America

America

Un sogno lungo cinquant'anni

Figli di militari americani di stanza in Inghilterra, gli America hanno descritto con la loro musica un continente conosciuto solo nell'infanzia e per buona parte ricostruito con la propria immaginazione. Eccone la storia: dalle prove di armonizzazione chiusi in macchina alla collaborazione con George Martin, fino ai numerosi dischi d'oro e al declino dell'ultima fase di carriera

di Lorenzo Righetto

Non c’è niente di più contemporaneo che sognare, dalla penombra della propria stanza, di altri mondi, nello spazio e nel tempo, confonderli tra di loro e coi propri ricordi, cercando di ricostruire una propria memoria di fatti mai accaduti. Questo è quanto hanno fatto gli America, quando non erano ancora ventenni, stipati in un’auto sotto la pioggia inglese, immaginando, sognando di cavalcare per chilometri e chilometri sotto il sole del deserto, o di lanciarsi per le strade della California illuminate dalla luna.
Questa identità di sradicati e disadattati, di quasi diseredati, si è tradotta in un prodotto musicale unico nel suo genere: schernito per la sua naivetè quanto bersaglio di innumerevoli tentativi di imitazione per l’innocenza del suo sguardo; sdegnato al tempo per la quasi totale assenza di un messaggio politico quanto di fama duratura per il fascino indelebile delle sue canzoni. Nati al di fuori di una scena, gli America hanno avuto l’unica colpa di essere totalmente depoliticizzati anche quando i Beatles, insieme o da solisti, avevano abbracciato da tempo l’impegno diretto – di voler entrare nel calderone ribollente del mondo singer-songwriter senza avere messaggi altisonanti o storie violente da raccontare o vicende personali oscure, ma solo, in sostanza, tre voci, tre chitarre e una vaga nostalgia per terre lontane e, in un caso, addirittura mai conosciute.

Gerry Beckley, Dewey Bunnell e Dan Peek, figli di militari americani, si conoscono infatti in un liceo-enclave di Watford, nel Regno Unito, dove i genitori si sono stabiliti. Fuori c’è l’Inghilterra, ma lì sembra di essere in una qualunque high school del Midwest, una specie di bolla virtuale in cui cercare di ricreare una vita che si è solo assaggiata, nel migliore dei casi, o che si è annusata nei ricordi casalinghi. Cosa importante, una realtà “fittizia” anche nel suo essere edulcorata e distante da tutti i sommovimenti politici che si respiravano nei licei americani (o di qualsiasi altro posto, se è per questo) all’epoca.
Finito il liceo, Dan raggiunge davvero l’America, iscrivendosi a Economia all’università. È il ’69; già un anno dopo sarà di ritorno a Londra, dove troverà Dewey e Gerry che cercano di inserirsi nella scena artistica londinese. Dewey (che ha già in canna qualche suo pezzo, i prototipi di “Riverside” e “Three Roses”) e Dan lavorano insieme come aiuto-cuochi; Gerry invece sta cercando di diventare musicista a tutti gli effetti.
Nella disapprovazione esplicita dei genitori, i tre diventano un gruppo, più o meno esplicitamente – si trovano a casa di uno o dell’altro per suonare insieme (niente di più di un paio di acustiche, comunque), o, quando i genitori li cacciano di casa, chiusi in un’auto, il luogo migliore per sviluppare le loro celebri armonizzazioni. Lavorare e vivere a Londra porta i primi effetti: i tre entrano, per vie traverse, in contatto con Ian Samwell, già cantautore e chitarrista per Cliff Richards negli anni 50, ai tempi dipendente Warner. Questi si interessa a loro tanto da raccomandarli presso Jeff Dexter, dj londinese ma soprattutto deus ex machina in quegli anni di tutti i concerti più importanti tra gli emergenti in città. Nel frattempo ci sarà finalmente il battesimo del gruppo, finora senza nome, ispirato da un juke-box di “Americana”.

La Warner mette sotto contratto gli America solo quando Ian stesso si offre di produrre il disco (in una delle sue rarissime, selezionate produzioni). Il suo contributo, per quanto inaspettato (e un po’ forzato), sarà fondamentale per definire il sound degli America: i tre infatti si recano in studio, emozionati ed esuberanti, con in testa arrangiamenti alla George Martin, pensando di registrare un nuovo “Sgt. Pepper”, ma Samwell li ferma subito. Il materiale degli America non può reggere un impianto sonoro barocco, né i tre possono permettersi di riprodurlo dal vivo – gli America devono continuare a suonare come tre ragazzi e un paio di chitarre, chiusi in un’auto sotto la pioggia. Beckley definirà il sound come uno stile elettrico suonato con chitarre acustiche.

