Beach House

Bloom

2012 (SubPop)
dream-pop

Tra i tanti revival eighties del nuovo millennio, non poteva certo mancare all’appello il dream-pop. Epperò, diciamocelo chiaramente, era una scommessa persa in partenza. La sensazione era che quella stagione si fosse ormai esaurita, che fosse pressoché interamente evaporata nella nuvola fatata dei maestri Cocteau Twins. Cosa poteva restare da spremere da quelle loro filigrane ultraterrene, impregnate di dissonanze, echi, riverberi, da quelle cantilene eteree che la voce mesmerica di Elizabeth Fraser innalzava in rapinose traiettorie celesti? Certo, c’era stata l’epopea shoegaze a rinvigorire quel sound etereo con coltri di frastornanti feedback, c’era stata l’esperienza psych-pop dei Mazzy Star a trasfigurare quelle ninnananne in nuove, ammalianti vertigini narcolettiche, oppure la lezione di band come Mercury Rev e Sigur Rós, capaci di aggiornare il rock – più o meno “post” - alle suggestioni sognanti di quella indimenticata fuga dalla realtà. Niente, però, che lasciasse presagire una reale palingenesi del dream-pop, l’affermazione di un nuovo standard di riferimento, capace di dettare legge nella variegata galassia musicale del Duemila. Proprio quello che invece è riuscito a realizzare la coppia Victoria Legrand-Alex Scally, facendo della sua Casa sulla spiaggia l’avamposto di una vera e propria resurrezione del genere.

Colpo di fulmine

La storia è nota: la giovane Victoria Legrand, nata a Parigi ma cresciuta a Philadelphia - nipote dell'illustre compositore francese Michel Legrand e della cantante Christine Legrand - decide di lasciare l'École Internationale de Théâtre "Jacques Lecoq", dov'era tornata per conseguire il diploma di recitazione, e seguire l'istinto dall'altra parte dell'oceano, verso la più sobria ed "economica" Baltimora. Qui incontra Alex Scally, stravagante studente di geologia divenuto nel frattempo apprendista falegname, col quale è subito intesa. I due si annusano fin dal primo momento, condividendo la stessa passione per organetti e suoni vintage. Di lì a poco, nasce la formula Beach House: un suono intrigante, avvolgente, luccicante sotto il profilo acustico. Un flusso anestetico e persuasivo di accordi mielosi e ritmiche sbronze. L'assenza di orientamenti prestabiliti rende i due liberi dal peso di nuovi ingaggi: la tavolozza, infatti, è composta essenzialmente da tre elementi: slide guitar, tastiera e batteria programmata. Con Scally a dilettarsi tra echi riverberati, loop e diavolerie elettroniche assortite.

Già il tris d’assi d’esordio (gli album “Beach House”, “Devotion” e “Teen Dream”) mette in mostra il talento cristallino dei due. Ma è a partire dal quarto lavoro che la coppia d’oro del nuovo dream-pop “istituzionalizza” il suo sound in un formato classico e inconfondibile. Lo sfondo è il manto nero tempestato di luci bianche di “Bloom” (2012), tela ideale per mettere punto una formula definitiva, che farà scuola per l’intero decennio. All’acerbo lo-fi del debutto subentrano tessiture più soffici e levigate, tutto si fa più maturo e rifinito. Si amplia anche la gamma sonora: non più solo una catasta di organetti vintage, ma anche strati di chitarre, dense coltri di bassi ed effetti ritmici rigogliosi rispetto al minimalismo da cameretta dei primi esperimenti. Una cristalleria di suoni in cui risplendono le interpretazioni sempre più leggiadre ed espressive della dolce Victoria, anima anche “visiva” del duo, con le sue fascinazioni teatrali e cinematografiche (David Lynch in primis).

L’era del Myth

Sorprendentemente registrato in casa dei Sonic Youth, per l’esattezza ai Sonic Ranch Studios di Tornillo, in Texas, e prodotto come il predecessore da Chris Coady (Yeah Yeah Yeahs, Tv On The Radio, Grizzly Bear), “Bloom” sfodera dieci pezzi praticamente perfetti. Apre le danze il singolo “Myth”, pubblicato sul sito della band due mesi prima dell’uscita del disco, ed è subito magia: introdotta dal sublime arpeggio iniziale e puntellata da una solida drum machine, la voce di Victoria si erge potente, inaspettatamente più bassa di tono, sorniona e sensuale, planando poi sicura anche sugli acuti, mentre il suono ci avvolge solenne e inesorabile come tela di ragno, tra riverberi dreamy e sfarfallii di chitarre tintinnanti, rapendoci in maniera definitiva con l’apertura melodica, sublimata in una trasecolante esecuzione strumentale per tastiere vintage. “Cosa c'è dopo questa felicità momentanea?”, si interroga Legrand, quasi a voler fissare per sempre quella sensazione di pace, quel bagliore soffuso che precede l’attimo in cui il sole scompare all'orizzonte. È l’antipasto ideale, nonché uno dei capolavori definitivi del duo.

