Alvvays

Alvvays

Un'ossessione chiamata C86

Prendendo spunto dal sound unico e irripetibile della leggendaria cassettina di Nme, i canadesi guidati dalla dolce Molly Rankin e dal suo compagno, il talentuoso chitarrista Alec O’Hanley, sono diventati gli alfieri dell’indie-pop del nuovo millennio

di Michele Corrado

Nel pieno degli anni 80, l’inglese Nme era tra le riviste leader dell’editoria musicale alternativa globale e sovente lanciava compilation che includevano i brani di gruppi emergenti sotto contratto con etichette indipendenti. Una di queste, la C86, sarebbe diventata presto leggenda. Contenente i brani di artisti quali Primal Scream, Bodines, Pastels, Wedding Present, Shop Assisants, Soup Dragons e tanti altri, la compilation arrivò a codificare un genere fatto di chitarre jangle, strutture semplici e un approccio primitivo alla scrittura della canzone pop. All’inizio, come capita spesso alla critica musicale, l’etichetta C86 aveva un’accezione prevalentemente negativa. Poi, con il tempo, diventò un canone di purezza e spontaneità destinato a far proseliti.

 

Circa 25 anni dopo, nel 2011, una band della lontana Toronto avrebbe fatto la sua fortuna proprio grazie alla sua ossessione per la mitica cassettina.
A fondare gli Alvvays è la dolce biondina pelle di neve Molly Rankin, figlia di John Morris Rankin, violinista del celebre collettivo folk a gestione familiare The Rankin Family. Chitarrista e vocalist, Molly invita a unirsi a lei la sua vicina di casa e amica d’infanzia, la tastierista spilungona Kerri MacLellan. Conosciuto a un concerto, il prossimo a entrare nel gruppo, ma anche nel cuore della Rankin, sarebbe stato invece il talentuoso chitarrista Alec O’Hanley. Circa un anno dopo i tre avrebbero allargato la formazione al batterista Phil Maclsaac e al bassista Brian Murphy.
A scegliere il nome della band è ancora una volta la Rankin, che adora il senso di nostalgia e melanconia trasmesso dalla parola. La scelta dello spelling del moniker con due V invece che con la W è invece dettata dall’esistenza di una band già scritturata da Sony con lo stesso nome.

Oltre alla succitata influenza del C86 sound, Rankin e O’Hanley hanno spesso dichiarato di essere stati pesantemente influenzati tanto dagli Smiths quanto dai Primitives, oltre che ovviamente dai Belle And Sebastian. Molly ritiene che crescere in una famiglia dedita al folk, ascoltare dunque il genere sin dall’infanzia, abbia influenzato il suo modo di amalgamare le tessiture sonore, nonostante la matrice non risulti chiarissima a un primo ascolto distratto della musica degli Alvvays. Derivativa, una parola che in critica musicale assume sovente sfumature negative, ma che è necessaria per descrivere la proposta deliziosamente passatista della band, nelle cui mani però il jangle un filo rumoroso degli indie-popper dei tempi andati acquista nuova vitalità e va a colorare delle canzoni scritte con estro, leggerezza e puro genio pop. Un sottile accento lo-fi rende la leggera pastella indie-pop degli Alvvays un filo granulosa, fino a farla diventare dolce come crêpes perfettamente bilanciate negli ingredienti ma con la farina versata nell’impasto senza setacciarla troppo meticolosamente.