america_vAmerica è un tripudio di ritmi e metallo squillante, guidato dal caratteristico groove arioso, un soul delle praterie, delle composizioni di Bunnell (ecco infatti, subito, l’andamento sincopato, irresistibile di “Three Roses”). Bunnell, Beckley e Peek riprendono pesantemente il carattere intimo e organico di “Teaser And The Firecat”, di “After The Gold Rush”, ma soprattutto dei loro alter ego americani: Crosby, Stills e Nash, che hanno esordito qualche anno prima, nel ’69, e hanno già iniziato la collaborazione con Young nello storico “Deja Vu”.
Rispetto a questi nomi del cantautorato americano e inglese, gli America sono la controfigura inesperta, acerba: a parte gli sprazzi di nonsense emotivo/paesaggistico di Bunnell (e anche una sorta di violenza, di aggressività mal repressa, come nella cupa “Sandman”), i testi di America toccano il melenso adolescenziale (il Lennon-iano piano in battere di “I Need You”, la prima canzone mai scritta da Beckley, il playboy del gruppo – è difficile immaginarsi un Neil Young tentare un contatto coi Bee Gees) e in generale non si spingono al di là di un inoffensivo messaggio ecumenico, in pieno stile pop band.
Forse è per questo che gli America sono, oggi, una delle band più influenti, nel panorama indipendente (e non) – sono stati i primi a mescolare tradizione pop britannica con uno stile americano (qui il riferimento più netto è certamente “Crosby, Stills and Nash”, anche se le inflessioni Beatles-iane si intrufolano di frequente, nelle armonie sospese, quasi psichedeliche di “Never Found The Time”, per dirne una). E per lo stesso motivo erano, agli inizi dei 70 (ma anche di recente), una delle band-bersaglio dei critici, per il tono percettibilmente immaturo (ai tempi, va ricordato, il più vecchio dei tre era l’appena ventenne Peek).
America è infatti un disco profondamente istintivo: fin dalle pennate, sorde, di “Riverside” ci si avventura in un mondo di coloriture musicali, soprattutto acustiche, di raro gusto, con sterzate armoniche e strumentali ben al di fuori dei canoni dei cosiddetti “fratelli maggiori”. In alcuni casi, il drive dei pezzi è palpabile, investe l’ascoltatore (gli improvvisi cambi di passo di “Here”). “America” è anche un disco, nello stesso tempo, immediatamente famigliare, ogni sua canzone potrebbe essere quella hit mancata che un tuo parente musicista ti ha suonato una volta - ed è facile immaginare i tre suonare “Clarice” in soggiorno, si avverte il piacere di intrecciare strumming e arpeggi così come le voci. È uno di quei dischi che può spingere tre ragazzi a trovarsi, un pomeriggio, con le chitarre in grembo.

Nonostante questo, America non è il grande successo che Samwell e la Warner avrebbero voluto. L’album viene pubblicato sulla scorta della struggente ballata “I Need You” come primo brano. La band si fa conoscere, grazie agli appoggi di Dexter, nell’ambiente londinese, America entra in classifica in Olanda, ma manca ancora qualcosa. Samwell si rende conto dell’inadeguatezza di “I Need You” come singolo di lancio, e chiede alla band di produrre nuovo materiale.
A questo punto spunta fuori una vecchia canzone di Dewey, intitolata “Desert Song”, che non era ancora presente nella prima edizione del disco. Faceva così:

I’ve been through desert on a horse with no name
It felt good to be out of the rain
In the desert
You can remember your name
Cause there ain't no one for to give you no pain
La-laa-laa-lalla lal-lala-laa-la

Samwell capisce subito che si tratta della traccia giusta, e che, “ovviamente”, il suo vero titolo era “Horse With No Name”. In quella canzone c’è quasi tutto della musica degli America, perlomeno della loro prima parte, quella espressa da Bunnell, una sorta di incrocio tra Neil Young (e su questa canzone non mancheranno le critiche precotte sulla somiglianza di timbro e impostazione tra i due - come se fosse una colpa) e il Selvaggio Huxley-iano. In “Horse With No Name” il mondo diventa improvvisamente idealizzato e poetico, un luogo immaginario e immateriale, anche se descritto con parole quasi pedanti (“The heat was hot and the ground was dry”).
America viene così rilanciato in sella a questo “Horse With No Name”: mentre i tre lavorano al disco successivo, il brano scala le classifiche in Olanda e Regno Unito, fino allo sconvolgente risultato del 25 marzo 1972 – “Horse With No Name” va al primo posto della classifica dei singoli Billboard negli Stati Uniti, seguito a ruota da America (furbescamente ristampato col nuovo singolo in side A) nella classifica degli album. È un fulmine a ciel sereno non solo per la band, ma per tutta l’industria musicale. Gli America sono costretti a interrompere la lavorazione del nuovo disco e a imbarcarsi per il paese natale, nel quale tutti si chiedono chi siano i tre ragazzi.
Nonostante il loro primo tour, per decisione di Dexter e Samwell, sia limitato a piccoli club e a locali di provincia, gli America irrompono su tutte le maggiori riviste, nelle quali il sentimento prevalente è una malcelata sorpresa per il successo della band unita all’accusa di plagio e di degradazione di CSN&Y.
Il successo è travolgente e spinge il secondo singolo, ancora “I Need You”, fino alla Top 10 Billboard.

