Spain

Spain

Credevo fosse amore

Quattro dischi in sedici anni, in bilico fra gli umori oscuri del blues e del jazz, torpori slowcore e morbidi approdi cantautoriali. Ripercorriamo le vicende artistiche di Josh Haden e della sua fragile creatura, gli Spain, una delle band più ingiustamente sottovalutate del sottobosco indipendente a stelle e strisce

di Marco Florio

La storia della musica è sempre stata piuttosto severa con i figli d'arte: a prevalere il più delle volte è lo scetticismo, spesso peraltro giustificato, di chi vede in loro dei "raccomandati" dal nome altisonante o piuttosto semplici epigoni con una minima dose del talento finito in dote al genitore illustre. Josh Haden rappresenta la classica eccezione alla regola: figlio del contrabbassista Charlie, tra i più importanti musicisti jazz contemporanei e celebre soprattutto per innumerevoli e prestigiose collaborazioni (da Art Pepper a Ornette Coleman e Keith Jarrett), Josh si è sempre tenuto a debita distanza da certi meccanismi tipici dello star system, centellinando apparizioni, interviste e uscite discografiche, sia come solista che come membro dei Treacherous Jaywalkers, misconosciuta formazione attiva all'inizio degli anni 90, che suona un ibrido acerbo tra Jimi Hendrix e Neil Young, e soprattutto degli Spain, il gruppo che gli ha dato un po', ma solo un po', della meritata celebrità.

L'esordio discografico della band, formatasi a Los Angeles nel 1993, risale a due anni dopo, quando per la Restless (la stessa di gruppi come Flaming Lips, Giant Sand e Band Of Susans) esce The Blue Moods Of Spain, un disco che fin dal titolo e dalla splendida copertina, in perfetto stile Blue Note, svela un'essenza intima e minimalista, da tragica saga sentimentale.
I brani sono piuttosto lunghi e debitori in egual misura al (cool)jazz, al blues e a certe sfumature da noir in bianco e nero, ma anche agli andamenti rallentati di gruppi come Galaxie 500 e soprattutto Codeine, dai quali però si discostano in particolare per le scelte strumentali, prevalentemente scarne e acustiche nel caso degli Spain, e per un mood di fondo che privilegia una malinconia introversa da jazz-club al senso di desolazione "cosmica" che è tratto tipico di molte formazioni del cosiddetto slow-core, di cui proprio i Codeine sono considerati gli inventori.
Il tema ricorrente del disco è l'amore, per lo più inteso nell'accezione di perdita e del senso di colpa che spesso l'accompagna. Di fronte al grande mistero della sofferenza e al senso di rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato (per colpe o accadimenti che però Josh Haden, autore di tutti i testi del gruppo, non sembra mai attribuire al fato crudele o a divinità insensibili), all'uomo non resta che la resa al cospetto dei propri peccati ("Untitled #1", "I Lied") o la tenera invocazione del perdono divino (come nel gospel commovente di "Spiritual").
Il talento di Haden e la grande intesa tra i membri della band si esprimono al massimo in "Ray Of Light", un blues straordinario in cui si fondono le intimità da crooner alla Tom Waits, con ripetuti e magnifici intermezzi di chitarra elettrica e della tromba degna del Miles Davis contemplativo di "Kind Of Blue", mentre nella lunghissima "World Of Blue" riecheggiano le accorate invocazioni dei Red House Painters di "Mother", rese con uno stampo orchestrale alla Rachel's.

Segnali di svolta si percepiscono già sul finire del 1997, quando il regista tedesco Wim Wenders chiede alla band di partecipare alla colonna sonora del film "The End Of Violence" ("Crimini Invisibili" in Italia): gli Spain, in ottima compagnia, partecipano con "Every Time I Try", brano molto più solare di tutti quelli che componevano "The Blue Moods" e che anticipa il nuovo corso della band.
Con She Haunts My Dreams, uscito nel 1999 sempre per la Restless Records, gli Spain mettono da parte il piglio colto del jazz e la nera sensualità del blues per un suono assai più rassicurante e tradizionale, che si situa nella classica tradizione cantautoriale americana fatta soprattutto di folk e di country. Anche i testi sembrano risentire del mutamento stilistico: la sofferta spiritualità del primo disco lascia il posto a languide elegie e a sequenze liriche assai meno ricercate che in passato, di un'innocenza contemplativa talvolta quasi disarmante ("There must be a way/ To feel like I used to feel before/ Before it all went wrong"). Ne risulta una collezione di ballate sognanti e mediamente ben riuscite ("Nobody Has To Know" e la già citata "Everytime I Try" su tutte), con punte di vistoso romanticismo, come in "It's All Over Now" e soprattutto in "Easy Lover", brano, segnato da un fastoso e struggente arrangiamento d'archi, che migliaia di cantautori e gruppi infinitamente più celebri si sogneranno di scrivere per tutta la vita.

