Umm Kulthum

Alf Leila We Leila

1969 (Sono Cairo)
ughniya, traditional arabic pop

Nel secondo dopoguerra la musica araba raggiunse inediti livelli di complessità, dovuti in parte all’ibridazione con la musica occidentale e in parte allo sviluppo dei nuovi supporti discografici. 
L’avvento del 33 giri portò i compositori, in particolare quelli egiziani, a scrivere canzoni in forma estesa che si estendevano su ambo i lati del vinile e arrivavano a durate comprese fra i trenta e i quaranta minuti. Curiosamente, queste incisioni erano comunque ritenute insoddisfacenti per la loro brevità: durante le esecuzioni dal vivo arrivavano infatti a superare l’ora di durata.
La differenza con i corrispettivi in studio non era data dall’estensione della composizione, che comprendeva le stesse identiche parti, ma dalla reiterazione, una delle caratteristiche fondamentali di diverse fra le scuole della musica tradizionale araba. Così, se una frase veniva cantata tre o quattro volte di fila nella versione in studio, durante i concerti poteva essere ripetuta con tranquillità anche dieci o più volte.
Questo ribadire in maniera ossessiva parole e concetti è legato al concetto di trance caro a molta musica del mondo musulmano (si pensi alle danze sufi) e nello specifico alla necessità della creazione del tarab, ossia una sorta di commozione estatica conferita dalla voce di un cantante particolarmente dotato (il tarab è esclusivamente legato alla voce umana: non può essere generato da musica strumentale, il che spiega anche come mai la musica araba tradizionale prevedesse quasi sempre la presenza di una voce).
 
Umm Kulthum è la più amata cantante egiziana della storia e nell’intero mondo arabo sono pochissime le figure che possano competere con la sua iconicità (la libanese Fairuz è forse l’unica che viaggia alle sue stesse altezze). La sua figura è leggendaria, tanto che a quasi mezzo secolo dalla morte continua a essere una delle cantanti più ascoltate del mondo arabo. Non si tratta però solo di impatto sul pubblico: l’opera di Umm Kulthum ha letteralmente cambiato la concezione di musica araba, in particolare la parte finale della sua carriera. Presente sul mercato discografico sin dal 1926, l’artista ha attraversato tutte le mutazioni della musica egiziana, fino a giungere alle canzoni in forma lunga (in arabo: ughniya al singolare, aghani al plurale) degli anni Sessanta.
Gli autori di quei brani, su tutti Mohammed Abdel Wahab e Baligh Hamdi, hanno più volte dichiarato di aver voluto scrivere quei pezzi lunghi e complessi anche perché ispirati dai concerti di Umm Kulthum, durante i quali anche composizioni in origine piuttosto brevi venivano espanse verso lunghezze imponenti.
Umm Kulthum non è stata l’inventrice di questa modalità espressiva: era prassi per molti cantanti egiziani di allungare a dismisura i brani dal vivo. La differenza la fece la sua figura: per qualche motivo – che fosse la sua voce estremamente potente e versatile, la sofferenza che era capace di emanare, la sua presenza scenica – Umm Kulthum ipnotizzò il mondo arabo e i suoi proverbiali concerti del giovedì sera arrivarono a incollare l’intero Egitto alla radio. Fu naturale che gli autori più ambiziosi volessero alzare l’asticella per vedere dove una simile interprete potesse arrivare.
Paradossalmente, quando incise le sue prime canzoni lunghe, Umm Kulthum era ormai ultrasessantenne e la sua voce non era più potente come un tempo: ciononostante, quasi tutti i suoi brani più ricordati appartengono a questa era, a testimonianza di quanto le sue capacità di interprete sapessero trascendere anche lo scorrere del tempo. Riascoltati oggi, trasudano tanta potenza e passione che si stenta a credere fosse una cantante in declino fisico quando le incise.

Quale sia la canzone lunga più importante di Umm Kulthum è forse impossibile da stabilire, ma ci sono due titoli che vantano argomenti particolarmente forti a loro favore: “إنت عمري” (“Enta Omry”), composta da Mohammed Abdel Wahab e incisa nel 1964, secondo molti l’apice creativo del più celebre e influente compositore egiziano del Novecento, e “ألف ليلة وليلة” (“Alf Leila We Leila”), incisa nel 1969, probabilmente il suo pezzo a oggi più noto.
Ambo i brani sono eccellenti musicalmente, ma se si deve celebrare Umm Kultuhm è impossibile scindere l’artista dall’icona, il che spinge verso “Alf Leila We Leila”, che solo su YouTube – sommando i vari video – ha ammassato circa 145 milioni di ascolti negli ultimi dieci anni, metà dei quali ottenuti da versioni comprese fra i quaranta e i sessanta minuti di durata. Dati impressionanti per un pezzo di oltre mezzo secolo fa.