Una volta stabilitasi a Toronto, la band inizia a registrare singoli, su tutti “Adult Diversion”, che diventano presto piccoli cult, tanto da garantirle il ruolo di spalla a formazioni canadesi del calibro di Peter Bjorn And John e Decemberists. Coprodotto e distribuito da Transgressive, Polyvinyl e Royal Mountain, il primo disco eponimo della band viene registrato nel 2013 con la supervisione e il missaggio rispettivamente di Chad VanGaalen e John Agnello. Una volta pronto, Alvvays viene pubblicato nel luglio 2014.
Il disco si apre proprio con “Adult Diversion”, che con la sua ritmica ruspante e le chitarre un pelo increspate di distorsione ci investe con la sua leggerezza agrodolce e con la malinconia tanto cara alla Rankin. La melodia è tanto semplice quanto efficace, nel catturare l’emozione febbrile di un corteggiamento goffo, tra inseguimenti nei sottopassaggi della metropolitana e cocktail di troppo per trovare il coraggio. Segue quello che è probabilmente il capolavoro della band nonché il suo brano più famoso: “Archie, Marry Me”. Anche qui la melodia è assolutamente perfetta e le parti strumentali sono di una delicatezza prodigiosa, mentre Molly implora il suo Archie di sposarla, senza badare a cerimonie e spese pazze, preoccupandosi invece semplicemente di firmare i documenti. Nonostante le liriche della canzone siano imbevute di ironia e dei problemi economici tipici dei millennial, gli arrangiamenti zuccherini ne fatto un bozzetto quasi poetico.
Il romanticismo postmoderno la fa da padrone anche nella carezzevole “Ones Who Love You”, dove la voce alla melassa di Molly scivola sulle chitarre e sulla ritmica sdrucciolevole, allungandosi fino a lambire il dream-pop. Il disco non perde colpi e procede risoluto nel collezionare una melodia vincente dopo l’altra con “Next Of Kin”, numero jangle prodigioso nell’eguagliare la qualità dei suoi modelli più illustri.
Un impasto micidiale di chitarra twee, tastiere agrodolci e lacrime riporta in scena la malinconia, più potente che mai, nella gemma che spacca il disco in due, una “Party Police” così immediata ed efficace che, forse perché ne conserviamo la sostanza nel cuore, sembra di conoscere già sin dal primo ascolto. Così come abbiamo ben impresse nella mente bugie a noi stessi come “When you whisper you don't think of me that way/ When I mention you don't mean that much to me” e tutti gli altri sospiri romantici che fanno di “The Agency Group” un’altra dolce piscina di lacrime in cui sguazzare giulivi.
Si scivola poi verso il finale prima con la deliziosa ballata dal ritmo di una ninnananna “Dives”, poi con la frizzante “Atop A Cake”, ennesima riprova dello stato di grazia melodico e compositivo di una band che sembra tutt’altro che alle prime armi. Ci si discioglie, infine, in un trasognato mare di riverberi intitolato “Red Planet”. È la delicata chiusura di 32 minuti di melodie cristalline e lievi che sembrano persi nel tempo, registrati nel nuovo millennio, ma che potrebbero risalire a una ventina d'anni prima.

 

Appena tre anni dopo, sempre sotto l’egida di Polyvinyl, Transgressive e PIAS, gli Alvvays danno vita al loro secondo album, Antisocialities. Il disco non vede aggiornamenti rispetto al suo illustre predecessore, gli Alvvays sono fedeli al loro canone vincente, a Molly e gli altri interessa soltanto inanellare un’altra sequela di brani indie-pop perfetti, appiccicosi ed emozionanti.
È forse la sola Kelly MacLellan a cambiare qualcosa, ritagliando più spazio per le sue tastiere vintage, in un disco che rispetto all’esordio perde forse soltanto un po’ di urgenza e spontaneità. O forse è soltanto colpa del mancato effetto-novità, e se i dischi fossero usciti in ordine inverso non avremmo fatto quest’appunto.
Anche questa volta tocca al brano più ruspante di tutti dare l’abbrivio al disco, una “In Undertow” che accende le chitarre via via fino a farne bruciare i riverberi come braci. La ricerca ossessiva di una faccia nella folla, il desiderio ardente di sognarla ogni notte sono gli ingredienti del susseguente instant classic “Dreams Tonite”, un brano secondo per fama soltanto ad “Archie Marry Me”.
Dopo la languida noia di provincia inscenata da ”Plimsoll Punks”, è la volta di “Your Type”, un power pop che si distende grazie alle tastiere tra una strofa e l’altra, mentre la Rankin fa volteggiare la sua voce zuccherina nei suoi gorgheggi più spericolati. Anche un amore finito, quello di “Not My Baby”, diventa per gli Alvvays un luogo in cui crogiolarsi, con la chitarra e la tastiera che si intrecciano disegnando laghi gelati e la notte che si dissolve.
Dicevamo poi del maggior spazio conquistato dalla MacLellan, che in “Hey” domina la scena con un tripudio di tastiere multiformi e vorticose, mentre nella romantica chiosa del disco, la meravigliosa “Forget About Life”, costruisce l’atmosfera vaporosa in cui Molly può far danzare la sua voce seminuda.
Notevoli anche i due numeri noise-pop “Lollypop (Ode To Jim)” e “Saved By A Waif”, entrambi insaporiti da corposi accenti britpop, così come la ballata scheletrica immersa nel ghiaccio canadese “Already Gone”, davvero struggente al momento delle sue dissonanze finali.

