Barclay James Harvest

Live

1974 (Polydor)
progressive rock

I Barclay James Harvest sono il simbolo di un’altra epoca del mercato discografico.
Nacquero sul finire del 1966 a Oldham, nei dintorni di Manchester, per mano di Les Holroyd (basso), John Lees (chitarra), Wolly Wolstenholme (tastiere) e Mel Pritchard (batteria), con i primi tre alternati in veste di voce solista e armonie di sostegno.

Nel 1969 riescono a firmare per la Harvest, etichetta appartenente alla Emi e fondata appositamente per distribuire gruppi appartenenti alla neonata corrente del rock progressivo: in retrospettiva, è impressionante vedere quanto all’epoca i dirigenti di una major riuscissero non solo a interpretare correttamente i tempi, ma si premurassero di foraggiare le nuove direzioni della musica senza la sicurezza di un ritorno.
Non si vuole ovviamente cantare i bei tempi andati e confrontarli a un’eventuale decadenza attuale: le condizioni erano infatti completamente diverse. Il mercato dei 33 giri, ossia degli album, era all’epoca in continua espansione e la situazione tanto favorevole da fornire quella sicurezza necessaria affinché chi è in alto si assuma la responsabilità di scommettere pur senza avere garanzie. A condizioni invertite, i dirigenti di ieri si comporterebbero come quelli di oggi e viceversa.

I Barclay James Harvest registrarono ben quattro album per la Harvest, con un dispendio di fondi impressionante: un produttore di grido (Norman Smith, già al timone per Pink Floyd e Pretty Things), un’intera orchestra a loro disposizione, diretta prima da Robert John Godfrey (futura mente degli Enid) e poi da Martyn Ford (in rampa di lancio per diventare uno dei direttori d’orchestra più richiesti del rock britannico), e ogni ritrovato tecnologico all’epoca disponibile (organo Hammond, sintetizzatori della Moog, almeno due modelli di Mellotron).
Nessuno di questi dischi è mai entrato in classifica, né in Gran Bretagna, né in alcun altro paese. Le spese sono state coperte solo in minima parte, eppure ci sono voluti ben quattro tentativi prima che la Harvest decidesse di terminare i rapporti. In tempi più recenti la cosa sarebbe andata ben diversamente.

Il seguito della storia è ancora più sorprendente: dopo un simile fallimento, eventuali altre case discografiche di alto profilo avrebbero dovuto, a rigor di logica, rifiutare di mettere il quartetto sotto contratto. Invece, firmarono per la Polydor in un batter d’occhio.
Il nuovo album, “Everyone Is Everybody Else” (1974), mostra più attenzione al budget rispetto ai precedenti, rinunciando all’orchestra in favore del Mellotron. Il produttore, Rodger Bain, non riuscì tuttavia a soddisfare la band: abituato a produrre band hard rock come Black Sabbath e Budgie, il suo modus operandi non si abbinava al meglio alle pretese sinfoniche dei Barclay James Harvest.
Anche questo album fallisce commercialmente, ma nel frattempo, a forza di insistere, la band è riuscita crearsi una reputazione a livello concertistico. Quella stessa estate il gruppo suona al Theatre Royal Drury Lane di Londra e allo stadio di Liverpool: da queste due date viene registrato “Live”, doppio vinile che raggiunge i negozi nel novembre del ’74.

La scaletta è incentrata sull’album più recente, da cui sono tratte cinque canzoni su undici, mentre il resto proviene dagli album per la Harvest, con l’eccezione dell’album di debutto, oggi generalmente ritenuto troppo acerbo dai seguaci della band, e giudicato probabilmente alla stessa maniera dai membri all’epoca.
Il disco entra per la prima volta nella classifica britannica, al numero 40. Sono poche migliaia di copie, ma per la band si tratta della prima volta in cui il proprio operato riesce a far ottenere un qualche tipo di ritorno economico a un’etichetta discografica.

A livello di considerazione e di collezionismo la reputazione del disco è oggi eccellente: viene ritenuto dalla maggior parte delle guide il capolavoro della band, nonché un classico del rock progressivo di stampo sinfonico e uno dei dischi essenziali da ascoltare per gli appassionati del Mellotron.
La sua fortuna presso la nicchia degli appassionati poggia curiosamente proprio sulla scarsa reputazione che affligge la band più in generale: i loro primi album sono ritenuti un esempio di prog in ritardo sui tempi, incapace di competere con le strutture complesse di Genesis, Yes o King Crimson, e ricalcante semmai la tendenza al pop barocco dei Moody Blues, che però avevano dalla loro il fatto di aver creato quella formula e di essere stati forse la prima band prog in assoluto. Né le tempistiche, né lo stile giocano insomma a favore dei Barclay James Harvest: “Live” riesce nell’impresa di ribaltare queste opinioni.

La sua scaletta contiene tutti i loro brani di culto e le nuove versioni sono tutte nettamente superiori ai corrispettivi in studio.
Per struttura: diversi brani sono allungati di uno o due minuti e “Medicine Man” è stata del tutto ripensata, con l’incorporazione di una cavalcata strumentale che l’ha portata oltre i dieci minuti, contro i quattro originari.

