.
Immerso in un'atmosfera oscura degna delle migliori pagine dei 16 Horsepower, il terzo album degli Okkervil River si muove con mesmerica energia tra ombre acustiche e improvvisi scarti elettrici. Un basso dalle venature wave testimonia la volontà della band di immergersi in una dimensione più profonda e corposa, mentre gli inserti elettronici che si celano sottopelle ai brani aprono la strada a contaminazioni per ora soltanto accennate.
"Black" ha la potenza devastante dell'inno, con la sua batteria squadrata, il suo incalzare di wurlitzer e le sue progressioni di tastiere, su cui Sheff sputa tutta la rabbia e la voglia di riscatto di una brutale storia di violenza familiare. "The Latest Toughs" sfodera invece la vena più pop degli Okkervil River, tra handclapping e controcanti che fanno incontrare gli Eels con gli Arcade Fire, mentre la band invita l'ascoltatore a inserire nell'apposito spazio libero tutto quello che vorrebbe ascoltare in una canzone…
Il resto del disco si distende su tonalità più ombrose, in uno scenario che riflette le sagome di Mark Lanegan e dei Sophia, dallo spleen angoscioso di "In A Radio Song" e "So Come Back, I Am Waiting" al valzer di tromba e mandolino di "A King And A Queen", fino al duetto con Amy Annelle nel sospiro carico del peso del tradimento di "Get Big".
Tra i versi si fa strada un immaginario fiabesco fatto di cavalieri e principesse: "E' il nostro lato alla Dungeons & Dragons", scherza Sheff. Ed è anche la parte del disco che soffre maggiormente di un'eccessiva uniformità di toni. Ma il commiato di "A Glow", con il suo largo respiro cinematografico, lascia immobili a fissare l'immensità del cielo stellato.

A fare da incipit al disco è il devoto omaggio alla "Black Sheep Boy" firmata Tim Hardin. La pecora nera degli Okkervil River è un figliol prodigo senza perdono: anche il suo ritorno a casa, in "So Come Back, I Am Waiting", sembra più una condanna che un abbraccio. "Viviamo in un tempo in cui ognuno si arroga il diritto di giudicare gli altri: la nostra cultura sembra ossessionata dalla necessità di fare ciò che ci si aspetta da noi", riflette Sheff. "Ma la decisione spetta a noi e può essere anche quella di fare la cosa sbagliata". La pecora nera è chi non accetta di rassegnarsi al ruolo che gli è stato imposto: ma, inseguendo il miraggio dei propri sogni, si ritrova alla fine a distruggere tutto quello di cui è alla ricerca, proprio come il protagonista di "In A Radio Song". Il fatto è che la breve lama della libertà è qualcosa di più di quella fatale opzione che finisce per consumare ogni speranza. È un'attrattiva che permette di attaccarsi alla realtà. E solo la realtà conta, anche quando ha il sapore del sangue di "For Real". Per questo, secondo Sheff, Black Sheep Boy è "un disco sulla nostra distanza dalla verità, intesa come arte o bellezza o emozione o onestà o realtà".

Dopo aver partecipato al tributo a Jandek pubblicato nel 2005 con una cover di "Your Other Man", gli Okkervil River danno alle stampe nello stesso anno un'ulteriore porzione del materiale non inserito in Black Sheep Boy, sotto forma di un nuovo Ep dal titolo programmatico Black Sheep Boy Appendix. Non si tratta, però, di qualche prescindibile outtake, quanto piuttosto di un prezioso corollario al disco principale, che segue il medesimo filo narrativo e musicale. L'ouverture di "Missing Children" galleggia su una soffice nube di organo a pompa e archi, mentre "No Key, No Plan" conferma quello spirito estroverso già mostrato dagli Okkervil River in "The Latest Toughs". In "Another Radio Song" la band riscrive con vigorosa convinzione la vecchia "For The Captain", sostituendo al capitano la pecora nera. Amy Annelle torna ad accompagnare Sheff nell'avvolgente "Black Sheep Boy #4" (i capitoli numero due e tre sarebbero rispettivamente "So Come Back, I Am Waiting" e "In A Radio Song"), che riprende e trasforma a propria volta "Disfigured Cowboy". E la conclusione dell'Ep sembra voler sintetizzare in "Last Love Song For Now" tutto il percorso compiuto dagli Okkervil River.

 

You can’t hold the hand of a rock and roll man


The Stage NamesFacile ritrovarsi imprigionati nei confini di uno stereotipo, dopo un disco dello spessore di Black Sheep Boy: soprattutto quando si ha una voce dall’impronta inconfondibile come quella di Sheff. Gli Okkervil River, invece, scelgono di intraprendere una nuova rotta.
Nel 2006, in una pausa del lungo tour successivo all’uscita di Black Sheep Boy (che viene ripubblicato in un’edizione speciale comprendente anche i brani di Black Sheep Boy Appendix), la band registra di getto un pugno di nuovi brani, senza pensare tanto alla possibilità di una loro eventuale pubblicazione quanto piuttosto alla spontaneità di un’istantanea scattata senza pressioni di produzione alle spalle. Al momento di sbarcare agli antipodi per la prosecuzione del tour, però, il gruppo decide di inserire alcune delle nuove composizioni in un Ep destinato soltanto al mercato australiano.
Il titolo, Overboard & Down, è tratto da un verso di “O, Dana” dei Big Star, di cui Sheff e soci offrono un’interpretazione scintillante di ottoni ed irruente solarità. Il brano principale dell’Ep è però “The President’s Dead”, pubblicato anche come singolo in edizione limitata su vinile, che nel suo arrembante crescendo contrappone al peso della storia il valore infinito dell’istante apparentemente più banale. A completare il quadro, oltre ad un’ardente versione live dell’ormai classica “Westfall”, ci pensano “The Room I’m Hiding In” e “Love To A Monster”, intense ballate folk dal più genuino marchio Okkervil River, che contribuiscono a rendere Overboard & Down una delle opere più immediatamente comunicative del gruppo.
Il 2006 vede anche la realizzazione del nuovo capitolo targato Shearwater, “Palo Santo”, in cui Jonathan Meiburg conquista il centro della scena, riservandosi per la prima volta la scrittura e l’interpretazione di tutti gli episodi del disco.
In occasione dei Video Music Awards di MTV, gli Okkervil River vengono indicati da Lou Reed come una delle sue band preferite ed il gruppo viene chiamato dall’ex Velvet ad aprire il concerto inaugurale della Highline Ballroom a New York. “È la cosa di cui sono più orgoglioso”, commenta entusiasta Sheff, “Lou Reed è una delle mie più grandi influenze, se non la più grande rispetto alla mia scrittura. È stato un onore incredibile”.