La nuova tendenza degli Spain verrà in parte ribadita nelle dieci tracce di I Believe, disco uscito nel 2001, ancora per la Restless Records. Dei tre album pubblicati dalla band, I Believe è probabilmente il meno riuscito, forse perché le canzoni sembrano indugiare in un limbo che sta a metà tra il garbo cantautoriale di She Haunts My Dreams e le umbratili ricercatezze dell'esordio. Alcuni brani non convincono, e sono soprattutto quelli in cui gli Spain tentano la strada della ballata elettrica in stile Rem ("She Haunts My Dreams" e "Do You See The Light", in particolare), mentre altrove le canzoni ritrovano lo spleen minimalista e trasognato del primo disco e i risultati si vedono: splendida in tal senso è soprattutto "Oh That Feeling", brano tutto giocato sui sussurri dolenti di Haden ("Yes it was/ That was love/ Don't let it slip away/ Love's there for you to take/ Stop playing these games with fate/ Oh girl before it's too late"), e su una frase di pianoforte elettrico che a tratti sembra evocare il fantasma del Tim Buckley di "Dream Letter".

Da allora, per molti anni, degli Spain si perderanno le tracce. Nel 2003 esce Spirituals - The Best Of Spain, una raccolta dei loro brani più celebri con alcuni inediti live, mentre nel 2007 Josh Haden pubblica il suo primo disco da solista, Devoted, una collezione di canzoni mediamente poco ispirate, che strizzano l'occhio a un certo modernariato soul/r'n'b, come se gli Spain si divertissero a suonare le canzoni di Beck, con risultati a dire il vero non memorabili.
Due anni dopo gli Spain pubblicano (in download gratuito dal loro sito web) "I'm Still Free", il primo inedito dopo molti anni, un brano che non si discosta molto dalle sonorità limpide e sognanti di "I Believe". Viene annunciata la pubblicazione del quarto disco della band.

A dicembre 2010 invece risale l'uscita di Blue Moods Of Spain: A History, Pt. 1,una raccolta di brani inediti risalenti al periodo precedente la pubblicazione di The Blue Moods Of Spain (ma che con esso hanno in verità ben poco in comune) e che include anche una canzone dei Treacherous Jaywalkers, la prima band di Josh Haden. Il secondo volume esce l'anno successivo.

Ma per il ritorno vero e proprio bisognerà attendere il 2012, quando vede la luce The Soul Of Spain, album che riprende un discorso mai interrotto, tanto in termini di tematiche quanto di attitudine sonora. Non per questo si tratta di un disco "datato", ancorché pienamente collocato nel classico solco della band, ad eccezione di due soli pezzi dall'inedito nervosismo blues elettrico. Per il resto, il lavoro offre per lunghi tratti la confortevole sensazione di ritrovare modalità espressive familiari, in ballate narcolettiche come "Falling" e "All I Can Give", nelle tante eleganti melodie di pianoforte che abbracciano il soffuso cantato di Haden in malinconiche atmosfere da camera e soprattutto nei testi, che affrontano con naturalezza gli abituali temi della fede e dell'amore, in qualche caso persino sovrapposti.
La semplicità narrativa e la schiettezza sentimentale sono, ancora una volta, i punti forti della poetica di Haden, ancora capace di colpire al cuore con il romanticismo degli archi e di poche ma sentite parole.
Tanto basta per scongiurare le diffidenze che solitamente accompagnano gli ormai frequenti ritorni di band che avevano segnato gli anni Novanta. Quello degli Spain fa storia a sé, in quanto naturale seguito di un percorso stilistico giunto senza fretta alcuna a nuova, spontanea maturazione.