Il brano, il cui titolo significa nient’altro che “Le mille e una notte”, è firmato da Baligh Hamdi per la musica e dallo storico paroliere Morsi Gamil Aziz per il testo, scritto nel dialetto egiziano dell’arabo. Si tratta di una passionale poesia d’amore, con un finale che sfocia in una preghiera:
Amore mio,
la notte e il suo cielo,
le sue stelle e la sua luna,
la luna e la veglia notturna,
tu ed io, amore mio, vita mia,
tutti noi viviamo l'amore allo stesso modo,
ah, l'amore, l'amore rimane sveglio per inondarci di felicità,
e ci parla con gioia.
Amore mio, forza, viviamo negli occhi della notte
e diciamo al sole "vieni" tra un anno, non prima.
Questa è una bella notte d'amore, che vale mille e una notte,
cos'è la vita se non una notte come questa notte?
Come posso descriverti, amore mio, la mia vita prima di amarti?
Non ricordavo nessuno "ieri" e non avevo nemmeno un "domani" da aspettare, 
non vivevo nemmeno un "oggi", amore mio.
Mi hai fatta innamorare in un battito di ciglia, 
mi hai mostrato dove risiede la bellezza dei giorni.
Dopo la notte c'era la nostalgia, tu l'hai riempita di sicurezza
e la vita che era un deserto è diventata un giardino.
Amore mio, cosa c'è di più bello della notte e di due amanti come noi?
Siamo persi, non sappiamo più se la vita sia composta da un istante o da anni
sappiamo solo che ci amiamo,
viviamo solo per la notte e per l'amore.
Amore mio, l'amore è la nostra vita, la nostra casa e la nostra forza,
la gente ha il proprio mondo e noi abbiamo il nostro,
e se dicono che gli amanti bruciano nel fuoco del loro amore, 
bene, allora il loro fuoco è il nostro paradiso.
L'amore non ha mai ferito nessuno
e il suo giardino non ha mai rilasciato nulla 
se non felicità e gioia.
Oh luna delle mie notti, ombra dei miei giorni, 
amore mio, vita mia, 
ho per te il più bel regalo, una parola,
la parola d'amore che è dentro, 
è migliore del mondo intero 
e ti offre i tesori del mondo.
Dimmi questa parola, dilla agli uccelli, agli alberi, alla gente, 
dilla a tutto il mondo,
dì, dì che l'amore è una grazia e non un peccato.
Dio è amore, il bene è amore, la luce è amore, 
Oh Signore, conserva la bellezza del nostro primo incontro nelle nostre mani
e la felicità del nostro primo appuntamento con le candele attorno a noi
e che il tempo passi e ci avvolga con la sua sicurezza.
Oh Signore, non [darci] una vita in cui assaporeremo il gusto amaro della separazione
e che la tristezza non sappia dove siamo e non venga da noi,
e che le nostre notti siano illuminate solo da candele di gioia, 
le nostre notti, le nostre notti, amore mio
A leggere le parole di Aziz senza tenere conto del contesto e delle forzature della traduzione si rischia però di non comprendere la raffinatezza. Anzitutto perché, come già detto, ogni verso viene in realtà cantato più volte: su carta viene quindi meno la trance legata alla reiterazione.
Inoltre, la poesia in italiano appare povera a livello di scelta del lessico, laddove in arabo è decisamente più ricercata. Per esempio, in italiano si è portati a tradurre come “amore” tanto “حبيبي” (“habibi”) quanto “هَوَى‎” (“hawa”) e “حب” (“hob”): la prima potrebbe essere resa come “tesoro mio”, ma una simile scelta danneggerebbe la solennità del testo; la seconda indica la fisicità dell’amore e racchiude sensazioni come l’attrazione, la passione e il desiderio; la terza rappresenta il concetto di “amore” nella sua forma più lineare e universale.

Le canzoni lunghe egiziane rappresentano il punto di arrivo di una corrente che viene talvolta indicata come “pop arabo tradizionale”, ma che nel mondo arabo è più spesso nota come “l’epoca d’oro della musica araba”: si trattava di brani in forma ibrida che partivano dalla musica folk araba e la collegavano alla musica occidentale, sia classica, sia popolare. La fusione avveniva tanto in sede di composizione, quanto in sede di arrangiamento.
Nel primo caso alternando parti composte col sistema delle armonie occidentali a parti che seguivano i maqamat tipici della tradizione araba (per comprendere al meglio cosa sia un maqammaqamat quando al plurale – si rimanda allo speciale “L’altro Mediterraneo”, scritto per OndaRock da Marco Sgrignoli, che dedica ampio spazio alla trattazione di quel peculiare sistema di scale).
Nel secondo caso, unendo strumenti tradizionali arabi (oud, nay, qanun, riqq e via dicendo) e strumenti importati dalla musica occidentale nei secoli passati, come il violino, a strumenti occidentali moderni, come organo elettrico, chitarra elettrica e fisarmonica. Bisogna a ogni modo precisare che la maggior parte degli strumenti occidentali venivano modificati quando adottati dalle orchestre arabe, per potersi amalgamare a sistemi estranei alla loro natura, come appunto i maqamat e i quarti di tono.
“Alf Leila We Leila” ne è in tal senso emblematica, grazie al sassofono di Samir Sourour, alla chitarra elettrica di Omar Khorshid, alla fisarmonica di Faruq Salama e all’organo di Hany Mehanna. In particolare, i primi tre sono oggi considerati coloro che hanno arabizzato i rispettivi strumenti (hanno lavorato anche con molti altri cantanti importanti del mondo arabo, in particolare Abdel Halim Hafez).

