Interpol

Turn On The Bright Lights

2002 (Matador)
nu new wave

Uno pensa all'inizio dello scorso decennio e la mente va subito lì: New York, le rovine fumanti di Ground Zero, la luce delle sorti progressive del Duemila che scema in un immenso crepuscolo ovattato, punteggiato di fuochi al tramonto. E' in questa atmosfera che ci calano gli Interpol col loro primo disco e una canzone senza titolo, dove la voce è quasi sommersa da un suono che è una nube di caligine nera, di ottuso dolore. Ben presto alla luce fioca si vedono i contorni di una città, "New York Cares", per una ballata che riesce ad aprirsi nel ritornello "ora è il mio turno, accendete le luci", così che di colpo la notte si faccia di nuovo viva, la città risorga.
E' difficile spiegare quanto "Turn On The Bright Lights" suonasse adatto a quei mesi di cordoglio e al risorgimento di una New York prostrata da un colpo mortale, raccontare come il baritono di Paul Banks suonasse taumaturgico nel 2002, quale una medicina amara, ma che ci voleva. Dopo quasi dieci anni gli Interpol ci sono ancora, ma sono un gruppo normale, allora erano quelli giusti al momento giusto, e "Turn On The Bright Lights" un esorcismo della paura.

E' anche vero che il rock stesso ripartiva da una sua (ben più modesta) tabula rasa, dato che i principali portabandiera del filone, i Radiohead, avevano deciso di farlo implodere, proprio a cavallo del millennio, nel gelido amnios di un nuovo inizio, "Kid A". Invece di seguirli nelle splendide tenebre del cyberspazio, il rock del Duemila aveva deciso invece di tornare alle sonorità ben più rassicuranti e umane delle care vecchie chitarre: e in principio furono gli Strokes. Col loro esordio New York si rimette al centro della mappa, il rock risorge, si ritorna a parlare di garage e new wave (eccola la parola incriminata), di rock secco e senza fronzoli simile a quello di fine Settanta-inizio Ottanta, come se l'elettronica fosse un brutto sogno. E invece sono gli Strokes a essere messi fra parentesi dalla Storia, nell'interludio luminoso tra il capodanno del 2001 e le torri in fiamme di settembre.
New York è viva e riparte con miriadi di gruppi accomunati da un'urgenza che è la vera cifra di tutti gli eroi cittadini e che stavolta si esprime in forme sorprendenti: musica scarna, nervosa, a volte  venata di un'elettronica vetusta, da computer rotti e vecchi videogiochi (electroclash), altre decisamente rock, ma sempre all'insegna di un'inguaribile indole Eighties.

Ecco quindi gli Interpol di Paul Banks (voce), Daniel Kessler (chitarra), Carlos Dengler (basso), Sam Fogarino (batteria): all'inizio sembrano la versione oscura degli Strokes, con gli assalti travolgenti di "Obstacle 1" e "Say Hello To The Angels", giocati tutti sui giochi di incastri delle due chitarre e sul traino di una sezione ritmica poderosa, col basso roboante e plastico, sempre ben avanti nel mix.
Per gli Strokes si erano scomodati Television e Velvet Underground, ovvero la new wave newyorkese degli anni Settanta e i suoi ispiratori. Stavolta però ci sono una voce baritonale e distaccata, strati di riverberi sulle chitarre, una atmosfera ombrosa e drammatica, e si fa presto a dire Joy Division. Ascoltando una "Roland" ruvida e nera come la rocce di Manchester, ricca di giochi d'ombre, non si può evitare di cadere nel paragone che perseguiterà i newyorkesi per tutta la vita (credo che se oggi nominaste loro il gruppo di Ian Curtis, a questo punto potrebbero uccidervi).

Però basta il resto del disco per capire che la rete delle influenze è molto più vasta (tanto per restare a Manchester, chi si ricorda dei Chameleons?) e che, nonostante ciò, gli Interpol riescono a trascendere una impostazione fondamentalmente manierista e citazionista con una buona dose di classe e sentimento. A fare la differenza è soprattutto lo stile di Kessler, che intesse per tutti i brani una trama di riff ipnotici e reiterati, ora duri e brucianti, ora eterei, con senso della misura, ma anche senza risparmiarsi colpi di scena e senza paura di bruciare idee: tra l'attacco di "PDA" e gli ultimi echi della sua lunga coda, c'è molta più roba che in qualunque brano dei Joy Division e, anzi, vengono evocati i trascorsi dell'indie americano, con Sonic Youth e simili, ma anche shoegaze e psichedelia.

