Pino Daniele

Nero a metà

1980 (Emi)
songwriting, world music

Marzo: nu poco chiove
e n'ato ppoco stracqua
torna a chiòvere, schiove;
ride 'o sole cu ll'acqua.
Mo nu cielo celeste,
mo n'aria cupa e nera,
mo d' 'o vierno 'e 'tempeste,
mo n'aria 'e Primmavera.
N'auciello freddigliuso
aspetta ch'esce o sole,
ncopp' 'o tterreno nfuso
suspirano 'e viole...
Catarì, che vuò cchiù?
Ntienneme, core mio,
Marzo, tu 'o ssaje, si' tu,
e st'auciello song' io
(Salvatore Di Giacomo, 1898)

Ottobre 1979, gli amati e rivoluzionari Settanta stanno per volgere al termine. L’Italia è ancora un paese alle prese con mille e più problemi, incapace di affrontare e risolvere le sue infinite contraddizioni politiche e sociali. Una nazione ferita e distrutta dalle bombe del terrorismo e dal fuoco della criminalità organizzata. Tuttavia, proprio in quei mesi l’anima musicale del Belpaese vive uno dei suoi momenti più floridi. Imperversano i vari Dalla, Conte, Bennato, Vecchioni, Guccini e De André. Gli indimenticabili Stone Castle Studios di Carimate raccolgono il fiore all’occhiello del cantautorato italiano. Sono gli anni della rivalsa cantautorale, gli anni d’oro in cui poesia e musica seguono all’unisono le medesima scia, fondendosi in un amplesso artistico mai più così intenso e spavaldo. Le catene della censura sono ormai un lontano ricordo e le radio pullulano di successi. Gli italiani sentono finalmente il bisogno di urlare al mondo il proprio disappunto, la propria rabbia. I caroselli non bastano più, e l'evasione punta verso ben altre soluzioni. C’è un universo sonoro fuori dalla penisola largamente inesplorato, e giunge il momento di arricchire liberamente la propria terra dei sapori più svariati.

In quei mesi, Pino Daniele è un giovane e promettente cantautore napoletano, ma soprattutto un chitarrista unico nel suo genere, che si appresta a entrare nei sopracitati Castle Studios per dar vita a quello che sarà uno dei principali manifesti della sua carriera e della musica italiana. Nei tre anni precedenti, il suo talento ha ampiamente sedotto un’intera città, e in particolare Claudio Poggi, produttore discografico della Emi Italiana, il quale dopo aver ascoltato i primi demo decide di puntare a occhi chiusi su quel ragazzo timido ma dall’estro artistico inafferrabile.
Pino viene dal quartiere San Giuseppe di Napoli e ha già all’attivo due dischi, “Terra mia” (1977) e l’omonimo “Pino Daniele” (1979); ha ventiquattro anni, ma è già un musicista navigato e sicuro dei propri mezzi. Del resto, il suo potenziale artistico è ai massimi livelli fin dalla tenera età. Appena maggiorenne Pino compone quello che diventerà l’inno di un’intera città, il testamento unico del suo incanto e del conseguente disincanto, l’omaggio alla sua bellezza e la sua presa di coscienza più profonda: “Napule è”.

In tal senso, per comprendere appieno l’essenza artistica di Pino Daniele, il suo Dna, bisogna per l’appunto entrare nei vicoli della sua città, carpirne i segreti e gli animi che la caratterizzano. Il Vesuvio, non a caso simbolo del fermento napoletano, che dalle gobbe del magma genera ispirazione e secerne le più recondite paure, è insieme emblema del terrore e simbolo di forza vitale. Siamo nel pieno svolgimento di una rivoluzione dei costumi che a Napoli non ha mai avuto né inizio né fine. Lotta di classe, dove l’individuo cerca se stesso attraverso l’io storico e la borghese condizione divampante; lo scontro tra l’essere e il divenire, lo slancio verso l’alto e l’oblio dello sterrato reale e passionale degli accadimenti vissuti. L’Arte diventa un condottiero che intercetta impulsi semplicemente raccontando le correnti nuove che inconsciamente mescolano e modellano l’attività sociale.
Il teatro di Viviani, di Di Giacomo prima e di De Filippo in seguito, erano il primo tentativo di analisi della trasformazione dell’individuo e dei suoi risvolti grossolani e decadenti; quella rivoluzione, che seguiva e precedeva il fermento, fu raccolta musicalmente dal movimento della renaissance partenopea, meglio conosciuta come Napolitan Power. Movimento artistico culturale, si legava al più noto black power di cui ne seguiva le orme, interessandosi però, a differenza di quest’ultimo, al territorio ed alle sue mutazioni etniche.

