Pontiak

Pontiak

I signori della prateria

La radice americana centrifugata in salsa noise e servita fresca senza nostalgie. Un potente mix di blues, psichedelia e hard-rock, per un trio a conduzione rigorosamente familiare. Il ritratto dei tre fratelli Carney, che lavorano e vivono nella stessa fattoria in Virginia, e suonano nella stessa band

di Claudio Lancia

Quella dei Pontiak è una saga familiare: tre fratelli nati in Virginia tra il '78 e l'82 e tuttora lì residenti. Il più grande è Jennings e si occupa di basso e organo, quello di mezzo è Van, canta e suona la chitarra, il più giovane è Lain, ed è responsabile dei suoni della batteria. Di cognome fanno Carney e in pochi anni hanno collezionato un'invidiabile serie di pregiatissime pubblicazioni. L'esordio avviene nel 2005, dopo che i tre fratelli avevano acquisito svariate esperienze in altri progetti, in particolare nell'area di Baltimora. Da subito l'orientamento è verso un mix di psichedelia tardo sixties, acid rock, stoner, lievi radici american folk, qualche digressione prog, una spruzzatina di metal e isolati spunti post-rock. I Pontiak così vanno a sistemarsi stilisticamente all'interno di quella nidiata neo-psych che vede in Black Mountain, Black Angels e Dead Meadow le compagini inizialmente più fortunate. Suoni del passato triturati in chiave modernista, la radice americana centrifugata in salsa noise, la collezione di dischi degli ultimi cinquant'anni messa in un gigantesco frullatore e servita fresca senza alcuna nostalgia, ma con l'intento di creare una nuova via musicale. Una via che prende sì spunto dal passato, ma in maniera visionaria, guardando al futuro con orgoglio.

Nello studio casalingo, allestito presso la fattoria di famiglia, vengono concepiti il primo Ep White Buffalo e l'album d'esordio Valley Of Cats, edito nel 2006, entrambi pubblicati attraverso l'etichetta di famiglia Fireproof Records. Si tratta di lavori ancora in parte acerbi, nei quali iniziano però a delinearsi in maniera chiara le coordinate entro le quali la band si muoverà in futuro. I tre fratelli da subito caricano strumenti e bagagli nel proverbiale pullmino e iniziano a portare in giro per gli States le proprie composizioni, prima negli stati limitrofi, poi allargandosi gradualmente.

Nel 2007, sempre su Fireproof Records, con una tiratura di cinquecento copie, esce Sun On Sun, l'album che consentirà il passaggio alla Thrill Jockey, che ripubblicherà in seguito il lavoro. Tecnica superba, zero ostentazione di pose hard‘n'heavy, suoni granitici con furiosi assoli di chitarra, cambi continui di toni e volumi che squarciano il variegato tessuto ritmico, echi di Black Sabbath e Doors che non intaccano l'originalità del risultato, la voce di Van intensa, ora cupa e sottilmente malinconica, ora energica e rabbiosa. È un disco alieno e familiare nello stesso istante, a cominciare da "Skell Skull", un criptico e possente rock ricco di riff ossessivi alla Kyuss, cori gotici e squarci di psichedelia che si modellano su una melodia minimale. La successiva "Swell" rallenta e sospende l'atmosfera attraverso suoni metallici e spettrali accordi di chitarra, frantumandosi contro la struttura rock'n'boogie di "White Hands". Ma il cuore pulsante dell'album sono i quattro brani successivi, in bilico tra blues, psichedelia e post-rock. "White Mice" parte con due note di blues ripetute all'infinito, poi si trasforma in un mix di funky e southern-rock, nove minuti di psichedelia, garage-blues per "Sun On Sun", accompagnati da un tono più dimesso della voce e una deliziosa sequenza di accordi di tastiere e hammond dall'effetto lisergico e sognante. "Tell Me About", tra incursioni blues e organo alla Ray Manzarek, conduce l'ascoltatore verso il delirio, con un testo visionario e angosciante, mentre la conclusiva "The Brush Burned Fast" è un vero capolavoro, una chitarra acustica e la voce ancora mutevole ricamano note preziose, mentre spettrali inserti sonori annullano l‘apparente solarità del brano. Attraverso Sun On Sun i Pontiak confermano di essere molto più di una promessa: non suonano una musica nuova, ma lo fanno come pochi altri hanno fatto prima, mostrando di avere le idee chiare su come sviluppare questo meraviglioso impasto sonoro.

Pochi mesi dopo è il momento di uno split condiviso con gli amici di Baltimora Arbouretum. L'Ep si intitola Kale e contiene tre cover di John Cale (da cui il titolo). Si tratta del primo lavoro pubblicato direttamente per la Thrill Jockey, che da quel momento sarà la loro etichetta.