L’incisione in studio del brano risale al gennaio del 1969 e la sua presentazione dal vivo al mese successivo. La versione in studio è oggi poco ricordata, nonostante si tratti di quella pubblicata in origine: a partire dall’era dei cd infatti, tutte le ristampe l’hanno sostituita con un’incisione dal vivo, sempre del 1969, ritenuta più valida in quanto nettamente più lunga.
Alcune fra queste nuove edizioni contenevano l’esecuzione concertistica integrale, che toccava i 58 minuti, mentre altre operavano qualche taglio, ma senza mai scendere sotto i 41 minuti: in ogni caso, ben oltre i 31 minuti dell’originale in studio (anche se, va ribadito, quest’ultima era più breve esclusivamente perché le frasi venivano ripetute meno volte: a livello compositivo non le mancava alcuna sezione).
La versione in studio è quindi letteralmente caduta nell’oblio durante l’era dei cd e per questo motivo oggi, anche nei servizi di streaming, è la resa dal vivo quella che attira le maggiori attenzioni, a tal punto che molti sono erroneamente convinti che il pezzo fosse uscito in forma concertistica già nel 1969 e ignorano del tutto l’esistenza di una versione in studio (lo stesso fenomeno ha colpito anche “Enta Omry” e diverse altre sue canzoni di quel periodo). 

In qualunque versione decidiate di ascoltarla (gli arrangiamenti sono pressoché identici), “Alf Leila We Leila” si apre con un lungo muqaddima (introduzione strumentale, spesso contenente assoli dei musicisti di punta – nel caso specifico sassofono e chitarra), sospinto da ostinati d’archi, ricchi strati di percussioni e cambi repentini d’atmosfera, guidati dall’alternanza fra i vuoti e i pieni dell’orchestra. 
La composizione ruota sul maqam farahfaza (dalla famiglia dei maqamat nahawand) con il jins kurd sul quinto grado (il jins è un sottoinsieme del maqam, sostanzialmente un frammento di scala) e si svela estremamente ricca e complessa, come del resto tutti i lavori di Hamdi, inglobando i ritmi più disparati (si va dall’hacha’, danza di origine irachena, al bambi, andamento tipico del folk egiziano).
Questa pioggia di termini tecnici esotici, va da sé, ha uno scopo puramente documentaristico: chi non ha mai suonato musica araba non ne trarrà informazioni utili per decodificare l’ascolto. Per quello si spera risultino efficaci la ricchezza dell’orchestrazione e la varietà della composizione. 

Umm Kulthum entra al termine del muqaddima e rimane protagonista fino alla fine, fatto salvo qualche momento di respiro orchestrale (per esempio in apertura del secondo lato del vinile – prendendo come riferimento la versione in studio). 
Come già detto, la sua voce da contralto non era più all’apice della potenza all’epoca di questa incisione, ma non solo per via dell’età: già sofferente di ipertiroidismo autoimmune, nel 1967 si era anche gravemente ammalata di nefrite.
Nonostante tutto, ascoltandola non si fatica a credere a uno dei più noti aneddoti della musica araba: pare fosse costretta a cantare a un metro di distanza dal microfono per evitare che il suono risultasse distorto (va da sé, è di una di quelle storie che piacciono indipendentemente dalla loro veridicità).
Per certo, il tarab che si viene a creare è rappresentativo dell’espressività di una donna che raggiunse una posizione di enorme potere e influenza culturale in quella che era una delle società più maschiliste del pianeta: persino il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser mostrò segni di riverenza nei suoi confronti.

Umm Kulthum è morta nel febbraio del 1975, per insufficienza renale, e la sua dipartita è generalmente considerata come l’evento che pose fine alla sopracitata “epoca d’oro della musica araba” (a sigillare la sensazione di fine di un’era sarebbe arrivata, appena quattro anni dopo, la morte di Abdel Halim Hafez).
La sua musica ha già dimostrato in passato di poter trascendere le culture: Bob Dylan l’ha indicata come propria cantante preferita, Maria Callas come “voce senza pari”, Robert Plant come influenza primaria per la creazione di “Kashmir” e più in generale come artista che ha cambiato la sua percezione delle possibilità offerte dal canto. Gli artisti arabi che l’hanno citata come punto di riferimento è persino inutile elencarli: sarebbe al massimo da chiedersi chi non l’abbia fatto.
 

26/06/2022

Tracklist

  1. ألف ليلة وليلة (Alf Leila We Leila)

(Nota - nell'edizione originale, pubblicata su vinile, il brano era ovviamente diviso in due parti)
 


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