Per timbriche: nei lavori in studio la band funziona ottimamente quando deve ricreare situazioni dall’afflato pastorale, ma meno quando deve suonare aggressiva. Nell’album “Everyone Is Everybody Else”, per esempio, Bain scelse un suono particolarmente compresso per le chitarre elettriche, la cui grana risulta poco amalgamata al resto dell’arrangiamento, in particolare con gli elementi acustici (la band ha espresso più volte, nel corso degli anni, la sua insoddisfazione per il suono di quel disco).
Dal vivo Lees ha invece scelto di registrate tutte le parti con l’elettrica, togliendo semplicemente il distorsore nelle parti in origine acustiche e ottenendo così una maggiore compattezza: inoltre, anche le parti più muscolari mantengono un tono sinfonico che in studio veniva solitamente spento dalla compressione.

Per creatività: viene spesso affermato che nella storia della musica popolare le limitazioni tecnologiche o economiche abbiano sospinto la creatività di chi si ritrovava a doverle aggirare. È sicuramente vero nel caso dei concerti che i Barclay James Harvest si ritrovarono ad affrontare in quel tour: la Polydor li aveva assoldati, ma avevano perso il sostegno di un’orchestra, il che avrebbe sulla carta tagliato fuori una buona parte del vecchio repertorio.
La band decise allora di sfruttare il Mellotron per rimpiazzarla: una scommessa non facile, dato che per “Medicine Man”, “Galadriel” e “Mockingbird” si trattò di ripensare l’arrangiamento, eliminando le dinamiche orchestrali e sostituendole con un muro di nastri preregistrati che avrebbe potuto appiattirle.
Wolstenholme si dimostrò però uno dei più capaci manipolatori dello strumento che ci fossero in circolazione all’epoca: non solo i nuovi brani non persero in dinamismo, ma guadagnarono in fascino, venendo dotati di un suono più oscuro, capace di stemperare le eventuali leziosità barocche dell’orchestra.
I pezzi restanti, che già contenevano il Mellotron, vennero comunque potenziati, aumentandone i dosaggi: per esempio, se in “After The Day” lo strumento andava e veniva, nella nuova versione la sua presenza è costante.
È inoltre mixato a un volume maggiore: se in alcuni casi aveva la funzione iniziale di un semplice abbellimento, ora si ritrovava a riempire ogni spazio vuoto. Si potrebbe definire “Live” un album che non solo è caratterizzato dalla celebre tastiera, ma ne è addirittura saturo.
Bisogna certo precisare che le parti di Mellotron che si ascoltano su disco non sono quelle che Wolstenholme suonò dal vivo: per questioni tecniche lo strumento non poté essere registrato durante i concerti e venne aggiunto poi in studio, ma ai fini dell’ascolto nulla cambia (e del resto, se dovessimo fare le pulci ai dischi rock dal vivo che sono stati ritoccati in fase produttiva, probabilmente si salverebbero solo i bootleg).

Per tutti questi motivi, “Live” è meritatamente ritenuto il disco con cui la band si scrollò di dosso, almeno momentaneamente, l’etichetta di gruppo di seconda serie, consegnando ai posteri un prodotto che questa volta non temeva i confronti con nessuno dei nomi più blasonati.
Lo si può ascoltare sia mettendo a paragone le sue versioni con quelle in studio, allo scopo di comprendere al meglio il processo di manipolazione alla sua base, sia come un album a sé, rimanendo perfettamente fruibile. Difatti, al di là dell’apprezzamento per la capacità di reimmaginare le canzoni, rimangono alla base le atmosfere del prog più favolistico e romantico: “Galadriel” è un personaggio di Tolkien, “Mockingbird” ha il tono di un’antica ballata tradizionale che parla del tempo perduto, “The Great 1974 Mining Disaster” manipola una hit dei Bee Gees (“New York Mining Disaster 1941”) dotandola di una caratura sinfonica, “Negative Earth” narra la fuga dalla frenesia della città verso la bucolica vita di campagna, e via dicendo.


Da lì, la carriera dei Barclay James Harvest sarà una continua ascesa: invero, non tanto in Gran Bretagna (dove comunque riusciranno a piazzare un paio di album in top 20), quanto in Germania, dove del tutto a sorpresa diventeranno una delle rock band più popolari a cavallo fra anni Settanta e Ottanta.
A far presagire il trionfo fu l’album “Gone to Earth” (1977), che arrivò al numero 10 della classifica tedesca e si rivelò un impressionante long seller, rimanendo fra i primi cinquanta per la bellezza di 189 settimane, mentre il culmine arrivò con il disco dal vivo “A Concert For The People (Berlin)”, con cui nel 1982 raggiunsero il numero 1.
I loro concerti in quel periodo arrivarono ad attirare centomila persone a data e il gruppo, nel frattempo ridotto a trio dopo l’abbandono di Wolstenholme, si ritrovò a diventare uno dei simboli locali del disgelo fra Occidente e repubbliche socialiste, quando fu invitato a suonare a Berlino Est il 14 luglio 1987. Non male, contando che all’inizio della carriera erano stati declassificati a “Moody Blues dei poveri”.

23/01/2022

Tracklist

  1. Summer Soldier
  2. Medicine Man
  3. Crazy City
  4. After The Day
  5. The Great 1974 Mining Disaster
  6. Galadriel
  7. Negative Earth
  8. She Said
  9. Paper Wings
  10. For No One
  11. Mockingbird


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