Il quarto album degli Okkervil River, The Stage Names, vede la luce nell’estate del 2007 e per la prima volta non risulta accreditata nel disco la presenza di Seth Warren. Anche Howard Draper non partecipa alla registrazione, preferendo dedicarsi completamente alla sua attività con gli Shearwater. Per un po’ Sheff cova l’idea di pubblicare un doppio album: “ho sempre pensato che i doppi album siano super-pretenziosi e davvero terribili da realizzare, ma prima o poi ti viene una perversa tentazione di farlo. Alla fine, però, ha prevalso la sanità”. Ancora una volta, quindi, sono molti i brani esclusi dalla tracklist definitiva dell’album.
Non ci sono più parabole dal sapore gotico, in The Stage Names, ma illusioni consumate tra i canali televisivi di una camera d’albergo ed il parapetto di un ponte sulle acque del fiume. Non ci sono più oscurità folk-wave, nella musica di Will Sheff e soci, ma un palcoscenico dalle tinte brillanti su cui la band americana si avventura con piglio deciso, compensando la profondità ombrosa del precedente album con un’inedita dose di leggerezza ed ironia. “Sentirei di avere fallito a qualche livello se la nostra musica non fosse del buon rock and roll”, afferma senza esitazione Sheff. E a sentire gli scattanti riff loureediani di “Unless It’s Kicks”, si direbbe che l’obiettivo sia stato centrato in pieno.

I brani di The Stage Names, che in alcuni casi avevano già fatto la loro comparsa sul palco da qualche tempo, mostrano una band dalla crescente confidenza e sicurezza: merito della presenza ormai familiare di Brian Beattie in veste di produttore, ma soprattutto dell’affiatamento di una formazione resa sempre più compatta dall’esperienza maturata sul palco, con l’ingresso del chitarrista Brian Cassidy, del bassista Patrick Pestorius e del polistrumentista Scott Brackett.
La voce infuocata di Sheff domina la scena tra chitarre scalpitanti, nitidi accordi di pianoforte e robusti accenti di batteria, mentre orchestrazioni e tastiere rimangono per una volta sullo sfondo. Gli Okkervil River inseguono scintille pop finora solo accennate nei momenti più esuberanti del passato, da “The Latest Toughs” a “No Key, No Plan”: persino la copertina di William Schaff si veste una volta tanto di colori sgargianti. Il luccichio dei fiati conferisce così a “A Hand To Take Hold Of The Scene” un brioso andamento alla Decemberists, mentre “You Can’t Hold The Hand Of A Rock And Roll Man” corre lieve sulla polvere di stelle di Ziggy l’alieno, tra armonie vocali e battimani dalle ascendenze Sixties.

Anche gli episodi più vicini alle atmosfere di Black Sheep Boy, come “A Girl In Port”, si vestono nel nuovo album di fragranze di stampo Wilco, che rendono più vivide le sfumature di ogni sospiro. Quando poi si fa strada la disarmante dolcezza del carillon di “Savannah Smiles”, sospesa tra le pagine del diario di una figlia che scopri all’improvviso di non conoscere, sembra per un istante di ritrovarsi avvolti tra le pieghe più morbide di “The River”.
Amanti di una notte avvinghiati alla propria solitudine, mediocri rocker all’inseguimento perenne di un sogno, attrici perdute a cui non rimane altro che il nome di una stella del porno: quelli di The Stage Names sono personaggi in fuga dalla realtà, nascosti dietro la propria maschera per paura di lasciarsi ferire da un imprevisto. “What gives this mess some grace unless it’s fiction?”, è la domanda che pulsa al centro di “Unless It’s Kicks”. Ma la vita non si lascia inquadrare in una sceneggiatura: “it’s just a life story, so there’s no climax”, proclama Sheff in “Our Life Is Not A Movie Or Maybe”, che introduce l’album con una vigorosa enfasi degna degli Arcade Fire di “Neon Bible”.
I nomi di scena svaniscono nel nulla al passo solenne di “Title Track” (e casomai qualcuno avesse ancora qualche dubbio, un titolo del genere dovrebbe bastare a convincerlo della vena autoironica di Sheff…). Al momento della resa dei conti, resta un unico volto dietro le maschere. Deve averlo saputo anche il poeta americano John Berryman, cui si ispira l’epilogo dell’album, quando ha fissato le acque del Mississippi prima di gettarsi nel vuoto: di tutti i suoi personaggi, di tutti i suoi alter ego, in quel momento era soltanto uno lo sguardo rimasto a fronteggiare la morte.
E mentre la visione del suo suicidio scorre come un’immagine al rallentatore, nell’elegia acustica in crescendo di “John Allyn Smith Sails” irrompe all’improvviso la melodia di “Sloop John B”, non con il sorriso solare donatole da Brian Wilson, ma con quell’ultimo senso di abbandono ereditato dalla tradizione folk.

Il disco viene pubblicato anche in un'edizione limitata, corredata da un secondo cd contenente le versioni acustiche di tutti brani: una preziosa occasione per ammirare la forza delle canzoni di The Stage Names in tutta la loro nudità, da una versione al rallentatore di "Our Life Is Not A Movie Or Maybe" ad una "You Can’t Hold The Hand Of A Rock And Roll Man" inaspettatamente western.
Alla fine del 2007, gli Okkervil River riservano un inatteso regalo di Natale ai fan, offrendo gratuitamente sul loro sito ufficiale la possibilità di scaricare Golden Opportunities, un Ep di cover registrate dal vivo tra il 2006 ed il 2007, cui si aggiunge una "Listening To Otis Redding At Home During Christmas" più che mai adatta al periodo festivo. Tra il cabaret lieve del Randy Newman di "Simon Smith And The Amazing Dancing Bear", il classico folk di "April Anne" ed i fiati di "I Want To Know", Sheff veste i panni dello chansonnier per "I Came Here To Say I'm Going Away" di Serge Gainsbourg e si immedesima nella parte di John Cale per una fascinosa resa di "Antarctica Starts Here".