Josh Haden pare prenderci gusto. Con un disco e un paio di tournée di altissimo profilo, i suoi Spain 2.0 hanno detto chiaramente che non ha senso parlare di reunion, nel loro caso, quanto di nuovi slanci dopo un prolungato periodo di pausa. Per dare maggior credito a questo postulato, la band losangelina non si è accontentata degli elogi della critica e ha scelto di registrare relativamente presto il suo quinto Lp, Sargent Place, ad appena due anni dal suo predecessore e a un trimestre scarso dal suggestivo mini con la session radiofonica The Morning Becomes Eclectic.
Le luci soffuse in avvio, il bianco e nero fotografico con le sue sottili spirali di fumo, valgono come ideale prosecuzione per una fascinosa esperienza ormai più che ventennale. Gli Spain non smentiscono la loro proverbiale cura del dettaglio in spazi delimitati ma mai angusti, attraverso un controllo semplicemente prodigioso. Una disarmonica linea di basso detta l’umore, più austero che mai, ma apre anche la ribalta a spazzate e refoli elettrici, per un numero dai vaghi aromi jazz in cui le peculiarità della band tendono a un’essenzialità per nulla cruda. Il misticismo per il quale il quartetto è noto sembra tuttavia aver perso punti, a tutto vantaggio di una concretezza molto più plastica. Ecco però poi “The Fighter”, uno dei numeri da cuore in mano di Josh, con quella sua dolcezza a base di sussurri (contribuisce la sorella Petra, qui anche violinista) che accarezza e infonde calore. Nulla di nuovo o di veramente indimenticabile, al di là di una classe sensazionale che, purtroppo, non fa più notizia.
“Let Your Angel” è un altro passaggio delicatissimo, all’inseguimento di una grazia che torna a toccare corde speciali ma rischia in più di un frangente di trascolorare in noia, risvolto della medaglia che con il gruppo californiano è sempre stato da mettere in conto. L’ascoltatore paziente che abbia magari una certa familiarità con la musica di Josh ne sarà comunque facilmente conquistato, visto che il bernoccolo del mite songwriter occhialuto per le belle canzoni non si è certo riassorbito con l'andare delle stagioni. Haden e i suoi si confermano maestri insuperati dei ritmi blandi, della decantazione, di una pulizia artigiana e un’eleganza che sono autentiche cifre spirituali e non presentano il minimo olezzo di maniera. In questa prospettiva “It Could Be Heaven” ha la consistenza dell’instant classic, la tipica ballad spainiana semplice e ritornante, se possibile ancor più flemmatica delle sue corrispondenti nel passato remoto della band. Tutti gli elementi sono al loro posto, le ombreggiature intrigano a dovere, il sound è impeccabile e ha ripreso a scorrere denso come e più di un tempo, dopo le (convincenti) increspature rock del disco del ritorno, The Soul Of Spain.
Tuttavia qualcosa dell’incanto di questo collettivo parrebbe essersi perso, o appare quantomeno appannato. Nel rinnovato elogio della regolarità e della quiete, la magia cede talvolta il passo al (pur ottimo) mestiere e capita che un senso di assenza, di mancanza, faccia capolino. Nemmeno il bravo Gus Seyffert, già nel supergruppo folk Headless Heroes, riesce a rimediarvi. Non è proprio memorabile il folk-blues ultrarallentato di “From The Dust”, dove i contrasti luministici dei vecchi spiritual sono tradotti in una formula stilizzata e monocorde che è tanto rigorosa quanto poco entusiasmante. Moderazione, disciplina e andature placide non possono che faticare a trovare sponde in chi presti orecchio perché, oltre che del fervore o della freschezza dei primi lavori, brani come questo e come “To Be A Man” sembrano difettare anche dell’asprezza tipica dello slowcore, della sua urgenza. In “You And I” – ospite d’eccezione papà Charlie, contrabbassista di un altro pianeta – la pregevole frugalità del picking mima una pace interiore che è ancora, come sempre, la grande forza di questo straordinario artista, a cavallo tra i generi e refrattario per indole agli incasellamenti di comodo. Che qui opta per una nudità in acustico realmente radicale ma non impressiona, forse, come vorrebbe.
Ben più appassionata e traboccante sentimento la gemma “In My Soul”, a base di minime sfumature emotive cui Haden, al solito, è bravissimo a conferire la necessaria innervatura soul (nomen omen, quindi). Più vivace è pure “Sunday Morning”, episodio che mostra indubbiamente il tiro giusto ma sconfessa l’inclinazione estatica delle parentesi più toccanti del gruppo. C’è insomma meno meraviglia, rimpiazzata da una felice propensione noir che ha aperto, per forza di cose, a tutt’altra presenza in scena, più fisica e corporea. Certo gli Spain rimangono una sorta di benedizione, una realtà più unica che rara da custodire gelosamente e amare in modo incondizionato, anche quando – è il caso di questo Sargent Place – non riescono brillanti come la loro classe richiederrebbe.