Il secondo disco, Homecoming, viene appunto registrato in California. In questo album gli America si arricchiscono di una band (con due musicisti di primissimo livello come Hal Blaine e Joe Osborn) e arrotondano il proprio sound, con qualche intro di solo pianoforte (nella suadente, soul “To Each His Own” e nel pop svagato e ancora Beatles-iano di “Only In Your Heart”) e qualche brano di impronta prettamente elettrica (il gospel-rock di “Cornwall Blank”).
Uscito nel novembre 1972, il disco si apre con quella che forse è la canzone più emozionante della carriera degli America, “Ventura Highway”, seconda solo a “Horse With No Name” come popolarità tra i fan e fortunata nel suo lancio come primo singolo. Introdotta da un riff svolazzante e inconfondibile, uno sbuffo di libertà, la canzone disegna, con le immagini fiabesche e sognanti di Bunnell (gli alligatori e le lucertole nell’aria), l’esperienza di bucare in autostrada nel mezzo della notte, tra scorci paesaggistici e rimuginazioni interiori.
Dopo il flop del secondo (la non straordinaria “Don’t Cross The River”, con un ritornello irrisolto, quasi ansiogeno) e ancora di più del terzo singolo (“Only In Your Heart”), i critici non stanno più nella pelle, decretando la fine prematura della band. Il loro sound si è fatto bolso, le canzoni noiose. È vero, in Homecoming, com’è normale succeda quando si chiamano musicisti di grido, non c’è più l’urgenza naive dell’esordio – qualcuno potrebbe pensare che gli America tentino di ammiccare a band e artisti più grandi di loro, come nella lunga jam acustica di “Moon Song” e nel finale corale di “Saturn Nights”.
Ma, se l’arrangiamento e l’esecuzione tentano (spesso con successo, per altro) la strada di una maturità ancora da conquistare, la scrittura di Homecoming è spesso più completa e ispirata, con intuizioni melodiche da pelle d’oca disseminati per tutto il disco, come nella breve “Till The Sun Comes Up Again”. Sebbene decisamente più “americano” di America, riesce comunque a riassumere gli stili e le sensazioni evocate dalla musica della band, in modo più compatto e coerente del predecessore.

Nonostante la vittoria, nel 1972, del Grammy come Best New Artist davanti agli Eagles, gli America confermano nel seguente Hattrick (che continuerà la tradizione dell’iniziale H) un deciso calo di presa sul pubblico (il primo singolo, la melliflua e non proprio entusiasmante “Muskrat Love”) ma anche d’ispirazione, al terzo disco pubblicato in tre anni.
Nonostante gli obiettivi di “segnare una tripletta”, il disco vedrà la band scomparire dalle hit parade europee e fare appena capolino nelle chart negli Stati Uniti. Hattrick è un disco senza mordente e con poche emozioni, se non questo tono generale da corteggiamento ozioso. Molto si fonda su un generale ispessimento degli arrangiamenti, con archi e riff sempre più invadenti di elettrica (si veda la crassa “Green Monkey”) – e addirittura, qualche mossa di tip tap, nella (estenuante) title track, in cui si segnala soprattutto la collaborazione con Carl Wilson.
Gli America si scoprono, in questo terzo disco, appesantiti e in crisi di pubblico – prendendosi un bel rischio, decidono di non far seguire un tour alla pubblicazione di Hattrick. Consapevoli di dover alzare il livello del loro gioco per sopravvivere nel mondo discografico, decidono nel contempo di provare a esaudire un loro sogno nel cassetto. È così che un giorno fissano un incontro con George Martin, approfittando della sua presenza in California per una nomination agli Oscar.