Ma il resto delle portate non è da meno. Come nel flusso ininterrotto di un carillon, le canzoni si susseguono lungo trasognate ascensioni armoniche e tessiture finemente ricamate, seguendo le fluorescenti linee melodiche sapientemente tracciate dall’arrangiatore Scally, sempre abile a scacciare con i suoi stratagemmi l’insidia della ripetitività insita in questo tipo di musica.
Nella spettacolare giostra di “Bloom”, le atmosfere celestiali assumono una centralità ancor più assoluta e a ogni flemmatica partenza segue un'esplosione di gioia in cui poter cullare i propri sogni, ma senza rinunciare alla vena malinconica che pervade l’intero disco. In "Lazuli", ad esempio, il contralto radioso di Legrand rischiara la foschia di arpeggi ipnotici, prima che una variazione melodica apra la strada alla lunga, oppiacea coda finale; il giro d’organo, la sospensione vocale e la melodia spezzacuore di "Troublemaker" non dissipano la minaccia incombente di una storia d'amore finita male; l’epica "Wild" riesuma memorie dolenti di noia adolescenziale e famiglie distrutte (“Our father won't come home/ 'Cause he is seeing double” - “Nostro padre non tornerà a casa, perché sta vedendo doppio”); il midtempo di "Wishes" imbevuto di nostalgia (“The moment when a memory aches” - “Il momento in cui un ricordo fa male”) lascia scivolare il suo candore infantile e l’ennesimo prodigio melodico in un cupo gorgo di tastiere, senza che i vocalizzi trepidanti della sirena-Victoria riescano a dissolvere quella residua patina nebbiosa di mestizia.

Spesso sono i dettagli - oltre che le atmosfere - a fare le canzoni: il drumming impetuoso e i sottili ricami armonici tra i synth dell’ossessiva “New Year”; il riff insistito e la drum machine plasticata in “The Hours”; l’amplesso tra shoegaze e classic rock 70’s in “Other People”. Mentre la ninna nanna per pianola elettrica e chitarra pizzicata di "On The Sea" e il cullante mantra di "Irene" - oltre 8 minuti in cui la melodia stravagante della tastiera compensa e sottolinea al tempo stesso la sensazione di perdita - avvisano in coda che le celebrazioni stanno per concludersi ed è quindi giunta l'ora di aprire gli occhi, tornare alla realtà e alla vita di tutti i giorni, in un sublime incastro di velati gemiti, morbide spirali acustiche e calde effusioni ritmiche. “It’s a strange paradise”, chiosa la traccia finale. E nessuno come i Beach House ha saputo raccontarlo nell’ultimo ventennio.

Metafisica del pop

Alex e Victoria continuano tuttora a rifugiarsi nella loro dimora marina, un eden innaturale, acquerellato, sfocato dalla luce di un sole che abbaglia ma non nasconde sotto la sabbia l’inquietudine e la malinconia. Un paesaggio reso vivido anche attraverso i found sounds infilati magistralmente tra i brani: l'ululato del vento, il cinguettio degli uccelli, le auto che sfrecciano, i bambini che sussurrano.
Continuare a costruire nuove varianti sul tema è la loro (ardua) scommessa. Anche perché difficilmente li vedremo mai alle prese con rivoluzioni sonore copernicane, come lasciano chiaramente intendere le parole di Scally: “Odio quando le band cambiano da un disco all'altro, non è il modo in cui lavoriamo”. E forse è meglio così.
“Sotto ogni punto di vista, l'apertura alare di Bloom è più ampia di qualsiasi cosa i Beach House abbiano mai fatto prima”, sentenzia Pitchfork. E stavolta non si può davvero dargli torto. Vertice compositivo e melodico del duo di Baltimora, “Bloom” è il disco che ha rigenerato un intero genere, donandogli una nuova identità, in grado a sua volta di vantare i soliti “innumerevoli tentativi d’imitazione”. Chiamatelo pure “pop metafisico”. Un nuovo canone destinato a lasciare il segno - anzi, il sogno - su un’intera generazione.

(Contributi di Giuliano Delli Paoli)

26/09/2021

Tracklist

  1. Myth
  2. Wild
  3. Lazuli
  4. Other People
  5. The Hours
  6. Troublemaker
  7. New Year
  8. Wishes
  9. On The Sea
  10. Irene