Gli Alvvays non avrebbero mai voluto aspettare 5 anni per realizzare e pubblicare un nuovo disco. Si tratta però di una band che non scrive mai durante i tour e il successo di Antisocialities ne comportò uno molto più lungo del previsto. Poi ci si misero la pandemia e la conseguente chiusura delle frontiere tra Canada e Stati Uniti – con quest’ultima che portò addirittura persino alla fuoriuscita dal gruppo della sua intera sezione ritmica. Ritornata la tanto agognata normalità, il nucleo del gruppo, formato al solito da Molly Rankin (voce e chitarra), Alec O’Hanley (chitarra) e Kerri MacLellan (tastiere), imbarcò però due ottimi sostituti quali Abbey Blackwell (basso) e Sheridan Riley (batteria).
Nonostante il lungo periodo di stallo creativo, lo stile sognante degli Alvvays è rimasto quello di sempre. Le piccole novità di Blue Rev, terzo lavoro della formazione, risiedono dunque solo e soltanto nelle sfumature, nelle pieghe di brani dagli arrangiamenti semplici soltanto in apparenza, curati invece maniacalmente in ogni dettaglio.

 

Lo possiamo dire subito forte e chiaro: anche questa terza collezione di brani della formazione canadese, la loro più lunga (14 brani per 38 minuti di musica), non conosce cedimenti. Non stupisce, dunque, che in molti possano considerarla la migliore rilasciata finora. L’indie pop frizzante quanto malinconico della band si fa scrigno ancora una volta di storie agrodolci, delusioni amorose e ironia. tanta ironia. Non ci avessero abituato gli Alvvays così bene, ci stupirebbe quante grandi canzoni, dall’impatto letteralmente fulminante, possano essere realizzate da una band che manipola una materia così abusata come il noise pop di derivazione C86.
L’opener “Pharmacist” e la sua melodia sospirata ci trascinano subito in un vortice di riverberi e pensieri melanconici così universali da sembrare nostri; il fugace e svolazzante assolo di O’Hanley piazzato sul finale lascia estasiati e con l’acquolina alla bocca. Continua il dolcissimo rumore di fondo e un rimuginare poetico e ossessivo di pensieri, che prendono forma nei gorgheggi zuccherini di Molly, nella successiva “Easy On Your Own”, brano con un ritornello se possibile più immediato del precedente.
Le cose si fanno più limpide e scintillanti nel twee pop di “After The Heartquake”, mentre “Tom Verlaine”… beh un brano degli Alvvays dedicato al chitarrista dei Television bisogna soltanto correre ad ascoltarlo.

 

In alcuni episodi di Blue Rev sembra poi che gli Alvvays abbiano sentito la necessità di alzare il volume. Con il suo tintinnare di chitarre metalliche, già “Pressed” infonde una buona dose di adrenalina, ma sono le code di “Many Mirrors” e “Lottery Noises” a sorprendere davvero quando flirtano con lo shoegaze e lasciano brillare riverberi tonanti e flanger.
Divertentissimo poi il numero guidato dalle tastiere giocattolose della MacLellan , una “Very Online Guy” che ridacchia di gusto dei leoni da dating app; mentre tra archi struggenti, drum pad e tastiere anni ’80,  “Tile By Tile” ci mostra Molly e la sua band alle prese con uno sdrucciolevole numero da ballo di fine anno.
Arricchiscono di ulteriore varietà il prezioso lotto una dolce ballata indie pop come “Velveteen” e il suo contraltare “Pomeranian Spinster”, noise pop a rotta di collo ad animare l’ennesimo ritornello a presa immediata.

Alvvays

Discografia

Alvvays(Polyvinyl, 2014)7,5
Antisocialities(Polyvinyl)
7
Blue Rev (Polyvinyl/Transgressive)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Archie, Marry Me
(da Alvvays, 2014)

Dreams Tonite
(da Antisocialities, 2017)

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