Antlers - Peter Silberman

Antlers - Peter Silberman

La musica come cura

Drammi post-adolescenziali: la morte di una persona amata che ti disprezza; un aborto causato da una gravidanza troppo precoce; sensi di colpa che si accavallano in una spirale senza fine. Vicende umane non infrequenti ma che nella musica di Peter Silberman trovano un racconto, una confessione senza remore - dagli esordi acustici autoprodotti, passando per il grande concept "Hospice", fino al grande successo, accompagnato però da una rara crescita artistica

di Lorenzo Righetto

C’è una band, una persona, che ha interpretato, ha personificato il genere del cantautorato da cameretta, il bedroom-pop, spesso identificato con un suono “casalingo” e con testi spesso involuti, chiusi in sé stessi, tra l’auto-terapia post-adolescenziale e un intimismo esasperato e quasi pornografico. Peter Silberman con i suoi Antlers non ha preso alcuni ingredienti formali e ha elevato il genere a qualcosa di nuovo, di più maturo, in una sorta di darwinismo musicale, ha invece interpretato in pieno tutti gli aspetti di questo “genere” – accomunato da uno spirito e uno stile espressivo più che da un insieme di riferimenti o da un genere musicale tout court.
La musica di Silberman è  l’epitome della “musica da cameretta”, ne condivide tutto ciò che la rende amata e al tempo stesso odiata dal pubblico degli ascoltatori - a partire dalla voce, un esile lamento androgino, come un urlo inibito per non disturbare i vicini (fatto vero). Così la sua storia di amore, malattia e morte, il suo Hospice, rimarrà, brutto o bello che sia, uno dei dischi che definiscono il primo decennio dei Duemila, in parallelo con “For Emma, Forever Ago”, l’altra opera che ha portato all’estremo l’idea dell’artista che cura i suoi mali esistenziali in totale isolamento, riversandoli senza filtro nella sua musica. Ovviamente questo è il grande equivoco di questi anni (e non solo), ma quando Peter - così come Justin Vernon - ha provato a spiegare che l’arte non è vita e la vita non è arte, era ormai troppo tardi.

La musica di Silberman si può ben dire post-adolescenziale perché la sua carriera inizia quando lui è giovanissimo, neanche ventenne, con il suo primo Uprooted (2006), primo di due dischi interamente eseguiti da lui stesso, in solitaria. Singolarmente, però, da subito non mette il proprio nome sul disco, ma quello che si promette sarà il nome della sua band, gli Antlers. Benché fortemente debitore dell’eroe di Peter, Elliott Smith (“Nashua”, “Stonethrower”), Uprooted è anche una promessa di grandi capacità di scrittura, tra i suoi pattern acustici ammiccanti alla folktronica (“First Field”) o più raramente all’Americana (la Sheff-iana “I’m Hibernating”) e le sue progressioni post, che aprono il cuore o lo riempiono, in egual misura, di un male di vivere pesante e incurabile (“Keys”, il superbo quiet-loud della title track).
Brevi intarsi di rumore anticipano sfarfallii acustici (“Flash Floods Don’t Retreat”), ma la riuscita quanto minimalista impalcatura sonora è solo una conferma di una forte sostanza melodica, basata sulla scrittura assai naturale di Silberman, anzi infantile nel senso più nobile del termine. Ogni suo pezzo ha infatti la fluidità genuina di una ninna-nanna, o di una filastrocca.

È invece il secondo disco, In The Attic Of The Universe (2007), che permette a Silberman di cominciare a sviluppare più compiutamente la sua idea di musica, per quanto in modo imperfetto e acerbo. Si tratta di un album infatti che può essere considerato a tutti gli effetti un prototipo del successivo, come sonorità ma anche come sviluppo vero e proprio del disco. È qui che Peter infatti sviluppa la sua capacità di costruire un disco in senso anche narrativo, non come mera raccolta di canzoni, anche se forse in In The Attic Of The Universe a scarseggiare sono proprio queste, rispetto all’impianto.
In questo disco Silberman rende anche più personale e idiosincratico il suo stile vocale, modulando la voce in una sorta di falsetto vibrato (lontanamente reminiscente di quello di Antony), rendendo spettrali ma stranamente penetranti le sue confessioni. Tutto appare più drammatico, in una sorta di epica svolta nei confini di una cameretta (“On The Roof”). Rumorosità puntiformi si alternano a tonanti deflagrazioni, e allora la cameretta si fa mondo, quello interiore diventa esteriore, in una sorta di manifestazione dell’ossessione. Diversi, così, diventano gli intermezzi enigmatici (“Shhh!”, l’intro dronica di “Attic”) e i reprise strumentali (“Look!”, “The Carrying Arms”).
Rimane infine, in sostanza, una sola canzone a identificare l’andirivieni esistenziale di In The Attic Of The Universe, “The Universe Is Going To Catch You”, vero inno post-Elliott Smith, con un incalzante ritornello arrangiato su un tema di elettronica per bambini.