Ma è il 2009 l'anno nel quale i Pontiak iniziano ad allargare seriamente il proprio circuito. Il merito è da attribuire a Maker, pronto a riproporre il collaudato mix di rock, blues, psichedelia e hard-rock, ma delineando un'atmosfera più oscura e vigorosa, che aumenta le caratteristiche stoner del sound, proiettandolo verso soluzioni temerarie. I fratelli Carney si confermano ottimi musicisti, eccellenti compositori, ma anche bravi vocalist, capaci di sottolineare il mistero delle liriche di Van Carney, confermando (migliorandolo) tutto ciò che Sun on Sun aveva promesso. Costruito intorno a una lunga composizione centrale che supera i quattordici minuti (la title track, incredibile sequenza di riff, armonie, pause che trasportano l'ascoltatore dalla furia alla poesia fino alla narcosi emotiva), Maker è costituito da brevi composizioni di tre o quattro minuti, che si incastrano in un unico flusso privo di cedimenti emotivi.
Oltre alla title track, che da sola vale il prezzo del disco, svettano "Laywayed" e "Honey" che, tra sonorità hard-rock e psichedelia Nuggets, definiscono il versante più stoner della band. "Blood Pride" e "Aasstteerr" pagano il giusto tributo alle origini musicali dei Pontiak, sfoderando accordi blues e rock senza incertezze.
È sorprendente come i due episodi più brevi siano così intensi: "Heat Pleasure" è oscura, plumbea, e sommerge l'ascoltatore con suoni hard a cascata e squarci taglienti di noise, mentre i 73 secondi di "Headless Conference" sono pura follia sonora, che condensa furore, sgomento e poesia noir.
Mai ripetitivo, l'album offre sfaccettature poliedriche, così in "Aestival" il gruppo sposa il lato tenebroso di Nick Cave e la poesia di Bill Callahan inserendo nella delicata ballad acustica suoni estatici e furenti che sembrano uscire dalle pagine più rock dei Pink Floyd. Ancora tre brani per perfezionare il viaggio sonoro dei Pontiak che omaggiano gli anni 70 in "Wild Knife Night Fight", poi esibiscono suoni alieni ed energici in "Wax Worship", per regalarci infine un gioiello di gothic-rock attraverso una ballata, "Seminal Shining", che farebbe impallidire i Current 93 per il suo magico incastro tra acustico e gotico.

Sempre nel 2009 viene pubblicato (solo in vinile, in mille copie), Sea Voids, che subito in apertura stabilisce nuove coordinate, ovvero l'esposizione di un suono più diretto e meno pretenzioso. L'album, registrato in poco più di due settimane, permette al gruppo di contaminare le sonorità espresse in passato senza perdere la propria identità. Strutturato in brevi jam-session, Sea Voids scivola da toni robusti alla Jimi Hendrix ("Suzerain") ai melanconici frammenti shoegaze di "World Wide Prine". I Pontiak trovano uno sbocco più accessibile per il pubblico, vincendo il confronto con altri protagonisti della scena stoner-rock.
L'ispirazione che anima la delicata folk-song "Life And Coral" e la trance psichedelica di "The Spiritual Nurse" non rinnega le moderne inflessioni del rock americano, virando verso Thin White Rope e Codeine.
Solo trenta minuti di musica, ma capaci di dimostrare quanto i fratelli Carney siano in grado di spaziare dai versanti più robusti del rock (resi sempre con grande personalità), alle lande più delicate del folk, senza mai perdere d'impatto ("It's The Life").

Nel 2010 si alza ancora l'asticella grazie a Living, un album fondamentalmente sperimentale nei suoni, con dentro una manciata di canzoni straordinarie. Tutto è strutturato e minuziosamente pianificato senza ricorrere ad alcun tipo di furbizia spicciola: si canta soltanto quando è strettamente necessario, senza preoccuparsi del fatto che diverse tracce restino interamente strumentali. I ragazzi stavolta hanno lavorato per sottrazione, ma la scorza è composta da un magma experimental noise, come ben esprime "Lemon Day". Ad un ascolto attento diviene evidente una forte matrice di rock-blues elettrico (facilmente rintracciabile in brani quali "Young", "Algiers By Day" o "Thousands Citrus", non troppo distanti dalle prime schitarrate dei Black Mountain), e psych ("Second Sun", la più lunga "Pacific", più vicine ai migliori Black Angels). I fratelli Carney si dilettano a costruire carri armati ritmici con tendenza al rumorismo (lo strumentale "And By Night"), giocano a miscelare suoni, effetti e droni, (come nel caso di "Original Vestal"), oppure tentano la strada della ballata obliqua ma vagamente orecchiabile, vincendo la sfida sia in territori elettrici ("Beach", "This Is Living"), che acustici ("Forms Of The", i giri che caratterizzano la conclusiva "Virgin Guest").
Living lancia definitivamente i Pontiak nell'olimpo delle migliori band neo-psych del nuovo millennio: fra hard-rock seventies e post-rock, il trio della Virginia riesce nell'intento di spostare l'asticella verso l'alto, posizionandosi a un passo dalla perfezione.