 

The liar who lied in this song


The Stand InsE venne l’ora dell’addio: il 2008 porta con sé l’annuncio della dipartita dagli Okkervil River di Jonathan Meiburg, deciso ormai a concentrarsi esclusivamente nella guida degli Shearwater. L'ultimo capitolo del connubio è il gemello di The Stage Names, The Stand Ins, conclusione di quello che in origine avrebbe dovuto essere un doppio album. “Fin dall’inizio volevamo che The Stage Names fosse un disco più breve dei precedenti, così abbiamo lasciato da parte molti brani, non perché non ci piacessero, ma perché volevamo cercare di accostarli con coerenza”, spiega Will Sheff. “Non vedevo l’ora di trovare una casa per questi orfani, un piccolo posto accogliente per i perdenti, da qualche parte off-off-off Broadway”.
Dai nomi di scena alle controfigure, la brillantezza iniziale sembra perdere in parte il suo smalto. Forse il formato dell’Ep sarebbe stato più adatto a raccogliere il materiale rimasto escluso dalla prima parte del progetto, sul modello di quanto fatto in passato dal gruppo con Black Sheep Boy Appendix. The Stand Ins non è certo una collezione di scarti, ma la scelta di presentarlo sotto le vesti di un album autonomo finisce per porre troppa enfasi su quello che, negli intenti di Sheff e soci, non dovrebbe essere altro che un approfondimento delle atmosfere e delle tematiche di The Stage Names.

Le tonalità rock di The Stage Names sfumano verso contorni più lievi, in cui le tastiere ritrovano un ruolo essenziale, alternando i brani veri e propri ad un trittico di brevi scampoli strumentali. La band acquista l’apporto di Charles Bissel degli Wrens alla chitarra in “Singer Songwriter”, scritta durante il tour condiviso con i New Pornographers. La scrittura di Sheff mostra ancora una volta una sottigliezza senza paragone, ma rispetto al predecessore le chiavi di lettura meta-musicali assumono un ruolo preponderante, con il risultato di smarrire in alcune occasioni l’efficacia intrinseca dei brani. Così, “Singer Songwriter” rischia di suonare solo come un esercizio alt-country, se non si coglie la satira (autoironica) verso la supponenza intellettuale dei cantautori che sfoggiano sullo scaffale i volumi di Poe e Artaud ed i film di Murnau: “You’ve got taste. What a waste that that’s all that you have”. E le tastiere dal sapore glam che incalzano la spumeggiante “Pop Lie” possono apparire gratuitamente sfacciate, se si dimentica che si tratta di una parodia delle canzoni “calcolate per farti cantare in coro con lo stereo acceso”.

C’è uno scheletro mendicante sotto la mano tesa del naufrago: fin dall’immagine di copertina, The Stand Ins dichiara esplicitamente il suo parallelismo con The Stage Names. Una simmetria che ricorre sia nella struttura del disco, sia nel ritorno di personaggi e situazioni già presenti nel primo capitolo dell’opera. “Starry Stairs”, offerta in precedenza su iTunes come bonus track di The Stage Names, riprende con le sue seducenti fragranze Motown la drammatica storia dell’attrice porno Savannah, osservata in “Savannah Smiles” dal punto di vista dei genitori ed ora riletta con gli occhi della protagonista. Allo stesso modo, il fugace incontro che in “Girl In Port” veniva raccontato dalla voce amara della rockstar, in “Blue Tulip” assume una nuova prospettiva attraverso lo sguardo della groupie.
Quello del rapporto tra il fan e l’oggetto della sua ossessione è uno dei temi centrali di The Stand Ins: secondo le parole di Sheff, il nuovo disco degli Okkervil River vuole esplorare “che cosa significa essere un fan, che cosa significa essere un artista, che cosa significa pensare di conoscere qualcuno in base all’amore per qualcosa che ha realizzato”.

Sul fiorire luminoso e vivace di “Lost Coastlines”, gli Okkervil River regalano l’ultimo duetto tra Sheff e Jonathan Meiburg, mentre la morbida ballata “On Tour With Zykos” richiama alla memoria come non mai i riflessi di Down The River Of Golden Dreams.
L’ultima maschera è quella di Bruce Wayne Campbell, che con lo pseudonimo di Jobriath sognò di diventare il nuovo David Bowie, prima di essere relegato per sempre nel limbo delle meteore: un altro nome di scena, un altro di quei meravigliosi fallimenti di cui è costellato l’immaginario degli Okkervil River. Contraltare ideale della figura del poeta John Berryman, con cui si chiudeva The Stage Names, “Bruce Wayne Campbell Interviewed On The Roof Of The Chelsea Hotel, 1979” inizia con l’intimità nascosta di una confessione, per acquistare enfasi e vigore in un epico finale rutilante di fiati, che vede il ritorno di Zachary Thomas al mandolino. “Take me, I’m yours, morning star ship”, invoca Sheff parafrasando i titoli delle canzoni di Jobriath. Un’astronave lucente che conduca lontano, via dalla terra e dalla sua menzogna, fino a dimenticare la meschinità della natura umana, immersi nel chiarore misterioso delle stelle.
A coronamento del progetto, in occasione dell’uscita di The Stand Ins, nel settembre del 2008, la band diffonde su YouTube una serie di cover dei brani dell’album, realizzate da vari artisti amici: una galleria di controfigure d’eccezione, tra cui spiccano i nomi di A.C. Newman dei New Pornographers e di Bon Iver. Il singolo "Pop Lie", l'anno successivo, offre come b-side l'inedita "Millionaire", che prosegue nei temi di fondo del disco (pur senza aggiungere spunti significativi).