“Hospice”, o dei vari modi di perdere qualcuno

“[“Hospice”] racconta la storia di una relazione psicologicamente violenta, parte della quale ha luogo nel reparto di oncologia infantile. Il disco si muove dentro e fuori dall’ospedale, cosa veritiera rispetto alla relazione stessa. Fino a un certo punto è autobiografico, ma immagino che il miglior modo di descriverlo è che ci sono vari modi di perdere qualcuno. Non sempre avviene attraverso la morte, anche se ci assomiglia molto”.
(Peter Silberman)

antlers_vi_01Dopo l’uscita dei primi due dischi, nessuno o quasi conosce gli Antlers. Peter ha lasciato la piccola cittadina di Somers, dove è cresciuto, ai tempi di In The Attic Of The Universe, e lavora a Manhattan. È il momento e la condizione ideale – si immagina un misto tra il sollievo di poter vedere certe cose dalla distanza geografica e della propria indipendenza e la nostalgia acuita dal senso di colpa – per trasferire in un disco un passato giovane e difficile.
La registrazione di Hospice inizia nel luglio 2007, un anno e mezzo prima della sua prima pubblicazione. In mezzo, tutto il compendio di mitizzazione che ha accompagnato un disco di grande successo. Scene di dissoluzione interiore ed esteriore, abissi sfiorati e disegnati sullo spartito, un grande bagaglio di immagini drammatiche si sono succedute nell’immaginario collettivo di questi anni, superate solo da quelle che hanno trasformato una capanna del Wisconsin in un santuario pari alla tomba di Elvis Presley.
Il tutto, per quanto evocativo e rassicurante, certamente non rende giustizia a ciò che finalmente è l’avverarsi della promessa fatta a sé stesso da Silberman, ossia di formare una band a cui far suonare le sue canzoni. Prima una collaborazione con un’altra predestinata, Sharon Van Etten, e poi la conoscenza dei due compagni fino ad allora solo immaginari: il batterista Michael Lerner e il poli-strumentista Darby Cicci (trombettista, soprattutto).
I due si uniscono a Peter quando l’album è in piena lavorazione (i pezzi vengono scritti durante le registrazioni), e il risultato è un disco che mantiene lo spirito solitario e solipsista dei primi lavori degli Antlers, elevandolo a parabola universale con un sound compatto e di grande respiro.
I droni (“Prologue”, “Kettering”), l’elettronica casalinga (“Bear”, “Shiva”), il vago riverbero acustico, il falsetto sono ancora lì, ma le aperture strumentali non sono più una sovrapposizione di strumenti, ma vere trame di arrangiamento. La batteria non è mai un beat più o meno regolare per far salire di tono il pezzo, ma interloquisce coi brani.

Ed è così che prende forma una delle storie più toccanti degli ultimi anni:

I wish that I had known in
That first minute we met
The unpayable debt
That I owed you

Because you'd been abused
By the bone that refused you
And you hired me
To make up for that

And walking in that room
When you had tubes in your arms
Those singing morphine alarms
Out of tune

They had you sleeping and eating
And I didn't believe them
When they called you
A hurricane thundercloud

When I was checking vitals
I suggested a smile
You didn't talk for a while
You were freezing

You said you hated my tone
It made you feel so alone
So you told me
I had to be leaving

But something kept me standing
By that hospital bed
I should have quit but instead
I took care of you

You made me sleep all uneven
And I didn't believe them
When they told me that there
Was no saving you