Dopo un più che degno Carolina (2016), che riporta il loro stile classico ai livelli dei giorni buoni, Josh sorprende con l'insolito Mandala Brush (2018). E' un oggetto strano, introdotto da una copertina tardo-hippie alla Holy Modal Rounders, titoli intrisi di incensi new age e alcuni teaser con frammenti di sghembi raga gitani, sintomi di una sbornia mistica che travalica la sua pur sempre tenace spiritualità. Tuttavia, se questo colpo di fulmine per un free-folk indianeggiante ad alto tasso psichedelico può sembrare uno scherzo stilistico, il tocco nell'ammaestrarlo si inserisce nella delicatezza agrodolce a cui l'autore ci ha abituato da vent'anni. Inoltre, a fianco di questi frattali speziati troviamo brani perfettamente afferenti all'Haden-pensiero, senza che tra gli uni e gli altri si crei alcun attrito.
La chiave di volta è la vibrante tematica religiosa che aggrega l'intero lavoro, che permette di giustapporre una visione in trance con un'invocazione accorata nello stesso, ipnotico flusso musicale. Poco conta a quale divinità ci si rivolga, sembra suggerire il cantante, l'importante è trovare conforto dalla propria sofferenza.
Un buon sunto di questi intenti è l'iniziale "Maya In The Summer", non a caso selezionata come singolo: la matrice iberica è trasparente, a sorprendere è semmai l’insolita tensione nello sviluppo e l'uso sguaiato della voce, tra Tim Buckley e Pall Jenkins, approdando a un finale dagli accenti morriconiani. Evidentemente a Haden non basta più mormorare i propri tormenti, adesso sente il bisogno di salmodiarli urlando, ma sempre affidandosi alle solite partiture narcolettiche.
Da qui in avanti le due anime convivono con educazione, dandosi di volta in volta il cambio: troveremo quindi "Sugarkane" ossuta come un lamento di Jason Molina sorpassata da "Rooster Cogburn" che potrebbe essere un inedito di Fred Neil, a sua volta seguita dal rotondo country-soul-gospel di "You Bring Me Up" disarcionato dai fumi etnicheggianti di "Tangerine", degna di un Bruce Palmer accompagnato dai Charalambides.
La porzione centrale si stabilizza su vibrazioni più asciutte, tra il mantice mitteleuropeo di "Holly" (con un tocco di Matt Elliott), la tromba notturna di "Folkstone, Kent" e una perla di paesaggismo orizzontale come "Laurel, Clementine", hadeniana al 100%. Ma è proprio quando abbiamo ormai abbassato la guardia che arriva a rapirci l'ineffabile "God Is Love", viaggio astrale un po' Third Ear Band un po' Popol Vuh, sequestrandoci per quasi un quarto d'ora con il suo liquido intreccio di cornamusa, flauto, violino e canto carnatico. La solennità messicana di "The Coming Of The Lord" è un risveglio nel segno di un più familiare minimalismo cristiano, prima della definitiva ascesi Spirit-uale di "Amorphous", da cui si atterra inevitabilmente cambiati.
Spesso accusato di essere troppo uguale a se stesso, con questo affascinante lavoro il caro Josh si è preso una rivincita che, forse, lo ha anche aiutato a fare i conti con i propri demoni più reconditi.


Contributi di Raffaello Russo ("The Soul Of Spain"), Stefano Ferreri ("Sargent Place"), Ossydiana Speri ("Carolina", "Mandala Brush")

Spain

Discografia

SPAIN

The Blue Moods Of Spain (Restless, 1995)

8

She Haunts My Dreams (Restless, 1999)

7

I Believe (Restless, 2001)

6,5

Spirituals - The Best Of Spain (antologia, Rykodisc/Restless, 2003)

Blue Moods Of Spain: A History, Pt. 1 (Diamond Soul, 2010)

Blue Moods Of Spain: A History, Pt. 2 (Diamond Soul, 2011)

The Soul Of Spain (Glitterhouse, 2012)

7

The Morning Becomes Eclectic Session (Glitterhouse, 2013)

6,5

Sargent Place (Glitterhouse, 2014)

6,5

Carolina (Glitterhouse, 2016)

7

Mandala Brush (Glitterhouse, 2018)

7.5

JOSH HADEN

Devoted (Diamond Soul, 2007)

5,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Spain su OndaRock

Speciali