 

Won't you be and bring me home (Roky Erickson)


Roky EricksonCi sono dischi che vengono da lontano. Dischi in cui, prima ancora della musica, viene la storia che hanno da raccontare. Dischi che chiedono di immergersi fino in fondo tra le loro pagine, se si vuole davvero catturarne l'essenza.
Nel 2010, gli Okkervil River decidono di raccontare la storia di Roky Erickson, storica voce dei 13th Floor Elevators, accompagnandolo nel suo primo disco dopo quindici anni di silenzio. True Love Cast Out All Evil è una sorta di autobiografia musicale, il diario di una vita tormentata e sempre sospesa sul vuoto. Ancora di più, è un viaggio al termine della notte in cui il buio della follia giunge a sfociare nella ricerca di una rivelazione.
Il fruscio di una vecchia registrazione sembra sbucare dal nulla, trasportando lontano nel tempo e nello spazio, tra le mura opprimenti di un manicomio criminale. Non è un vezzo lo-fi, quello dell'iniziale "Devotional Number One": è un brandello di esperienza, una testimonianza diretta degli scarni bozzetti raccolti con una chitarra e un microfono di fortuna da Roky Erickson nel corso degli anni, a partire dal giorno in cui venne rinchiuso per la prima volta in un ospedale psichiatrico, alla fine degli anni Sessanta. Declamava frasi sconnesse in preda agli acidi e la terapia a base di elettroshock e psicofarmaci che gli venne imposta al Rusk State Hospital non fece altro che peggiorare la situazione: le sue canzoni rimasero l'unica cosa a cui potersi continuare ad aggrappare.

I brani di True Love Cast Out All Evil vengono proprio da quell'archivio di registrazioni dimenticate, cui qualche anno prima aveva attinto anche l'acclamato "Never Say Goodbye". Will Sheff ha avuto a disposizione una sessantina di demo tra cui scegliere i brani da rileggere al fianco di Erickson: ha voluto cercare di cogliere quelli secondo lui più emblematici rispetto alla traiettoria umana dell'ormai sessantatreenne icona della psichedelia americana, offrendo l'ausilio degli Okkervil River come backing band d'eccezione.
Più che un disco di nuove canzoni, True Love Cast Out All Evil si presenta allora come una summa della vita di Erickson declinata al presente, dalle ossessioni della schizofrenia sino al percorso di una lenta rinascita. Il prologo e l'epilogo dell'album, però, sono stati conservati da Sheff in tutta la loro nudità, con l'unica aggiunta di una cascata di archi a farsi strada all'improvviso tra voci e rumori di sottofondo. Così, l'invocazione di "Devotional Number One" suona come il grido di uno spirito perduto che anela alla possibilità di risorgere: "Don't wait to Christ to come / He has already risen". Gli Okkervil River entrano in scena quasi con discrezione, disegnando un country-folk alla Kris Kristofferson intorno ai terribili ricordi evocati in "Ain't Blues Too Sad" dalla voce rauca di Erickson: "Electricity hammered me through my head / Till nothing at all was backwards instead".
L'inizio della collaborazione con gli Okkervil River, uniti a Erickson dalle comuni radici texane, risale al 2008, quando la band lo accompagna in occasione degli Austin Music Awards. Sheff e soci mostrano di volersi adattare alla personalità delle canzoni, dal vivace profumo byrdsiano di "Bring Back The Past" al riff granitico di "John Lawman", che richiama l'hard rock dei dischi a base di alieni e vampiri realizzati da Erickson negli anni Ottanta. Ma è quando la band non teme di lasciare la propria impronta che gli esiti diventano più compiuti, dalle tinte folk di "Birds'd Crash" e "Forever" fino a "Think Of As One", con una chitarra che sembra uscita da "The Stage Names" e un accompagnamento di fiati e percussioni capace di farne uno degli episodi più accattivanti del disco.

La precedente apparizione discografica di Roky Erickson, risalente al 1995 con "All That May Do My Rhyme", scontava il limite di un'eccessiva pulizia e di una realizzazione sin troppo convenzionale. Gli Okkervil River si accostano invece alle canzoni di Erickson con il rispetto di chi non vuole snaturare la musica di uno dei propri eroi, ma anche con il desiderio di liberare ogni obliqua scintilla di genio, facendola suonare più che mai attuale. Il pensiero corre inevitabilmente alla cura dedicata da Mark Linkous alle composizioni di un altro stralunato songwriter, Daniel Johnston, in "Fear Yourself": un approccio che ricorda da vicino quello seguito da Will Sheff nella produzione di "True Love Cast Out All Evil".
Quella di True Love Cast Out All Evil non è una storia di disperazione: al contrario, è una sofferta celebrazione della speranza. Lo suggerisce il brano che dà il titolo all'album: i demoni dell'animo possono essere vinti, il male non è destinato a prevalere. "Di solito non credo alle storie sui miracoli", afferma Sheff nelle corpose liner notes del disco (che gli fruttano persino una nomination ai Grammy nel 2011). "Tuttavia, avendo visto di persona quello che è successo nella vita di Roky, mi sorprendo di essere io stesso a garantire che il suo riscatto è reale. È una cosa che mi fa sentire piccolo e umile, il che è un bel modo di sentirsi".
La parola torna così a quella traballante chitarra, rimasta fedele anche nei frangenti più travagliati della vita. Annuncia la conquista di una nuova coscienza, che nell'eco sgranato della voce di Erickson si spoglia di ogni retorica, per penetrare fino alla stoffa della realtà: "God is everywhere / Everywhere is where / And everywhere as all positivity". Splendida follia, quella che porta a guardare il mondo con questi occhi.

Le collaborazioni che vedono coinvolto Will Sheff non si esauriscono nel lavoro al fianco di Roky Erickson: nel 2009 il songwriter americano scrive per Norah Jones la tenue ballata "Stuck", inclusa nell'album "The Fall". L'anno successivo, Sheff presta la voce ai New Pornographers per accompagnare i cori di "Moves", brano iniziale del loro "Together". E l'esperienza alla produzione si rinnova con il disco d'esordio dei Bird Of Youth, "Defender", che vede la luce nel 2011. Tutto è pronto per un nuovo capitolo della saga Okkervil River.