Scarafaggi americani

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Martin, quando incontra gli America, sta pensando di ritirarsi. Accetta di produrre il loro disco a una sola condizione: che lo facciano a Londra nei suoi studi. A sorprendere i tre non è solo il suo talento di musicista, ma anche il suo stile di produzione, molto più istintivo del loro, che si era perso ormai nella pignoleria. Dopo due o tre take, fermava la registrazione: “Questo è il sentimento che cercate per questa canzone”. Se qualche fill veniva dimenticato, veniva aggiunto successivamente.
In tre settimane nasce Holiday, il disco naturalmente più pop e Beatles-iano della band, in cui, per stessa ammissione della band, gli arrangiamenti di Martin valgono quanto le canzoni. Gli archi, i fiati, gli stacchi di pianoforte fanno risaltare e ravvivano la scrittura degli America (tornata a fuoco nel periodo di pausa), alleggerendo il tono di pezzi più gravi come “Another Try” e donando invece sprazzi di romanticismo epico a brani più intimi (eliminando nel contempo qualsiasi traccia del melenso che spesso contraddistingueva in negativo gli America, esempio massimo, qui, in “You”) come “Glad To See You”, conducendo per mano gli America in divertiti duetti come “Mad Dog”, o in quadretti disincantati di dolce vita in “Hollywood”.
Il risultato insomma è decisamente quello sperato: Holiday riesce a essere ricco e leggero allo stesso tempo, ed è forse a tutt’oggi, se non il più rappresentativo, probabilmente il disco più riuscito in tutti i sensi della band anglo-americana. Mantiene la duplice impronta sixties inglesi/seventies americani, lasciando sostanzialmente immutata l’anima acustica della band, soprattutto nei brani meno Beatles-iani, come il singolo di lancio, “Tin Man”, e “Baby It’s Up To You” – inserendosi solo nel crooning imberbe e bucolico di “Old Man Took”.
Raramente le tracce si spingono oltre i tre minuti, ed è anche azzeccato il tentativo di muoversi su registri vocali diversi, sia rispetto alla tonalità (“In The Country”), o giocando con la presa “mono” (“What Does It Matter”).
Nell’estate del 1974, le radio trasmettono il ritornello di “Tin Man”, che ha forse il testo più bello mai scritto dagli America: “Oz never did give nothing to the Tin Man that he didn't, didn't already have”. Grazie anche al nome di Martin il pezzo è molto gettonato dalle radio, e raggiunge il numero 4 nella Billboard – il miglior risultato per la band dopo il N.1 di “Horse With No Name”.
Il secondo singolo, “Lonely People” di Peek, un inno di speranza vagamente Harrison-iano, fa ancora breccia nel cuore del pubblico, spingendosi fino al numero 5 – sulla scorta di questi singoli (forse i meno riconoscibilmente arrangiati da Martin, anche se non sarebbero gli stessi senza certi stacchi di pianoforte…) anche Holiday si posiziona in terza posizione e rimarrà in classifica per oltre un anno.

La collaborazione tra George Martin e gli America, spinta da questo successo, è a pieno regime, e già l’album successivo entra in fase di lavorazione, svolta in questo caso in “casa” del gruppo, a Sausalito, dall’altra parte del Golden Gate rispetto a San Francisco. Hearts riesce quasi a doppiare il successo del precedente, per quanto meno consistente dal punto di vista qualitativo.
È però lanciato da due singoli molto forti, il country-pop venato di West Coast, in pieno stile America, di “Sister Golden Hair” e la ballatona instant classic “Daisy Jane”, con un attacco irresistibile (“Flying me back to Memphis/ Gotta find my Daisy Jane/ But the summer’s gone and I hope she’s/ Feeling the same”) e il killer refrain: “Does she really love me?/ I think she does”.
Per quanto meno solido (alcuni brani davvero deboli, anche e soprattutto nell’infilata che segue “Daisy Jane” in apertura, “Half A Man”, “Midnight” e “Bell Tree”) del predecessore, Hearts è un disco soprattutto di chicche, come gli svolazzi armonici della finale “Seasons” o l’accumularsi di strumenti di “The Story Of A Teenager” – volendo anche la melodia “post-conciliare” di “Tomorrow”.
Il suggello a questo ritorno di fiamma degli America viene dato da una precoce pubblicazione del primo greatest hits della band, intitolato, come da tradizione, History, che esce nell’ottobre 1975 e a dicembre è già disco d’oro, il sesto della band. Rimarrà in classifica fino al 1977.

