Marek Grechuta & Anawa

Korowód

1971 (Polskie Nagrania Muza)
progressive folk, poezja śpiewana

Marek Grechuta è il più noto cantante della “poezja śpiewana” (poesia cantata), corrente musicale polacca che parte dagli anni Sessanta e arriva ai giorni nostri, benché ormai non raggiunga più il successo trasversale che ebbe nel ventesimo secolo.
Per comprendere la poesia cantata e la complessa figura di Grechuta rimandiamo alla lettura della monografia che OndaRock ha già dedicato all’artista. Nello specifico di questo articolo verrà trattato il suo secondo album, “Korowód” (processione), condiviso con la band Anawa.

Dopo il primo album (“Marek Grechuta & Anawa”, 1970) la formazione viene rimaneggiata. L’estroso Marek Jackowski sostituisce Tadeusz Dziedzic alla chitarra, Zbigniew Paleta viene ufficializzato alla viola (in precedenza era soltanto ospite), e per la prima trova spazio un batterista, Eugeniusz Makówka (già nell’album di debutto si potevano udire sparuti interventi di batteria, ma erano suonati da turnisti).
Nell’aprile del ’71 il nuovo assetto entra in sala per registrare quello che a oggi rimane uno dei punti più alti della musica polacca. Solenne sin dal titolo (“Processione”), epico sin dalla copertina, con gli otto membri della formazione che marciano schierati orizzontalmente, mentre sopra di loro si scatena una tempesta di fulmini, “Korowód” unisce varietà stilistica, sentimento e perfezione formale. Nonostante il peso dei testi, la sua musica è talmente intrigante, stratificata e sorprendente che il mito ha iniziato a scavalcare i confini della Polonia e, grazie al web, sta lentamente infettando gli appassionati di prog più ricettivi e curiosi, oltre ai nerd del folk e del cantautorato europeo. Del resto, non c’è motivo che questa musica non piaccia a chi ama Brel e Serrat da un lato, o le formazioni del prog italiano facenti maggior uso di strumenti acustici dall’altro.
“Korowód” è in effetti un album quasi interamente acustico, ma tanta è la carne sul fuoco e l’energia sprigionata dagli arrangiamenti, che quasi ci si domanda a cosa serva attaccare la spina agli strumenti.

In apertura “Widzieć więcej”, un assolo di Jackowski, che a differenza del precedente chitarrista tiene a mostrare la propria presenza. Si destreggia così al brač – strumento a corda balcanico con sonorità orientaleggianti – sovrapponendone più linee e creando un serpente fatto di strappi, droni e flussi di note riflessi dall’eco. Ci si può trovare dentro il primitivismo dei chitarristi fingerpicking americani così come il misticismo della musica tradizionale anatolica, mentre il sentore arcano e soffocante sembra in qualche modo anticipare le istanze di certo post-punk sperimentale (dai Virgin Prunes ai Durutti Column). Non a caso Jackowski una decina d’anni più tardi si sarebbe ritrovato alla guida dei Maanam, una delle quattro band storiche della new wave polacca.
“Kantata” è una poesia di Jan Zych, spietato disegno delle dure condizioni di vita durante il regime sovietico: “Ho sognato uccelli senza cielo, ho sognato cavalli senza terra. Qui non c’è altra stagione che non sia l’inverno. Qui c’è posto per un labirinto e per un macigno sulla testa. Un muro straniero confina con un altro muro straniero. Su uno stelo in giardino appassisce un fiore di lino del cielo…”.
Jan Kanty Pawluśkiewicz, pianista e conduttore degli Anawa, la adatta disintegrando gli stereotipi della forma-canzone: introduzione di dissonanze, strofe per aggressivi ostinati d’archi, e al posto dei ritornelli due diversi passaggi per piano, accomunati solo da un’aria di rassegnata serenità. 

Dopo aver lasciato ampio spazio decisionale ai colleghi, Grechuta sale in cattedra con “Chodźmy”, cento secondi di marcetta pianistica col contrabbasso che bofonchia imitando una tuba. Travolgente, quasi straniante il contrasto fra l’aria burlesca della musica e quella seria del testo, inno alla speranza: “Raccogli tutte le tue idee, raccogli il tuo briciolo di fortuna. Lì, dove è tutto ancora per te, aspetta il giorno, arriverà di nuovo. Andiamo lì a cercare il nostro giorno, la notte fugge, la luce ci chiama”.
Ballata corale in epico crescendo, “Świecie nasz” è una sorta di preghiera agnostica. “Mondo nostro, dacci molti giorni luminosi. Dacci l’attesa di un giorno luminoso. Dacci di come spegnere il fuoco del male. Dacci la gioia che cerchiamo. Dacci la fiamma, l’acciaio e il suono. Facci aprire tutti i più pesanti cancelli. Facci superare ogni difficoltà. Dacci la gioia dello splendore e del cambiamento. Dacci l’ombra dell’erba alta. Facci perdere nel fruscio in mezzo agli alberi”. È incredibile come un brano che implicava la miseria del presente e auspicava un cambio di direzione sia riuscito all’epoca a sfuggire alle maglie della censura. Il potere della poesia a volte riesce anche in questo.
Chiude il primo lato “Nowy radosny dzień” (“Un nuovo giorno di gioia”), strumentale che sembra la versione cupa e militaresca del “Bolero” di Ravel.