Pochi mesi più tardi, a 2011 inoltrato, i fratelli Carney rimescolano il mazzo per presentare un disco breve (meno di mezz'ora di durata), misurato, ma sorprendente se paragonato alle loro precedenti opere. La band scrive Comecrudos accampata nel cratere di un vecchio vulcano lungo la Route 385, sulle sponde del Rio Grande. Il disco, stampato in sole mille copie come già era avvenuto per Sea Voids, viene immaginato come la colonna sonora di un viaggio in automobile tra le polverose strade che separano l'Arizona e il Texas. Messi da parte distorsori e overdrive, i Pontiak distanziano le sonorità heavy intonando una marcia funerea annunciata da una tromba ripetitiva e da un lungo bordone preparatorio ("Part I"). All'arpeggio folk di "Part II", supportato da un basso profondo e da un organetto celestiale, segue una ballata desertica ("Part III") che cresce adagio sullo stesso ritmo marziale grazie a fiati e a trame psichedeliche di chitarra, creando un anello di congiunzione con lo stoner-rock che la band ha ampiamente dimostrato di padroneggiare in passato. Chiude il disco "Part IV", trascinata da una batteria spazzolata e da un organo sulle cui note gli accordi ultrariverberati di chitarra creano volute mistiche che aggiornano il rock visionario del "Live At Pompei" dei Pink Floyd. Comecrudos è suggestivo e rispetta la psichedelia anni 70 senza essere troppo derivativo, è un peccato che duri così poco, ma il suo intento è soprattutto quello di mantenere occupato il mercato fino all'opera successiva.

Ad aprile 2012 viene pubblicato Echo Ono, il disco perfetto, con dentro nove tracce sensazionali, a partire dall'iniziale "Lions Of Least", nobile riassunto in meno di tre minuti di decenni di hard-rock in salsa psichedelica, un brano in grado di sprigionare la stessa forza dirompente di una "Immigrant Song", tanto per citare un altro storico incipit clamoroso. Echo Ono è l'album giusto per rendere felici tutti coloro che credono ancora nella potenza salvifica del rock, e ha la forza di determinare nuovi punti di riferimento nell'area area hard-psych-rock contemporanea. La bontà del lavoro del trio americano si estrinseca nuovamente in episodi che esplorano i mille rivoli della psichedelia, e lo fanno con il non comune dono della sintesi, troppo spesso assente in lavori di questo tipo. Dentro Echo Ono ci sono i Black Mountain e Neil Young (ascoltate un po' "Silver Shadow"), i Sonic Youth e i Black Angels, i Grateful Dead (riferimento obbligato quando si parla di psichedelia, date un'occhiata al viaggio lisergico di "Royal Colors") e i Kyuss/Queens Of The Stone Age (aromi di "Desert Sessions" sono un po' ovunque), gli Arbouretum e mille altri che potrete divertirvi a scovare. Eppure, Echo Ono suona inconfondibilmente come un disco dei Pontiak, perché i signori della prateria hanno creato un sound che ormai li contraddistingue, rendendoli distinguibili da qualsiasi altra proposta coeva. Quando fanno americana si confermano molto più efficaci di qualsiasi cantautore barbuto, quando propongono hard-rock si posizionano all'altezza delle migliori compagini del passato, quando si mettono in testa di creare rumorismi assortiti si impongono fra i migliori della scena, vedi il caso di "Panoptica", che chiude il disco con oltre sei minuti di garage noise al fulmicotone e un attacco massivo che non si sentiva dai Trail Of Dead di "Source, Tags & Codes". In poco più di trenta minuti, i Pontiak snocciolano tremende frustate, ma anche dolci rotondità: sanno maltrattare l'ascoltatore con scariche elettriche più ("Left With Lights") o meno ("Across The Steppe", con un basso sontuoso) fragorose, ma anche giocare di fioretto con la calma che emerge in brani quali "The Expanding Sky" o "Stay Out, With A Sight", nei quali resta comunque un'elettricità pronta a brillare sottopelle. Oppure uniscono i due aspetti del loro carattere in momenti (è il caso di "The North Coast") plasmati su quello che ormai possiamo ritenere un inconfondibile marchio di fabbrica.