George Martin e gli America lavoreranno ancora insieme a due dischi, Hideaway e Harbor. I due dischi, il primo registrato al Caribou Ranch dove si recò anche Elton John per il suo “Caribou”, il secondo alle Hawaii, segnano ancora una volta il declino (questa volta irreversibile) della band, che non riuscirà più a far entrare in Top10 un suo singolo – Harbor sarà il primo disco dopo Hat Trick a non diventare disco d’oro.
In particolare Hideaway vede tornare quel melenso, quel carattere tipicamente cheesy delle peggiori cose scritte dagli America, con episodi di crooning di serie B come “Who Loves You”, o singalong inclini al patetico come “Can’t You See” - ma anche brani più sostenuti da dinosauri del rock come “Don’t Let It Get You Down”.

Il primo singolo, “Today’s The Day” di Dan, non è da meno nel presentare il lato deteriore dei tre – a risaltare è unicamente un insipido senso del pudico, in un brano che anche Martin non riesce particolarmente a nobilitare, in una produzione più scontata del solito (a esclusione del dimenticabile arrangiamento reggae di “Lovely Night”). Neanche il più classico brano Bunnell-iano, “Amber Cascades” (il migliore del disco, nonostante la ripetitività nella scrittura), sa risollevare le sorti del disco nelle classifiche, in cui comunque Hideaway segna un dignitoso undicesimo posto.

Il vero segnale della perdita di un largo successo di pubblico viene nel seguente Harbor, un disco dal quale, se non altro, traspare il divertimento dei tre nelle sessioni di registrazione, oltre a un sound ammodernato agli ormai incombenti, con brani a base di basso e sassofono come “Slow Down”. In questo spirito “hawaiiano”, confessioni imbarazzate come “These Brown Eyes” acquisiscono una certa forza empatica, sebbene sul piano della scrittura ci sia ancora una volta poco da segnalare. I brani sono spenti, così spenti che potrebbero essere arrangiati in qualsiasi modo, e le trovate di Martin hanno ben poco effetto - la semplicità cede presto il posto a un’elementarità infantile.

Un nuovo inizio

Il 1976 è comunque un anno fortunato per gli America, le cui canzoni sono perfette per un tour celebrativo del bicentenario della Dichiarazione di Indipendenza. È il successivo a rappresentare la fine di un’era per la band, intorno alla quale girano voci, soprattutto rispetto al contratto ormai estinto con la Warner – ma è l’annuncio dell’abbandono della band da parte di Dan Peek a scuotere gli ancora numerosi fan della band.
La vicenda di Dan nasce dalla preghiera a Dio, fatta quando ancora gli America non esistevano, in cui chiedeva di diventare un cantante rock per diffondere la Parola: “In qualche modo non seppi rispettare la mia parte dello scambio con Dio. Immagino che temessi di perdere la mia popolarità se avessi parlato a nome del Signore. Invece mi imbarcai in un viaggio sulla strada del Peccato. Fino al 1977 gli America avevano vinto più di 20 dischi d’oro e di platino in tutto il mondo. Suonavamo davanti a folle di 100000 persone negli stadi e di 20000 nelle sale da concerto. Viaggiavamo per il globo su un jet privato. Perché ero così infelice? Una notte, mentre ero completamente fatto, scivolai e caddi da una scogliera davanti a casa mia sulla spiaggia in California. O mi buttai? Mentre stavo in ospedale per riprendermi, cominciai a guardare indietro alla mia vita. Dove avevo sbagliato? Ero una persona di successo sotto ogni standard mondiale, ma ero disperatamente triste. Sapevo che la mia unica speranza era Gesù”.

Gli America non finiscono qui (né l’amicizia tra i tre): Beckley e Bunnell eliminano i brani di Peek dalle setlist dei concerti e continuano da soli. La prima produzione del duo sarà, curiosamente e coraggiosamente, un concerto, nel quale l’assenza della terza voce si fa impietosamente sentire, anche se Martin aggiungerà la sua mano con un inedito arrangiamento orchestrale per “A Horse With No Name”. Live è la registrazione del concerto al Los Angeles Greek Theater del 24 luglio 1977, con Elmer Bernstein a dirigere l’orchestra. Ma il tutto suona come il lavoro disgiunto di due cantautori diversi, e l’operazione sembra quasi un espediente per chiudere il contratto con la Warner e ricominciare da zero.