 

A loud crowd crush


I Am Very FarC'è un tempo per cercare di dominare le onde e un tempo per lasciarsi travolgere dalla corrente. Perdere il controllo, abbandonarsi alla piena: le acque del fiume Okkervil rompono gli argini, invadono terre, anime e corpi. I Am Very Far è un alluvione che spinge lontano, trascinando ogni cosa con sé: così lontano che, stavolta, Will Sheff e la sua ciurma sembrano smarrire la rotta di casa.
La densità prevale sulla misura, l'evocazione prevale sul racconto. "Lo scopo", per usare le parole di Sheff, "era spingere la mia mente in posti dove non volevo andare". Luoghi nascosti nel profondo di sé, al di là della soglia su cui vegliano le nere sagome raffigurate da Will Schaff in copertina. Come Orfeo oltre le porte degli inferi, senza mai voltarsi indietro.
Una certa grandeur è sempre stata nell'indole degli Okkervil River: basta pensare agli ambiziosi concept di Black Sheep Boy e della coppia The Stage Names / The Stand Ins. Ma I Am Very Far, pubblicato nel maggio del 2011, vuole andare oltre: dilatare i confini, accrescere gli spazi. "Dopo gli ultimi dischi ero stanco della mia personale versione di musica accessibile", spiega Sheff. "Volevo qualcosa che fosse solo per me stesso e non per gli altri". L'imperativo è non porsi limiti, anche quando significa riunire in uno studio una "giant band" fatta di due batterie, due pianoforti, due bassi e sette chitarre, tutti a suonare insieme tra le stesse mura.

Il passo marziale di "The Valley" investe subito con il fragore dei suoi accenti, gonfiati da ritmiche tonanti e marcature orchestrali. Poi, la voce di Sheff scivola sul groove flessuoso di "Piratess", lasciandosi tentare da inedite seduzioni soul. Dove prima dominava l'urgenza, ora si fa strada l'enfasi: il classico crescendo di "We Need A Myth" rimane gravato di ingombranti impalcature barocche, mentre la cavalcata alla New Pornographers di "Rider" suona come una "Our Life Is Not A Movie Or Maybe" sovraccarica di cori, chitarre, archi, tastiere e percussioni.
L'affrancamento dalla mano del produttore Brian Beattie (presente stavolta soltanto in un paio di episodi) sembra lasciare a Sheff e soci una libertà difficile da gestire. Eppure, è proprio al fianco di Beattie che I Am Very Far riesce a trovare il suo momento più acuto, quando i fiati tornano a disegnare in controluce l'intreccio di tradimento e fedeltà di "Hanging From A Hit", con un contorno di cori dal romanticismo coheniano.
Anche la formazione della band risulta trasformata rispetto a quella di qualche anno prima, con l'acquisto in pianta stabile della chitarra di Lauren Gurgiolo, delle tastiere di Justin Sherburn e della batteria di Cully Symington. Nonostante tutto, però, i punti di riferimento degli Okkervil River non cambiano: c'è sempre la concitazione degli Arcade Fire nel pop sinuoso di "Your Past Life As A Blast" o nel connubio di tastiere incalzanti e accumuli di percussioni di "White Shadow Waltz"; e c'è sempre la magniloquenza dei Bright Eyes (era "Cassadaga") nella declamazione stentorea del singolo "Wake And Be Fine" o nell'attacco veemente di "The Valley".

"Volevo tornare a casa e ricominciare a scrivere da capo, come se non avessi mai scritto una canzone prima", racconta Sheff. "Il tentativo era quello di rifiutare l'idea di scrivere in maniera cerebrale, per cercare di scrivere in maniera intuitiva o emozionale". Così, per mettere mano ai brani del nuovo album, Sheff si ritira nel mezzo della campagna del New Hampshire, tra le vecchie stanze della casa dei nonni. Un luogo popolato dai fantasmi dell'infanzia, che si affacciano tra le pieghe delle canzoni come presenze impalpabili.
È il rosso del sangue a tingere i versi di I Am Very Far: sangue su lame assassine, sangue come voce del destino. Violenza e passione, forze che sovrastano qualsiasi illusione di controllo. "Press your ear up to my wrist", invoca Sheff in "Your Past Life As A Blast", "The blood is racing someway, going wherever". In che direzione scorre il nostro sangue? In che direzione si muovono i nostri passi? È una strada quello di cui avremmo bisogno, proclama il manifesto di "We Need A Myth", non l'ombra di un mito fatto per svanire sulle rive del Lete: "We need a path through the mist / Like in our beds we were just kids / Like what was said by our parents". Sarebbe come ritrovare una voce sicura, uno voce in cui poter riporre fiducia senza riserve.

A fare da anteprima all'album vero e proprio ci pensano due singoli: "Mermaid" presenta una coppia di inediti rimasti esclusi (il lento e appassionato valzer che dà il titolo al disco e una non altrettanto incisiva "Walked Out A Line"), mentre "Wake And Be Fine" offre come b-side la lieve "Weave Room Blues".
Alla fine del 2011, la band offre in download gratuito una nuova raccolta di cover, Golden Opportunities 2. Un intermezzo che ricollega gli Okkervil River alla loro essenza più autentica, dall'etereo omaggio a Ted Lucas di "It Is So Nice To Get Stoned" alla nudità della classica "Dry Bones", passando per la robusta resa di "Plan D" di Bill Fay.
Will Sheff rispolvera anche la sua passione per la critica musicale grazie ad un nuovo un sito personale, in cui trovano posto anche le divagazioni in chiave synth-pop del progetto "Lovestreams". Per il ritorno degli Okkervil River bisogna attendere il 2013, ed è in una direzione decisamente differente.

 

We can never go back, we can only remember


The Silver GymnasiumMeriden, New Hampshire, 1986. Un angolo sperduto dell’America, in cui si aggira un ragazzino fragile e occhialuto dall’aria un po’ stramba. Nella Main Street del paese il suo cane può starsene comodamente sdraiato tutto il giorno a dormire in mezzo alla strada: di macchine non ne passano quasi mai, in quella cittadina sonnecchiante immersa nei boschi. Il suo nome è Will, e non se la cava granché bene né con gli sport, né con la caccia, né con le relazioni in genere. Il mondo, per lui, è un orizzonte carico di mistero: e, con il misto di curiosità e desiderio della banda di amici di “Stand By Me”, non attende altro che di andare a scoprirlo.
I concept non sono certo una novità, per gli Okkervil River. Ma non era mai successo che avessero un’anima così personale e autobiografica come in The Silver Gymnasium: un viaggio al cuore degli anni Ottanta, in cui Will Sheff sale a bordo della sua DeLorean per ritrovare i luoghi e i volti della città dove è cresciuto. Fino a tornare a rispecchiarsi in quel ragazzino con gli occhiali spessi e lo sguardo proiettato lontano.