Gli infaticabili tre fratelli Carney tornano a gennaio 2014 con Innocence, un nuovo lavoro denso di riff granitici, hard psichedelia e brillanti ballad. L'inizio è scoppiettante e turbolento: la title track è un’esplosione di rabbia iconoclasta condensata in poco più di due minuti, “Lack Lustre Rush” non lesina in potenza elettrica, ed il trittico iper abrasivo si chiude con la martellante “Ghosts”. Una partenza diretta e decisa, che mostra l’intento di voler spostare l’acido hard-psych, tipico trademark della band, verso territori quasi hardcore. Vengono poi posizionate oasi di distensione fra le pieghe della languida “It’s The Greatest”, e sulle note delle due morbide ballad consecutive “Noble Heads” e “Wildfires”. Un’elegante sosta a metà disco utile a ricaricare le batterie ed a far riposare le orecchie prima che i chitarroni tornino a macinare riff assassini, entrando in territori decisamene stoner con la granitica “Surrounded By Diamonds”, ottima anticipatrice dei phaser di “Beings Of The Rarest”, pronti a spazzare via tutto. 
L’andamento saltellante di “Shining” apre la strada verso la brillantezza acusticamente pop di “Darkness Is Coming”, che si schiude sull’epilogo firmato dal giro di basso assassino di “We’ve Got It Wrong”. Innocence è un disco bifronte che, se da un lato spinge con prepotenza sul gas, sparando al massimo amplificatori e distorsori, dall’altro intende mantenere il contatto con certe radici melodicamente elettroacustiche. E la qualità dei pezzi firmati dal trio americano (come al solito) si conferma su livelli elevatissimi.

I fratelli Carney decidono poi di ampliare le attività del podere di famiglia attraverso l’ingresso ufficiale nel mondo delle birre artigianali con il marchio Pen Druid: fra una IPA e una doppelbockDialectic Of Ignorance, pubblicato a marzo 2017, smussa la componente heavy che caratterizzava alcuni frangenti dei dischi immediatamente precedenti, imponendosi come il lavoro più psichedelico realizzato dal trio. Lasciati da parte non solo gli arrembaggi di “Lions Of Least” e “Ghosts” ma anche il versante acustico Neil Young-styleDialectic Of Ignorance delinea un percorso compatto e omogeneo, fermamente sintonizzato sulle frequenze del miglior psych-rock contemporaneo, quello che li mette nella stesso squadrone in compagnia di Black Mountain, Wooden Shjips, Black Angels, Brian Jonstown Massacre e Arbouretum. Le chitarre elettriche perse per le praterie di “Easy Does it” fissano subito un mood fatto di polvere e bourbon, di tempo che scorre senza fretta, di cadenze controllate, di bpm contenuti, di movenze quasi narcotiche, con qualche accento Southern e di tanto in tanto la zampatona fuzz.
Le prime due tracce contagiano a macchia d’olio l’intero lavoro e preparano il campo per “Tomorrow Is Forgetting”, che prende i Queens Of The Stone Age dei primi due album, ci appiccica sopra un’instancabile ride che pare rubato a Stewart Copeland, ci alterna le precise rullate di Lain Carney, e ci schiaffa pure il solo di chitarra sul finale: è il momento topico del disco. Dialectic Of Ignorance è un album meno roccioso rispetto ad altri realizzati in passato, ma ha la capacità di scorrere senza presentare alcun cedimento, convincente sia quando mostra compattezza nella parte centrale, sia quando gioca qualche carta a sorpresa nel finale, come l’accessibilità di “Dirtbags”, il riff sabbathiano di “Herb Is My Next Door Neighboor” e l’intro ai confini col noise di “We’ve Fucked This Up”, altro pezzo gigantesco. La musica fluisce uniforme, quasi fosse stata concepita durante una sola infinita jam notturna, e invece pare trattarsi del lavoro di più lunga gestazione dei tre fratelli, sempre immersi nell’eterea comodità dello studio casalingo, fra un giro di chitarra assassino e una nuova pale ale da testare. Difficile poter affermare ora se si tratta del loro disco più bello: di sicuro sancisce un’ulteriore conferma circa la grande qualità complessiva di una discografia fra le migliori dell’intero panorama psych-rock del nuovo millennio.

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Sun On Sun", "Maker", "Sea Void") e Andrea Vascellari ("Comecrudos")

Pontiak

Discografia

White Buffalo (Fireproof Records, 2005)

Valley Of Cats (Fireproof Records, 2006)

Sun On Sun (Fireproof Records, 2007; Thrill Jockey, 2008)

7,5

Kale (with Arbouretum, Thrill Jockey, 2008)

7

Maker (Thrill Jockey, 2009)

7,5

Sea Voids (Thrill Jockey, 2009)6,5
Living (Thrill Jockey, 2010)

7,5

Comecrudos (Ep, Thrill Jockey, 2011)

7

Echo Ono (Thrill Jockey, 2012)

8

Innocence (Thrill Jockey, 2014)

7

Dialectic Of Ignorance (Thrill Jockey, 2017)

7,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Pontiak su OndaRock

Pontiak sul web

Sito ufficiale
Myspace
Testi