Dopo l’annuncio di tempesta di “Prologue”, sono queste le parole che introducono a Hospice, narrate su un pattern ricorsivo di accordi al pianoforte (la ripetizione sarà sempre una caratteristica della scrittura di Silberman, ma è qui che assume un significato preciso). Improvvisamente la voce, quasi impersonale nel suo dolore sordo, interrompe le comunicazioni, e l’elettricità statica sembra improvvisamente esplodere in un raggelante arco di scintille.
Diventa insomma subito chiaro che si tratta di un disco dal quale non si esce facilmente, e l’andamento di “Sylvia” (citazione tanto di Sylvia Plath che del romanzo di Leonard Michaels), dolorosissimo saliscendi emotivo di contrazioni e brevi momenti di sorda tranquillità, lo conferma, con un finale in cui la deflagrazione sembra la definitiva e in qualche modo gloriosa catarsi dell’addio: “Sylvia, I only talk when you are sleeping/ That's when I tell you everything/ And I imagine that somehow you're going to hear me”.

In Hospice Silberman riesce a descrivere con estrema lucidità, nonostante l’evidente coinvolgimento (che lo porta a una schiettezza disarmante, più che all’autocommiserazione e all’invettiva), il dramma insito anche nei rapporti affettivi più intimi – non a caso cita come prima fonte di ispirazione letteraria Raymond Carver.
È l’accompagnamento, quasi sempre, a fornire una liberazione quasi rituale, liturgica: così i droni e i rumori di vetri chiudono la spirale di sensi di colpa di “Atrophy”.
Si arriva così alla canzone-simbolo del disco, una melodia così ossessionante da ossessionare anche lo stesso Silberman: “Per un certo periodo, era l’unica melodia che potessi scrivere per le canzoni”. “Bear” racconta la storia di una gravidanza imprevista in una giovane coppia, e dell’aborto che ne segue, della confusione delle diverse reazioni dei due, della confusione che rimane rispetto a sé stessi e alla vita, che si risolve nel (grande) ritornello: “We’re too old/ We’re not old, old at all”. Il tutto si conclude con una valigia per terra, e la neve alla televisione.
Subito dopo, il lancinante e purificatore rumore sonoro di “Thirteen”, che scompare nella voce femminile della Van Etten, in un inquietante appello ai sensi di colpa del protagonista: “Pull me out/ Pull me out/ Can't you stop this all from happening?/ Close the doors and keep them out/ Dig me out/ Oh, dig me out/ Couldn't you have kept all this from happening?/ Dig me out from under our house “.
Ma di nuovo è la progressione in maggiore di “Two” a sorprendere l’ascoltatore, in uno dei brani più personali in un disco, non c’è bisogno di dirlo, molto personale. Un lucidissimo flusso di parole, orchestrato ancora sulla ripetizione dello stesso pattern di accordi, in cui il dolore per la malattia sembra trasfigurare una relazione complicata, mascherare i rimpianti, nascondere le lacrime: “There's two people living in one small room/ From your two half-families tearing at you/ Two ways to tell the story (no one worries)/ Two silver rings on our fingers in a hurry/ Two people talking inside your brain/ Two people believing that I'm the one to blame/ Two different voices coming out of your mouth/ While I'm too cold to care and too sick to shout”. È forse anche la canzone che sarebbe stata meno uguale a sé stessa se gli Antlers fossero rimasti una one-man band.
Dopo la strana ascesa catartica di “Two”, non giunge inaspettata la quasi distaccata, meditante descrizione della morte del “paziente” di Hospice, in “Shiva”, arrangiata con misura metafisica, così che anche la tromba assume sacralità rituale e il refrain: “Hundreds of thousands of hospital beds/ And all of them empty but mine” diventa la chiosa di una liturgia svuotante. E allo stesso modo gli effetti di “Wake” trasformano il pezzo in uno spiritual eseguito immersi nell’acqua, o forse attraverso gli spiragli tra le serrande.
Il finale, “Epilogue”, riprende la melodia di “Bear”, lasciando però il palcoscenico a Peter, e anche la scelta sostanzialmente di “non arrangiare” il pezzo si rivela vincente, un saluto commosso ed emozionante:

When I try to move my arms sometimes, they weigh too much to lift
I think you buried me awake (my one and only parting gift)
But you return to me at night just when I think I may have fallen asleep
Your face is up against mine, and I'm too terrified to speak