Videocassette, Atari, walkman… I reperti di modernariato che affiorano tra i versi di The Silver Gymnasium evocano in un istante i ricordi di una generazione. Ma, prima ancora dello scenario, è la musica a fare da guida nella ricerca del tempo perduto: conferendo ai brani di The Silver Gymnasium una luccicante patina Eighties, senza per questo snaturare la personalità della musica degli Okkervil River. Dietro al mixer, non a caso, c’è per la prima volta il produttore John Agnello, artefice tra l’altro del successo di “Your Love” degli Outfield, che proprio nel 1986 entrava nelle top ten americane. Ed è un po’ come se Sheff ci portasse a bordo della vecchia station wagon di famiglia, quando la domenica mattina, lungo la strada per andare in chiesa, il padre si sintonizzava sulle hit di una delle pochissime stazioni radio capaci di arrivare fino a Meriden.
Le tastiere di “Down Down The Deep River” chiamano subito in causa lo Springsteen era “Born In The U.S.A.”, in una trionfale giostra di slanci lirici e ammiccamenti corali. È l’inizio di un caleidoscopio di Polaroid recuperate dalla scatola della memoria, in cui Sheff riporta orgogliosamente in vita i sogni dorati dei Simple Minds con l’enfasi contagiosa di “Stay Young”, per poi indossare con disinvoltura i panni del crooner pop, rendendo omaggio al Jim Reid di “Darklands” sul passo marziale di “White”.
I toni sovraccarichi di I Am Very Far lasciano così il posto a una rinnovata leggerezza, che sembra volersi riallacciare alle atmosfere di The Stage Names e The Stand Ins. Sono però le tastiere, stavolta, le vere protagoniste dell’album: ora con la solennità dell’inno, ora con un insinuarsi impalpabile, come nei tremolii di synth che introducono “Lido Pier Suicide Car”. Per ritrovare l’eco dei vecchi Okkervil River, occorre rivolgersi all’andamento familiare di “All The Time Every Day”: ma la sensazione è che i tempi siano definitivamente cambiati per Sheff e soci, e sarebbe illusorio non prenderne atto.

Un fraseggio lieve di piano introduce la nostalgia di “It Was My Season”, raccontando la confusa altalena di emozioni del crinale tra un’amicizia e qualcos’altro. The Silver Gymnasium è una collezione di storie raccontate attraverso gli occhi di un ragazzino ancora sospeso nel limbo tra infanzia e adolescenza – “a little boy in a serious danger of getting old”, per usare le parole di Sheff in “Walking Without Frankie”. Senza idealizzare il passato, ma andando a cogliere anche tutto il suo bagaglio di rabbia e incertezze (“Show me my best memory, it’s probably super crappy”, confessa Sheff in “Pink-Slips”).
“We can never go back, we can only remember”, proclama “Down Down The Deep River”. Eppure, lo struggimento di “It Was My Season” non è fatto di rimpianto: per dire tua una stagione, per dire che un momento ti appartiene davvero, occorre la semplicità di riconoscere quella corrispondenza che fa vibrare il cuore nel punto più acuto, il punto della mancanza. “Open up your heart, show me the place where love is missing”: è tutto qui, probabilmente, il segreto per restare sempre giovani. “Stay young, stay strong”. Domani può essere ancora la nostra stagione.

Per The Silver Gymnasium, Sheff crea un intero universo di immaginario vintage: un audiolibro, una cassetta, un videogioco a 8-bit in cui ci si può avventurare tra i segreti del cimitero di Meriden e soprattutto un cortometraggio ispirato ai classici del cinema per ragazzi anni Ottanta, da "E.T. l'extra-terrestre" a "Navigator".
La versione su vinile dell'album regala poi due inediti, "Do the Crawl (CBS October 22, 1988)" e "From a Cutlass Cruiser", che proseguono nel viaggio attraverso la memoria di Sheff.

 

I thought that it was us against the world

 

AwayMorire. Rinascere. Comincia con un funerale, l’ottavo album degli Okkervil River. Un cimitero di campagna, una funeral band dall’aria dimessa, un predicatore con le braccia levate al cielo. E la salma di Will Sheff che canta la sua stessa dipartita. “Okkervil River R.I.P.”, annuncia il brano chiamato ad aprire il disco: un necrologio per il passato, un prologo per il futuro. Le esequie messe in scena nel video non sono che il primo capitolo di un nuovo racconto. Will Sheff è più vivo che mai e “Away” è l’atto della sua personalissima rifondazione.
A volte bisogna perdere tutto per poter ricominciare. La realtà deve metterci alle strette, per convincerci ad abbandonare le gabbie che ci siamo costruiti intorno: “Forse quando le cose ti crollano addosso è perché non erano fatte per durare”, riflette Sheff. Dopo l’uscita di The Silver Gymnasium, di cambiamenti la sua vita ne subisce parecchi: dalla diaspora dei vecchi compagni di band alla disillusione nei confronti di un’industria musicale sempre più allo sbando, fino ad arrivare alla scomparsa del nonno, T. Holmes “Bud” Moore, ai suoi occhi l’ultimo vero gigante in un mondo di nani.

Così, Sheff decide di lasciarsi tutto alle spalle. In perfetta solitudine, in una casa tra i boschi dei monti Catskill, i pensieri ricominciano a prendere la forma di canzoni. Canzoni scritte più per sé stesso che per gli altri, senza nemmeno la certezza che gli Okkervil River, alla fine, sarebbero esistiti ancora.
Il requiem di “Okkervil River R.I.P.” porta dentro tutto questo, tutta la consapevolezza di chi si guarda allo specchio cercando di riconoscersi nel riflesso: un’elegia acustica in cui lo scorrere inesorabile del tempo (“I was turning thirty-eight/ I was a horrible sight”) è velato dall’ombra della mortalità. La folksinger Judee Sill, gli alfieri dell’r&b anni Ottanta Force MDs: Sheff evoca il destino delle loro voci, tutte venute a mancare prima del tempo. E pensa alla morte che arriva inattesa, spezzando il filo sottile dei sogni e dei progetti. La fine di una persona cara, dopo una vita lunga e intensa. La morte interiore che porta via una parte di sé.
Il crescendo si fa strada lentamente, tra le punteggiature del piano e il bordone del basso. Un tempo sarebbe sfociato nella catarsi dell’inno, oggi resta sospeso in un’aura di malinconica contemplazione.