“Nero a metà”, terzo disco del cantautore partenopeo, è quasi un parto della rivoluzione nera, di un’intensa presa di coscienza dell’animo olivastro e goliardicamente sofferente dei suoi interpreti. E’ singolare come uno dei più riusciti tentativi di world music o musica globale abbia trovato piena sintesi in un territorio socialmente ghettizzato, paralizzato tra il mare e il marmo, tra il dominio e la ribellione, tra le luci e le ombre. A suggellare, inoltre, tale improbabile e accecante amalgama, è la presenza sul campo di musicisti del calibro di Gigi De Rienzo, Ernesto Vitolo, Agostino Marangolo, Aldo Mercurio, Mauro Spina, James Senese, Rosario Jermano, Tony Cercola Astà aka Tony Esposito, Karl Potter, Bruno De Filippi ed Enzo Avitabile. Un vero e proprio squadrone di talenti pronti a seguire il giovane cantautore nelle sue infinite e mutevoli contaminazioni sonore.
“I say i' sto ccà”, che apre il disco, assimila la lezione rivoluzionaria di Carosone, che già in passato aveva sperimentato il risultato della mescolanza tra lingua napoletana e lingua americana di matrice anglosassone. La gestazione e il successivo parto produce oggi gli effetti evidenti della combustione che la guerra aveva generato a Napoli. ‘A nuttata’ Eduardiana, ormai alle spalle da un pezzo, ritrova oggi una generazione adulta che rivendica una posizione sociale e con essa un’identità musicale nuova e fresca; Musella alla cui memoria è dedicato il disco, da figlio della guerra diventa padre di una napoletanità nuova, che trova nelle note del sax tenore di James Senese l’incisione eterna sulla pietra e nel respiro partenopeo.

La catarsi musicale di “Nero a metà” vive sul filo sottile tra la compassione congenita e la delirante ilarità; i testi cavalcano una scura sofferenza come in “Voglio di più”, per poi esaltare il capriccio goliardico di “A me me piace ‘o blues”. La dicotomia artistica si evidenzia in maniera ancora più decisa nell’alternanza di genere, come lo stesso autore definirà scherzosamente “taramblu”, in bilico tra lo spirito popolare della tarantella, la rumba sudamericana e il blues del Delta.  Il ritmo funky sguaina la spada in più occasioni, “Musica Musica”, “A testa in giù”, le già citate “I say i’ sto cca’” e “A me me piace o’ blues”, con un suono morbido e seducente che si compiace senza mai piombare in stucchevole manierismo.
Lo sdoganamento musicale si consolida attraverso le note della rumba “Appocundria”, dal sapore latino. L’esecuzione resta però solo un pretesto per raccontare uno stato d’animo, le parole profetiche accomunano un intero popolo che esprime la malinconia come un’epifania consapevole ("Appocundria me scoppia/ ogne minuto 'mpietto/ peccè passanno forte/ haje sconcecato 'o lietto/ appocundria 'e chi è sazio/ e dice ca è diuno/ appocundria 'e nisciuno…"); le immagini domestiche e i bisogni primari dipingono una tela dai colori scuri che danzano su di un velluto musicale caldo e rassicurante.

Sullo stesso gracile filo giace “Quanno chiove”, canzone struggente e allo stesso tempo liberatoria, attraverso la quale lo spirito di rivalsa e la voglia di rinascita trovano la loro allegorica traslazione nella purezza e nella semplicità dell’evento climatico riletto ora in chiave salvifica. L’anima scugnizza e l’irriverenza tutta partenopea, espresse magistralmente solo un anno prima nella celeberrima “Je  so’ pazzo”, riprendono fiato in “Nun me scoccià”, con Daniele nelle vesti del menestrello e del provocatore.  Il tema fusion che introduce la dolcissima “E so cuntento 'e sta'” riconferma l’abilità del nostro nel tessere tele melodiche dalle tinte multiformi, variazioni dal tratto sorprendentemente distinguibile, irripetibili nella loro avvolgente singolarità.
La tenue ballad  “Alleria” richiama l’altro tema tanto caro al popolo napoletano, il bisogno di allegria come antidoto alle angustie dell’esistenza pratica ed emotiva; la voce e la sua esplosione fluttuano nell’aria attraverso docili passaggi di piano e contrabbasso, suggellando lo stato d’animo principe dell'essenza partenopea.

Il carisma e il talento delle singole tracce dell’album culmineranno nel concerto dei duecentomila di Piazza del Plebiscito, lì dove tutto è finito, e condurranno l’artista verso svariate collaborazioni con musicisti di fama internazionale come Wayne Shorter, Alphonso Johnson, Steve Gadd e Richie Evans nei dischi a seguire. Ma il verace sound global, in anticipo sui tempi, renderà quest'opera sonora un unicum et hibridum sia per l’artista che  per i suoi epigoni successivi.
Pino se n’è andato prima dell’ultima apparizione in Piazza del Plebiscito, quella stessa che aveva visto parate di sovrani e viceré benedetti e maledetti al contempo. Il popolo  ha preteso che il suo figlio prediletto facesse ritorno a casa per un ultimo saluto per avvertire, ancora una volta, una magica sospensione tra la poesia e lo sgomento, tra le mute spoglie e i rumori di una vita passata.
"Masaniello è turnat", ha allietato e sanato il suo popolo per poi diventare Re.
Il Re è morto. Viva il Re!



Foto nel box di Antonio Siringo

15/03/2015

Tracklist

  1. I say i' sto ccà
  2. Musica musica
  3. Quanno chiove
  4. Puozze passà nu guaio
  5. Voglio di più
  6. Appocundria
  7. A me me piace 'o blues
  8. E so cuntento 'e sta'
  9. Nun me scoccià
  10. Alleria
  11. A testa in giù
  12. Sotto 'o sole