Ad allontanare lo spettro del revival (altra parola terribile che si porteranno dietro) ci sono comunque ballad stupende come "Untitled" e "NYC", dove le chitarre suonano come tastiere, alla maniera dei Radiohead, o semplicemente acustiche in stile Rem, e dove soprattutto la band dimostra di avere cuore e voglia di raccontare dei piccoli film di decadenza urbana. E' qui che si accendono le luci e gli Interpol si fanno amare.
A mettere d'accordo tutti, esegeti del nuovo indie e nostalgici  della wave inglese, c'è poi "Hands away", un gioiello dark dove la luce implode lentamente in un rosso bagliore amoroso. E' la fragilità di Banks in questi frangenti a rendere veri gli Interpol, comunicando smarrimento e passione, la febbricitante ricerca di un flaneur fra le strade di una città immersa in una notte apparentemente eterna. "Hands away" è una perla fatta di nulla, chitarre ticchettanti e un drappo di tastiere dolenti alzato su uno sfondo nero. Di fronte a una canzone come questa, ci si interroga sulla necessità critica di sistematizzare tutto che porterà a uno scetticismo perdurante per tutto il filone new wave generato da "Turn On The Bright Lights": in fondo, si tratta di bella musica piena di sentimento dark, decisamente fuori dal tempo e persino, come si è detto, attuale da un punto di vista emozionale.

La seconda porzione del disco, archiviata la tirata di "Obstacle 2", depone in parte le armi e declama i suoi racconti epici a partire dal poema acquatico di "Stella Was A Diver". Qui Kessler è al massimo, in un valzer di riff ascendenti e stasi abissali che sembra andare avanti all'infinito: quando la sezione ritmica molla la presa, lui leva il suo mantra cristallino, come una fiamma che si allunga in alto in cerca d'aria, poi il ritmo riprende e tutti si immergono di nuovo a testa bassa nelle tenebre. Come "PDA", "Stella..." smaschera l'indole psichedelica della band, piuttosto lontana dal minimalismo di Joy Division e Wire, e che si esplica nelle lunghe e meravigliose code di questi brani. Qui anche Banks asseconda il flusso ripetendo tenero l' epitaffio della sua fanciulla e dell'amore tutto, "she went down down down into the sea".
Il delirio definitivo è una "The New" che parte semiacustica e mesta, con il riff di basso di un Dengler al solito melodico e pieno di personalità, per poi lasciar spazio al fanciullo cantante in vena di confessioni ("I can't pretend I need to defend some part of me from you"). Il brano prende davvero vita, però, quando Kessler lo fa esplodere con un intervento dissonante, per poi trascinarlo in un singhiozzo di riverberi dove la melodia, e la mente con essa, si perdono del tutto per qualche minuto.
Ci si ritrova per un addio solenne di Banks nei panni di "Leif Erickson", viaggiatore impavido di oceani di ghiaccio, che prova ancora una volta ad aprire le porte della percezione (o della stanza più oscura dell'inferno) per un'ultima spedizione oltre la notte. Poi Kessler accende un ultimo fuoco dalla sua parte e si torna al silenzio.

Il giorno che segue alla notte di "Turn On The Bright Lights" è fatto di luci piuttosto incerte: il gruppo viene eletto caposcuola di un filone che è vario quanto lo era la new wave che gli fa da modello, e che si pone sempre più chiaramente come il nuovo pop-rock per il Duemila. Se negli anni Ottanta gruppi come Wire o Chameleons erano fieramente alternativi, ora l'onda rinasce in chiave decisamente edulcorata e melodica, tanto che "Turn On The Bright Lights" al confronto di molti altri dischi del genere suona cupo e indigeribile.
Nel Duemila la roba tosta sta da altre parti, e il filone new wave viene adottato dalle masse come antidoto vagamente più indie agli inni consolatori dei Coldplay. Gli Interpol si trovano quindi ad affrontare in un disco (il secondo, "Antics") quella crisi della crescita che gruppi come Cure o U2 avevano gestito in tre o quattro Lp, e finiscono in fretta nella stessa trappola delle sonorità "da stadio" che aveva caratterizzato la wave di fine anni Ottanta.
Nell'operazione il gruppo un po' si perde e da allora le cose non andranno meglio, nonostante manciate di brani pregevoli sparse in tutti i dischi successivi. Nel contempo l'Inghilterra risponde loro col successo di Franz Ferdinand e Bloc Party, confermando però la maledizione di una serie di ottimi esordi seguiti da prove interlocutorie. Negli ultimi anni gli Interpol sembrano quasi essere superati al loro stesso gioco da un gruppo dell'Ohio, The National, a loro simile ma più decisamente e fieramente massimalista, orientato a una grandeur che, con le premesse del gruppo di Kessler e Banks, era invece più difficile da raggiungere.

Insomma, la new wave del Duemila è stata divertente e ha tenuto giustamente alta la bandiera del rock per tutta una fetta di pubblico ignara delle tendenze più sperimentali, ma ha lasciato anche parecchie perplessità. Riascoltando oggi "Turn On The Bright Lights", invece, i dubbi scompaiono, e si riscopre ancora una volta un album bello e necessario.

04/09/2011

Tracklist

  1. Untitled
  2. Obstacle 1
  3. NYC
  4. PDA
  5. Say Hello To The Angels
  6. Hands Away
  7. Obstacle 2
  8. Stella Was A Diver And She Was Always Down
  9. Roland
  10. New
  11. Leif Erikson