L’altra facciata del vinile parte col botto: “Dni, których nie znamy” è oggi l’inno di Grechuta e la più celebre canzone polacca degli anni Settanta. Folk barocco dall’aria gentile, dominato dal violino, è invero un’esortazione alla vita e uno sprone a non temere il futuro: “Contano solo i giorni che ancora non conosciamo, contano solo quei pochi attimi che aspettiamo. […] Cerca le risposte, il tempo non è poi molto”. L’ultimo minuto e mezzo è una girondola di “na na na” che si sovrappongono generando armonie soavi, ma anche lievi stonature, come una sorta di coro d’angeli ubriachi. Le voci sono nuovamente quelle delle Alibabki, accompagnate questa volta dai fratelli Aleksander e Ewa Bem, future stelle del jazz polacco.

Grande dello spazio lo occupa però la title track, opprimente monolite di dieci minuti con cui gli Anawa partono in viaggio verso l’ignoto. Se è mai esistita una jam space-rock in chiave prevalentemente acustica, questa è “Korowód”. La canzone attacca come un vorticoso folk-funk, con uno scatenato Marian Pawlik, membro della formazione prog Dżamble, ospite al basso (è l’unica presenza elettrica del disco). Mentre il sottofondo ribolle, scandito fra le altre cose da maestosi cori dal sapore cerimoniale, Grechuta enuncia con foga i versi del poeta Leszek Aleksander Moczulski, una serie di domande che si interrogano sulla natura umana e nel frattempo accusano gli abusi del potere: “Chi per primo è diventato un eroe? Chi ha vissuto ed è morto in miseria? Chi per primo è diventato signore? E chi per primo è diventato servo? Chi ha dovuto alzarsi presto? E chi ha potuto dormire fino a tardi? Con gli occhi fissi sulla danza, con gli occhi fissi su di noi. Con gli occhi fissi sul sole, con gli occhi fissi su di noi, del tutto incerti di sé, del tutto inconsapevoli, chiederemo a lungo, chiederemo di nascosto […] Chi per primo è diventato fachiro? Chi astrologo? Chi re? Chi dio? Qualcuno dalla costellazione di Vega indovinerà chi è stato il primo uomo, e chi sarà l’ultimo?”.
Mezzo minuto dopo quest’ultimo interrogativo, splendida rappresentazione della solitudine umana nell’immensità dell’universo, la canzone sfocia in un lungo tratto improvvisato, con la sezione ritmica che pulsa ipnotica (pur continuando a mutare e piazzare svisate) e Jackowski che macina instancabile la chitarra acustica. Il protagonista è però Ostaszewski, che non suonando in questo brano il contrabbasso può scatenarsi in un sovrumano assolo di flauto dolce. Prima di loro nessuno aveva immaginato quello strumento come guida per un viaggio negli abissi siderali, ma agli Anawa canoni e regole non sembrano interessare.

Ci sono tratti sconcertanti, come i vocalizzi selvaggi che entrano poco dopo 5’ 25’’, o i giochi con l’eco a partire da 6’ 25’’, che trasformano ogni sbuffo di flauto in un drone, generando una coda dal suono deforme e allucinato. Pura fantascienza per la musica popolare del 1971. Se l’album fosse diventato famoso all’infuori dei confini della Polonia, oggi quei momenti sarebbero considerati uno degli atti di nascita della world music e avrebbero influenzato generazioni di appassionati di musica etnica, contaminatori elettronici e chi più ne ha più ne metta.
Vero trionfo artistico e tecnico, con la storica produttrice Zofia Gajewska che dirige con mano ferma dalla cabina di regia, “Korowód” segna di fatto la fine della collaborazione fra Grechuta e gli Anawa. Non si è mai saputo il motivo del divorzio, si può solo ipotizzare la ricerca di nuovi stimoli creativi.

12/07/2020

Tracklist

  1. Widzieć więcej
  2. Kantata
  3. Chodźmy
  4. Świecie nasz
  5. Nowy radosny dzień
  6. Dni, których nie znamy
  7. Ocalić od zapomnienia
  8. Korowód
  9. Niebieski młyn






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