You're screaming
And cursing
And angry
And hurting me
And then smiling
And crying
Apologizing

Si chiude così un’esperienza totalizzante e piuttosto unica, non solo nel panorama musicale degli ultimi anni, riconosciuta da un successo improvviso e in crescita esponenziale così come accade in tutte le storie di successo degli ultimi anni. Hospice viene pubblicato nel marzo del 2009 autoprodotto, e va subito esaurito – verrà poi ristampato dalla Frenchkiss ad agosto. Così, nello spazio di qualche mese, i club diventano la Radio City Music Hall, le date sempre di più e dopo di loro sul palco suonano i National.

I nuovi Antlers

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Nessuna band può essere più la stessa, dopo un disco come Hospice. Lo sa bene Silberman: “Penso sia il tipo di disco che per molte band rappresenterebbe il punto di arrivo. Questa non è stata mai un’opzione per noi”. Ora che lo studio di registrazione non è più la cameretta del mini-appartamento di Manhattan di Peter, ma è una stanza più grande nella casa di Darby, gli Antlers possono pensare in grande.
Il risultato è Burst Apart, del quale si intuiva già la forma nei live Coldplay-iani della band: le canzoni una sorta di Motown sintetica venata di post (“French Exit”), a cui si intersecano il trip-hop “raffinato” di “Parentheses”, il dream-pop sintetico di “No Widows” e “Hounds”, la teatralità sghemba dei Grizzly Bear di “Every Night My Teeth Are Falling Out”, fino alla ballata soul di “Putting The Dog To Sleep”.
Si comprende bene tutta la volontà di autodeterminazione della band rispetto al suo capolavoro, ma a questa urgenza non corrisponde la creatività di Silberman, non disposto qui a mettere in tavola qualcosa di davvero personale e coinvolgente. Burst Apart è interessante, ma noioso perché emotivamente disconnesso, il sound improntato a un’esecuzione live d’effetto ma senza profondità. Gli stessi testi, uno svogliato tentativo d’ambientazione.

Sarà invece col successivo Ep Undersea (2012) che gli Antlers cominceranno a definire più compiutamente il nuovo sound degli Antlers. Il soul subacqueo di “Drift Dive” ne definisce le coordinate: arrangiamenti sfuggenti, liquidi, la tromba interlocutrice preferenziale della voce da divo androgino di Silberman, riff appena accennati di chitarra spargono venature di colore. È una svolta “ambient” che aiuta a la band a normalizzare il suo contenuto emotivo – Hospice non è ovviamente replicabile da questo punto di vista – senza lasciar scadere, con esso, quello musicale.
In Undersea, certo, gli Antlers non parlano più di drammi esistenziali e non mirano certo a un’opera che possa intervenire fortemente nella vita delle persone, ma riescono se non altro a formulare un concetto di fondo che trova espressione compiuta nella musica: “Perché non scrivere di quanto è insicura la vita, di cosa sono la consapevolezza e la coscienza e questo stesso momento?”, dice Silberman. Anche se la band si lascia prendere la mano nella prolissa “Endless Ladder”, anche se la tentazione di mischiare troppi generi rimane (torna il trip-hop in “Crest”), è in questo Ep che gli Antlers definiscono la loro nuova veste.