Mentre Dan intraprende una carriera di relativo successo nelle Christian music, Gerry e Dewey ottengono un contratto con la Capitol, il cui primo prodotto è rappresentato dall’operazione di riammodernamento di Silent Letter. Con un suono pieno e interpretazioni più perentorie, gli America tentano di prendere una solida posizione in un soft-rock adulto e appagato.
Si avverte comunque l’energia del nuovo inizio, con lo stoppato caratteristico di Bunnell che diventa appoggio inevitabile per assecondare i ritmi emergenti all’epoca (“And Forever”), mentre i pezzi di Beckley prendono una piega più corposa (“No Fortune”). Gli squilli di sax ed elettrica proiettano gli America nella nuova fase della musica pop, ma le canzoni, per quanto si avverta un diverso lavoro di scrittura, sono ancora lontane dalla semplicità suggestiva delle grandi hit della band.
È così che anche Silent Letter (ribattezzato “Silent Record” dai due) scivola via dalle classifiche senza essere riuscito neanche a entrare nella Top 100 americana.
Nel frattempo Dan, accolto pian piano nella scena del country cristiano, pubblicherà ancora qualche disco negli anni 80, prima di ritirarsi a vita privata a partire dagli anni 90.

AmericaLa parabola degli America prosegue nel 1980 con Alibi, in cui Beckley e Bunnell si affidano ai produttori Matthew McCauley e Fred Mollin, oltre che a uno stuolo di nuovi musicisti di matrice West Coast, inclusi Timothy B. Schmit (ex-Eagles), Leland Sklar e Steve Lukather. Il risultato è un suono più marcatamente rock, ma a spiccare è la melodia struggente di “Survival”, un’elegante ballata country-pop che spopolerà in particolare in Italia, complice anche una partecipazione al Festival di Sanremo.
Per il resto, si lasciano apprezzare i languori country-rock di “Might Be Your Love” e della eaglesiana “Catch That Train”, la consueta voce eterea di Gerry Beckley in "Coastline" e l’energia rock di “Valentine” (tra i loro numeri più adrenalinici in assoluto).
Tuttavia l’album - griffato da un’orrenda copertina con la foto di una testa mozzata di bambola sullo sfondo di un deserto - si rivelerà un mezzo flop e non riuscirà ad andare oltre la posizione n. 142 delle classifiche statunitensi.

Più fortunato, dal punto di vista commerciale, il successivo View From The Ground (1982) per il quale gli America mobilitano una nuova pattuglia di ospiti di lusso: Carl Wilson (Beach Boys), Jeff Porcaro (Toto), Christopher Cross e Dean Parks. Ma la mano decisiva è quella del chitarrista Russ Ballard (ex-Argent), che produce e suona gran parte degli strumenti nell’accattivante "You Can Do Magic", il cui ritornello semplice e appiccicoso fa presa sulle classifiche, conquistando il n.8 tra i singoli di Billboard e regalando alla band il maggior successo in sette anni. "You Can Do Magic" è il sound degli America aggiornato all’era degli anni 80 sintetici: inutile dire che tutto ciò provocherà sdegnate reazioni nei fan della prim’ora.
Nel complesso, l’album si conferma frutto di un mestiere sapiente quanto, ormai, prevedibile, che alterna folk-song orecchiabili (“You Girl”, “Love On The Vine”), ballate da mattonella ("Right Before Your Eyes", omaggio a Rodolfo Valentino) e sussulti del rock che fu (la ruvida “Even The Score”). Esce un po’ dagli schemi, invece, l’uptempo di "Never Be Lonely" che oltre alle consuete, preziose armonie vocali, mette in luce una tintinnante chitarra jingle-jangle.
Rimessa in carreggiata la loro macchina da hit, gli America si parcheggiano al n.41 delle classifiche degli album, in un decennio che ormai suona un’altra musica.

L’exploit di View From The Ground vale a Ballard la conferma in cabina di regia per l’intera produzione del successivo Your Move. Il risultato, però, è di fatto una estromissione di Beckley e Bunnell dal processo compositivo. “Quando arrivammo a Londra – racconta Beckley – ci accorgemmo che in realtà gran parte dei brani erano suoi, così di fatto venimmo rimossi dall’album. Anche nelle canzoni scritte da noi, è in realtà lui a suonare tutto”. A non soddisfare il gruppo, però, erano soprattutto le liriche, come quella di "The Border", in cui il britannico Ballard era incappato in una serie di cliché e imprecisioni sull’epica della Frontiera, così Beckley si prese l’incarico di riscrivere da capo l’intero testo.
Ciò che viene completamente meno, però, è la coerenza musicale del progetto: ballate anonime come "She's A Runaway", "Tonight Is For Dreamers" "Honey" e "Don't Let Me Be Lonely" rasentano l’impalpabilità, “Your Move” tenta il bis di “You Can Do Magic” con risultati imbarazzanti, e stavolta non basta neanche la scossa upbeat di "My Kinda Woman" a risollevare le sorti di un album fiacco e sconclusionato.

Nel frattempo gli America si dedicano anche alla scrittura di alcune colonne sonore per film, come quella di The Last Unicorn, che otterrà una certa popolarità soprattutto in Germania.