Perché Away, pubblicato nel settembre del 2016, è un disco che si svela con pudore, evitando le scorciatoie più immediate: i brani si dilatano assecondando l’intuizione di un attimo, si concedono all’improvvisazione, vanno in cerca di un calore capace di nutrire e di curare. “Ho messo insieme i migliori musicisti newyorchesi a cui riuscivo a pensare”, racconta Sheff, “gente di cui amavo il modo di suonare e la personalità e che avevano più che altro un retroterra jazz o avant”. I nuovi Okkervil River si allontanano così dalle coordinate familiari dell’indie-rock, inseguendo piuttosto il Van Morrison di “Astral Weeks” o il revival psych-folk di Jonathan Wilson (chiamato non a caso a occuparsi del mixaggio del disco).
Già dalla copertina, del resto, Away mostra di parlare un linguaggio diverso dal passato: per la prima volta non tocca al tratto spigoloso di William Schaff illustrare un disco degli Okkervil River, ma al morbido naturalismo del pittore del Wisconsin Tom Uttech.
Solo l’arpeggio delicato di “Comes Indiana Through The Smoke” sembra riportare indietro la memoria, attingendo direttamente alle atmosfere di Down The River Of Golden Dreams, con l’eco della tromba a sottolineare il dipanarsi di una delle melodie più cristalline dell’album. È la tromba del nonno di Sheff, veterano della Seconda Guerra Mondiale, preside di una scuola e (non ultimo) provetto musicista jazz. Il brano è dedicato proprio a lui, al suo addio e al fantasma della corazzata USS Indiana, la nave su cui aveva prestato servizio nel Pacifico, che come in un sogno riemerge dalla nebbia per venire a traghettarlo nel grande mistero che sta dall’altra parte.

Il momento in apparenza più spigliato del disco, “The Industry”, è anche paradossalmente quello più amaro e personale di tutti: “The cheaper that the music starts to get/ It’s like they’re trying to make us cheap along with it”, confessa Sheff osservando con un misto di disincanto e frustrazione lo stato del mondo della musica. Dello slancio di un tempo sembra restare solo l’aritmetica dei voti di Pitchfork: “Do you remember, baby, back in ’96?/ When some record was enough to make you raise your fist?/ When some singer ’d make you sure that you exist?”.
“Just let go”, è la risposta sullo sfumare del passo flessuoso di “The Industry”. Lasciare andare il passato, lasciare andare chi hai amato e chi ti ha ingannato, lasciare andare tutto quello che imprigiona la vita. Abbandonare la paura. E, finalmente, ritrovare il proprio posto nel mondo. “I’m not scared to die as long as I know that the universe has something really to do with me”.

Now I'm ready to withdraw

Nothing SpecialGli Okkervil River tornano ad affacciarsi nel 2018 con un titolo che promette mirabolanti capriole in technicolor: In The Rainbow Rain. La sensazione è che Sheff l'abbia pensato come l'opera definitiva della sua creatura, una roboante summa dell'intera carriera con cui rinnegarsi per superarsi. Cerca di farlo non con l'ennesimo concept, ma con una semplice raccolta di canzoni, pop a tutto tondo nei presupposti e nella messa in atto. Purtroppo, questa spasmodica smania di grandeur finisce col soffocare le sue senz'altro buone intenzioni, paludando delle composizioni nel complesso degne con massicci paramenti sintetici.
Ogni brano, masterizzato a volumi da lite condominiale, trabocca di strumenti, timbri, effetti, in una torta così stratificata e zuccherina da stomacare dopo due bocconi, sorta di Aor aggiornato all'epoca dei compressori plugin. Intendiamoci: l'epica non è certo materia estranea alle narrazioni dense degli Okkervil River e ai loro crescendo impetuosi, ma qui si parla di pura magniloquenza. Siamo lontani come non mai dal folk-rock appassionato che ha fatto innamorare molti: la lancetta è inchiodata sugli anni 80, dirottando certo scivoloso macho-pop statunitense (sì, proprio quello dei Toto o dei Boston) dentro la più soffice polverina glitter britannica (SupertrampPrefab Sprout, Simple Minds) e un asso piglia tutto come i Fleetwood Mac a tenere la palla al centro.


Dal canto loro i testi, trasudanti fatalismo, rimpianti e paure, risultano per lo più opachi, con pochi guizzi, dominati dalla stanchezza a tratti autoironica che vorrebbero comunicare. A convincere (quasi) sempre è invece la voce, che dismette le abituali pose da Robert Smith asmatico per avvolgersi in un vellutato falsetto che, in diverse dosi, fu di Elvis CostelloMark Hollis e addirittura Antony, ma con una pigrizia e una fragilità tali da creare un contrasto quasi patetico con il testosterone scalpitante delle basi strumentali, come se il cantante fosse il primo a sentirsi a disagio lì in mezzo: l'impressione di un'autoparodia nemmeno troppo ben orchestrata si fa spesso così insistente da imbarazzare. C'è ben poca magia in lavoro così meticolosamente calcolato, e chiuderlo dichiarando di "credere nell'amore" sposta di poco l'asticella della credibilità.

Non è un caso, allora, che nel 2022 il ritorno di Will Sheff si presenti per la prima volta senza il nome degli Okkervil River in copertina. E il titolo del suo primo album solista non poteva essere che Nothing Special. Ovvero il falò dell’egocentrismo, della presunzione e di tutto il risentimento verso il mondo che ne deriva.
Tutto parte dal dialogo con un’ombra. L’ombra di un vecchio amico, di un compagno di viaggio: Travis Nelsen, il batterista degli Okkervil River nel periodo d’oro del gruppo, scomparso nella primavera del 2020. Le loro strade si erano separate da tempo, ma quello che li aveva legati era rimasto vivo, nascosto da qualche parte. Il brano che dà il titolo al disco è dedicato a lui, e a quello che Sheff ha imparato dal passato. È una favola in punta di arpeggi, raccontata alla maniera di Sufjan Stevens: “It’s once upon a time/ I rode with a friend of mine/ Side by side on the conquerors’ route”. Parla del desiderio che vibra nella giovinezza, parla della sua sconfitta e della sua metamorfosi. Soprattutto, parla della libertà di saper lasciar andare le cose: “It’s time to say it’s done/ I’m not getting what I want/ When I’ve lost it, I’m finally free/ To be nothing special”.
“È stato molto complicato per me affrontare il lutto”, confessa Sheff, “perché era anche il lutto per lo stupido sogno che condividevamo. Era davvero qualcosa di dolce, ingenuo, infantile, splendido e distruttivo. Avevo bisogno che fosse qualcosa a cui non ero più interessato”. Significativamente, a sostenerlo nel brano c'è anche la voce di Jonathan Meiburg.