Ma sarà poi in Familiars (2014) che il tutto assumerà quella portata emotiva che mancava agli Antlers. Questo quinto disco della band è mixato da Chris Coady (Grizzly Bear, TV on the Radio, Beach House), che userà strumentazione degli anni Settanta per dare al disco la sua forma smagliante, certamente reminiscente del filone Motown. Se Hospice rappresentava le potenzialità di quanto si può esprimere con solo la propria esperienza, musicale e di vita, Familiars è invece il realizzarsi di quanto una band può fare anche senza dover raccontare qualcosa di importante.
Nel percorso del disco, ispirato dalla lettura del libro dei Morti tibetano, Silberman assume un tono meno intimo e vagamente declamatorio: (“To find the peace within, the calm at where we're standing/ We have to make our history less commanding”, canta in “Surrender”), accompagnato da un sound in cui strumenti sintetici e tradizionali si complementano in un flusso indistinguibile, una sorta di (non)forma liquida (come in Undersea), che all’unisono manifesta estroflessioni, baluginii, colori inauditi. La tromba di Cicci torna a essere e anzi si impone ancor di più come strumento fondamentale, una sorta di coro solitario per il costante tono elegiaco del disco.
Il singolo di lancio, “Palace”, prende a piene mani dalla ballata anni Settanta, compresa una certa sdolcinatezza (“Then when heaven has a line around the corner/ we shouldn’t have to wait around and hope to get in/ if we can carpenter a home in our heart right now/ and carve a palace from within”), che ha spinto a paragoni deteriori con Chris Martin, motivate solo fino a un certo punto.
È chiaro che l’aspetto cantautorale tout court della musica non interessa più alla band, ma piuttosto la costruzione di un corpus sonoro unico, in cui la voce si fa strumento, e il testo una pura decorazione (si vedano anche i clichè di “Hotel”), non il centro della scena. In “Palace” e nel resto delle canzoni di Familiars non c’è niente di compiacente, di facile, ma l’espressione totalmente musicale di quel sentimento esistenziale scaricato nelle pagine di Hospice.

Le canzoni di Silberman diventano così prettamente descrittive, in una generica prima persona plurale che sa di saggezza appagata ma viva, in cui le relazioni diventano finalmente fondamento di una stoica resistenza all’imperfezione del mondo (“Parade”). L’atmosfera si fa quella di una calma piatta post-trauma in “Revisited”, invece.  
In tutto questo, piccole costruzioni chitarristiche come quella di “Intruders” esaltano l’arte della ripetizione praticata dagli Antlers, che rendono giustizia all’antica passione di Peter per i Talk Talk. Il piccolo miracolo di Familiars è di “nascondere” le melodie dilatando i pezzi e uniformando molto l’abito sonoro, senza per questo rendere i brani confondibili, ma acuendone l’aspetto narrativo.

Ed è così che gli Antlers realizzano la difficile scommessa di sopravvivere, dopo un purgatorio di 5 anni, a un disco greve di significati, ponendosi ora come band matura e in grado di sostentarsi artisticamente con la sola propria musica. Adesso ci si può aspettare di tutto.

Nel 2014, un esilio terapeutico si impone a Peter Silberman in seguito a Familiars, allorché il frontman degli Antlers perde del tutto l’udito da un orecchio e sviluppa un forte tinnitus e un’ipersensibilità dall’altro. Il risultato di un ritorno alla musica fatto di corde appena pizzicate e note appena sussurrate in solitaria, unici suoni tollerabili, è tutto in Impermanence, suo esordio solista.
Una storia di isolamento e terapia nell’entroterra newyorkese che non può non ricordare un altro celebre disco (che sta per compiere dieci anni) che si pone idealmente, come questo, nella scia di Jeff Buckley (qui in “Gone Beyond”, oppure nell’ispiratissima nenia “New York”); ma è una storia che risuona particolarmente con la sensibilità artistica di Peter, che già a un hospice ha dedicato il suo straziante esordio da musicista. Nonostante il significato e la rilevanza, per un musicista appunto, di perdere anche solo temporaneamente l’udito, e nonostante l’acutissima sensibilità di Silberman lo porti a riflessioni quasi da near-death experience (“I’m disassembling/Piece by piece”, recita in “Karuna”), “Impermanence” narra di una guarigione, ed è quindi “posteriore” rispetto alla catartica accettazione di una scomparsa di Hospice.