Per il dodicesimo album in studio, Perspective (1984), gli America decidono di voltare ancora pagina: Ballard viene estromesso, ma, a sorpresa, ciò non comporta un ritorno al passato, bensì un’accentuazione degli elementi elettronici, con massicce iniezioni di sintetizzatori e drum machine. Si alternano addirittura in sette in cabina di regia (tra i quali, Richie Zito, Matthew McCauley e Richard James Burgess), per un esito finale che ricalca pedissequamente le produzioni di pop elettronico dell’epoca, snaturando del tutto il sound della band. È anche la conferma della crisi di idee del gruppo, costretto ad appaltare ad altri autori il presunto hit (l’electro-pop di "Special Girl", un buco nell’acqua che fallirà anche l’appuntamento con le chart), mentre il successivo singolo "(Can't Fall Asleep To A) Lullaby", firmato da Bunnell insieme a Steve Perry dei Journey, Robert Haimer e Bill Mumy, si impantanerà nelle acque del più limaccioso easy listening.
Perspective non andrà oltre un modesto n.185 in classifica e suggellerà la definitiva decadenza della formazione americana, ormai lontanissima dallo stato di grazia raggiunto negli anni 70.

Così Beckley e Bunnell chiudono la loro esperienza discografica con la Capitol con il live In Concert (1985), registrato all’Arlington Theater di Santa Barbara, California. Un congedo che non sarebbe potuto essere più malinconico: sarà anche il primo disco degli America a fallire completamente l’aggancio alle chart.
Cionondimeno, Beckley e Bunnell spendono buona parte della seconda metà degli Eighties in giro per concerti.

Quando ormai erano dati per persi, rispolverati solo da qualche appassionato attraverso le ristampe in cd dei loro classici, ridotti addirittura a partecipare a Sanremo presentando la versione inglese (“Last Two to Dance”) di una canzone di Sandro Giacobbe (“Io vorrei”), gli America tentano una difficile risalita, grazie anche al supporto di Chip Davis della American Gramaphone Records, che li ingaggia per un nuovo album in studio.
Primo disco degli America in dieci anni, Hourglass (1994) riporta in cabina di regia il duo Beckley-Bunnell, affiancato dalle mani sapienti di Hank Linderman e Steve Levine, dimostrando, se non altro una più ampia gamma di stili e arrangiamenti, che vale loro un rinnovato interesse da parte della critica. Le melodie delicate di "Young Moon" e "Hope", però, non bastano a riscattare un lavoro complessivamente scialbo e senza sussulti, in cui ri-compare perfino una nuova (?), inutile "You Can Do Magic", a metà tra scopiazzatura e cover.
Il disco è anche il primo, dall’abbandono di Dan Peek, a riprendere la tradizione dei titoli con l’H iniziale, durata ininterrottamente da Homecoming a Harbor, e che proseguirà anche nei successivi lavori della band.
Beckley, intanto, avvia una carriera solista con “Van Go Gan”, sperimentando nuovi stili e sonorità.

A cercare di risollevare le sorti degli America provvede anche una nuova uscita live ad opera della King Biscuit Flower Hour Records, In Concert, che ripesca una performance del 1982. Sarà l’occasione per un nuovo contratto con la Oxygen Records, sussidiaria della King Biscuit, che porterà alla pubblicazione di Human Nature (1998), cui non basterà la discreta accoglienza ricevuta dal singolo "From A Moving Train", onesto numero di pop acustico, per evitare un altro flop commerciale. Così anche la Oxygen taglia i ponti agli America, che si ritrovano ancora una volta senza casa discografica.

America oggi

Il nuovo millennio si apre con un triplo box celebrativo, Highway: 30 Years Of America, che include 64 tracce rimasterizzate. Un anno dopo è la volta di The Complete Greatest Hits, che raccoglie 17 singoli entrati nelle classifiche di Billboard, più due inediti ("World Of Light" e "Paradise"), che però non aggiungono nulla di significativo al loro repertorio. Quest’ultima antologia, tuttavia, avrà il merito di riportare gli America proprio nella chart di Billboard (n. 152) per la prima volta dal lontano 1984.

L’attuale realtà degli America, però, è fatta di scontati album natalizi (Holiday Harmony, 2002, con tanto di ode a "Ventura Highway" ribattezzata "Christmas In California") e anonimi album live, come l’acustico The Grand Cayman Concert.

Nel frattempo Beckley, dopo aver ripropinato in versione remixata le tracce di “Van Go Gan” su “Go Man Go” (2000), continua a inanellare flop solisti anche con i successivi “Horizontal Fall” (2006) e “Unfortunate Casino” (2011).