Negli otto episodi di Nothing Special, Sheff sembra voler risalire il corso del fiume Okkervil: “The Spiral Season”, con i suoi slanci appassionati e corali, potrebbe appartenere a The Stage Names o a The Silver Gymnasium; nel piano sognante che culla la melodia di “In The Thick Of It” si sentono gli echi delle ballate di Black Sheep Boy, con un andamento coheniano accompagnato dalla voce di Cassandra Jenkins; le astrazioni atmosferiche di brani come “Estrangement Zone” e “Holy Man” portano il segno delle esplorazioni di Away.
In fondo, proprio Away (con la sua “Okkervil River R.I.P.”) era l’anticipo della scelta solista che Nothing Special porta a compimento. Dimenticato il passo falso di In The Rainbow Rain, Sheff torna a dare voce alla sua anima più cantautorale, senza risparmiare qualche staffilata alle sue stesse derive (““You give me a dollar/ I’ll do some or all/ Of my perfectly middlebrow blues”, ironizza in “In The Thick Of It”). Accanto a lui c’è un trio fisso di collaboratori (battezzato Dirty Shitty Dirt Boys), che non si limita a fare da backing band, ma firma anche diversi brani del disco insieme a Sheff: Christian Lee Hutson (forse il songwriter della generazione millennial che ha ereditato più di tutti lo spirito degli artisti indie di inizio Duemila), Benjamin Lazar Davis e Will Graefe (entrambi già presenti nell’ultima incarnazione degli Okkervil River).

Nelle atmosfere dell’album c’è il riflesso della California, dove Sheff si è trasferito dopo avere abbandonato New York. Non però la California assolata dei panorami di Instagram, ma una California nostalgica e autunnale, più consona a un figlio del Midwest come Sheff. Che infatti racconta di aver concepito le sue nuove canzoni aggirandosi tra le lapidi dell’Hollywood Forever Cemetery di Los Angeles, come si vede anche nel video di “In The Thick Of It”.
Tra le torsioni abrasive di “Like The Last Time” e i panneggi eterei di “Marathon Girl”, l’epilogo di “Evidence” si distende morbidamente in cerca di una qualche segreta forma di consapevolezza universale: “Anything is full of everything/ No coincidence, enter it in evidence”. Sullo sfondo c’è un riverbero di fiati, mentre il canto si fa ipnotico come una litania. Ogni respiro del mondo rivela la sua unicità, sembra suggerire Sheff con la sua aura più mistica, quando si abbandona la convinzione di essere l’unica cosa speciale al centro della realtà. “The world’s holding you realer and realer/ Realer and realer, you sweet, sweet feeler”.

La tensione emotiva di Will Sheff e degli Okkervil River continua a parlare una lingua inconfondibile: densa di suggestioni letterarie, consapevole della tradizione a cui appartiene, pronta alle aperture indie, si è inserita con tutto l’impeto della sua personalità nella traccia di Bright Eyes, Decemberists e Arcade Fire, coniugando intimismo e aggressività in uno stream of consciousness palpitante e viscerale. Sfuggiti alla trappola della bulimia compositiva di molti songwriter della loro generazione, gli Okkervil River hanno preferito concentrarsi sulle sfumature di una trama musicale sempre più complessa. Ancora oggi, ogni nota del loro canzoniere porta con sé una promessa che riecheggia quella sussurrata tra gli ultimi versi di “Get Big”: “Once we get to the end of this song, then another will begin”.


Contributi di Ossydiana Speri ("In The Rainbow Rain")

Okkervil River

Discografia

Bedroom (Ep, self released, 1998)

6

Stars Too Small To Use (Ep, Jound, 2000)

6,5

Don't Fall In Love With Everyone You See (Jagjaguwar, 2002)

7

Julie Doiron/ Okkervil River (Acuarela, 2003)

6

Down The River Of Golden Dreams (Jagjaguwar, 2003)

8

Sleep And Wake Up Songs (Ep, Jagjaguwar, 2004)

7

Black Sheep Boy (Jagjaguwar, 2005)

7,5

Black Sheep Boy Appendix (Ep, Jagjaguwar, 2005)

7

Overboard & Down (Ep, Low Transit, 2006)

7

The Stage Names (Jagjaguwar, 2007)

7,5

Golden Opportunities (Ep, self released, 2007)

6,5

The Stand Ins (Jagjaguwar, 2008)

7

I Am Very Far (Jagjaguwar, 2011)

6,5

Golden Opportunities 2 (Ep, self released, 2011)

6,5

The Silver Gymnasium (ATO, 2013)

7

Away (ATO, 2016)

7,5

In The Rainbow Rain (ATO, 2018)

6

WILL SHEFF

Nothing Special (ATO, 2022)

7

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Red
(da "Don't Fall In Love With Everyone You See", 2002)
It Ends With A Fall
(da "Down The River Of Golden Dreams", 2003)
For Real
(da "Black Sheep Boy", 2005)
Black
(live, da "Black Sheep Boy", 2005)
Our Life Is Not A Movie Or Maybe
(da "The Stage Names", 2007)
A Girl In Port
(live, da "The Stage Names", 2007)
Lost Coastlines
(da "The Stand Ins", 2008)
Starry Stairs
(live, da "The Stand Ins", 2008)
Wake And Be Fine
(da "I Am Very Far", 2011)
 
We Need A Myth
(live, da "I Am Very Far", 2011)
 
It Was My Season
(da "The Silver Gymnasium", 2013)
Down Down The Deep River
(live, da "The Silver Gymnasium", 2013)
Okkervil River R.I.P.
(da "Away", 2016)
The Industry
(da "Away", 2016)
Famous Tracheotomies
(da "In The Rainbow Rain", 2018)

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