AmericaIl ritorno sulla scena degli America avviene in forma insolita, dopo una lunga corrispondenza di idee e brani tra Beckley e Adam Schlesinger della indie-rock band Fountains of Wayne. Le canzoni, sorte dal carteggio dei due, attirano l’attenzione della Burgundy Records (sussidiaria della SonyBmg), che frutta alla band un nuovo contratto in compagnia con lo stesso Schlesinger e il suo sodale James Iha, ex-Smashing Pumpkins alla console. Ne scaturisce il primo disco degli America edito su major dai tempi di Perspective (1984), dal titolo di Here & Now (2007). Alle session, presso lo Stratosphere Sound di New York, partecipano diversi ospiti di spicco, come Ryan Adams, Ben Kweller, Stephen Bishop, Rusty Young, oltre a membri di Nada Surf e My Morning Jacket.
All’album viene anche affiancato un secondo cd comprendente le performance live delle tracce di History: America's Greatest Hits, registrato allo studio Xm.
È una chiara operazione commerciale per cercare di tenere insieme il pubblico indie di Schlesinger & C. e i nostalgici seventies degli America. Obiettivo centrato, dal punto di vista delle vendite, con la conquista del n.52 della Billboard chart. Tuttavia, a ben guardare, l’album non è che l’ennesima rivisitazione del repertorio di una band che ha esaurito le frecce al suo arco da almeno trent’anni. Eppure l’apertura, affidata alla ballata avvolgente e semi-acustica di "Chasing The Rainbow", lascia ben sperare: un classico numero alla America, con melodia radiosa e armonie vocali a corredo; così come non stonano gli esotismi festosi della successiva "Indian Summer".
Ben presto, però, il disco cala di livello, alternando soporifere ballate ("One Chance", “Always Love”, “This Time", “Love & Leaving”) a stanchi esercizi di stile in salsa pop-rock ("Look At Me Now", "Work To Do"), ritrovando solo nel bozzetto psych-pop di "Ride On" e nel blues-rock della bonus track “Glass King” un po’ di verve, grazie anche al contributo di Ryan Adams al basso.

Pur con tutti i suoi limiti, Here & Now mostra comunque una band vogliosa di riprendersi una scena che troppi ingrati (e inconsistenti) emuli le hanno sottratto. Peccato che il successivo Back Pages (2011), registrato a Nashville, non sia altro che una raccolta di scipite cover di artisti vari (da Bob Dylan a Joni Mitchell, da Adam Schlesinger ai Gin Blossoms).
A turbarne l’uscita, la notizia dell’improvvisa morte di Dan Peek, a causa delle complicazioni di una pericardite, il 24 luglio 2011. Il sessantenne fondatore degli America, convertitosi al Cristianesimo, aveva pubblicato una serie di album di successo su pezzi di musica religiosa contemporanea. La sua autobiografia “An American Band” resterà la testimonianza più preziosa della stagione d’oro degli America. A incidere la loro impronta nella Hollywood Walk Of Fame, nel febbraio 2012, saranno solo Dewey Bunnell e Gerry Beckley.

America

Discografia

America (Warner, 1971)
Homecoming (Warner, 1972)
Hat Trick(Warner, 1973)
Holiday(Warner, 1974)
Hearts(Warner, 1975)
History: America's Greatest Hits (antologia, Warner, 1975)
Hideaway(Warner, 1976)
Live(Warner, 1977)
Harbor(Warner, 1977)
Silent Letter(Capitol, 1979)
Alibi(Capitol, 1980)
View From The Ground(Capitol, 1982)
The Last Unicorn O.S.T.(Capitol, 1982)
Your Move(Capitol, 1983)
Perspective (Capitol, 1984)
America In Concert(Capitol, 1985)
Hourglass(American Gramophone, 1994)
In Concert(King Biscuit Flower Hour, 1995)
Human Nature(Oxygen, 1998)
America Live(Emi, 2000)
Holiday Harmony(Rhino, 2002)
Struttin' Our Stuff(In-Akustik, 2004)
Here & Now(Burgundy, 2006)
Ventura Highway: Live(The Store For Music, 2012)
Back Pages (eOne Music, 2011)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Horse With No Name
(videoclip, da America, 1971)

I Need You
(live session, da America, 1971)

Ventura Highway
(live, da Homecoming, 1972)

Don't Cross The River
(live session, da Homecoming, 1972)

Tin Man
(live session, da Holiday, 1974)

Lonely People
(live, da Holiday, 1974)

Sister Golden Hair
(live, da Hearts, 1975)

Daisy Jane
(live session, da Hearts, 1975)

America sul web

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