Stilisticamente, questo permette di interpolare tra il fascino algido ed estetizzante di Familiars e l’agone viscerale di Hospice, all’insegna di una preghiera universale, un sondare musicale di note in lenta convalescenza, alla ricerca di un’illuminazione collettiva sulla stupefacente bellezza del transitorio (“Karuna”). Musicalmente, Silberman cita Miles Davis: “Non sono importanti le note che suoni, ma quelle che non suoni”. In effetti è proprio l’equilibrio tra espresso e inespresso uno dei raggiungimenti più importanti di Impermanence: da una parte c’è il peso emotivo delle scelte di arrangiamento, nelle quali anche i soli arpeggi di chitarra elettrica possono farsi ferite sanguinanti o imprendibili giochi di veli, nello spazio di un brano (“Gone Beyond”), inseguendo riferimenti cantautorali ma anche la vocazione art-soul degli ultimi tempi. Poco o pochissimo si intromette tra Silberman e il suo strumento, se non rifrazioni, rintocchi, riverberi, animazioni di una vita collettiva di cui l’artista sente di tornare a far parte (“Ahimsa”).
Ma Impermanence è anche e soprattutto un ritorno alle basi più elementari della scrittura musicale, nelle quali Silberman dimostra ancora una volta di saper eccellere, riuscendo a connettere “Maya” alla chiusa acustica di Hospice, tramutandola presto in un altro brano, improvvisamente una lullaby d’altri tempi. Una vera magia nascosta. Nel resto del disco, Peter dimostra comunque che si può andare oltre il (forse) limitante campo della melodia con ben pochi strumenti, ben poche affettazioni.

L’affinamento stilistico della sua proposta musicale, che ha anche significativi rimandi "slow", rende poi decisamente credibile che si riconduca lo spirito del disco alla filosofia orientale: non è che un passo logico e naturale, che ha valore al di là di quanto sia informato. Non un orpello “di grido”, decisamente, perché “Impermanence” è un accorato ritorno all’essenza dell’arte: la ricerca dei fondamenti incancellabili, anche nell’impermanenza. E quindi la riaffermazione della tremenda e prodigiosa ineluttabilità di quest'ultima. 

Il dolore è stato spesso al centro della musica degli Antlers, che però ha sempre funto da agente espiatorio, lenitivo. Da cura. Dischi come “Hospice” e, seppur in misura minore, alcuni degli altri testimoniano e cristallizzano un processo di guarigione. Quello cui ci troviamo invece d’innanzi invece in Green To Gold (2021, Autoproduzione) è uno spettacolo del tutto diverso. Sin dal lento e placido sviluppo di “Strawflower”, si ha come l’impressione di venire sommersi in un mare di calma. Che a regnare tra queste dieci nuove canzono sia, se non proprio la felicità, la serenità.
Il capitolo sei della discografia degli Antlers (formazione ora ridotta ai soli Peter Silberman e Michael Lerner) è tutto quanto difficilmente ci saremmo aspettati dalla band. Un disco per ricominciare, per godersi un raggio di sole dritto in faccia contemplando il tramonto da un colle, per accogliere la primavera. Da far risuonare riappropriandoci dell’agognata normalità dopo l’incubo pandemico.
Non è soltanto una questione di umore, gli Antlers sono cambiati anche nel loro modo di scrivere e comporre i propri brani, oggi canzoni vere e proprie, per struttura e intenzioni. Tutto è meno criptico che in passato, ma ad una minor complessità strutturale della proposta non corrispondono sciatteria o lassismo negli arrangiamenti. Che sono tutti curati fino all’ultimo dettaglio, sfumatura, che, come un fiore che a sbocciare impiega qualche giorno, abbisognano di qualche ascolto per rivelarsi nella loro stratificata pienezza.
“Green To Gold” è un disco leggero come l’aria, come rugiada che si posa su di un prato in fiore. In “Solstice”, una delle canzoni più belle mai scritte dalla band, la chitarra acustica sembra accompagnare i cerchi che si stendono sul manto d’acqua di un laghetto e il sussurro di Silberman si sgrana e diffonde nell’etere come un riverbero gentile; la ritmica di “Volunteer” è rada e spazzolata e accompagna il bridge in levare con levità soprannaturale; mentre la title track vede una poetica città di periferia tingersi d’oro, tra docili allunghi di chitarra e gli eleganti rintocchi del piano, al sopraggiungere dell’autunno.
Tra effettini elettronici e frinire di cicale, un pianoforte giulivo e sbarazzino la fa padrone anche la crepuscolare “Porchlight”; laddove invece a speziare con gusto e decisione “Just One Sec” ci pensa un delicato intervento di sax borbottante.
Per un esperienza ancora più coinvolgente, è possibile ascoltare il disco accompagnato dai video (tutti reperibili su youtube e collegati in un vero e proprio film) diretti da Derrick Belcham e Emily Terndrup, che grazie alle tenere scene di vita quotidiana interpretate dai ballerini di danza contemporanea Bobbi-Jene Smith e Or Schraiber confermano lo spirito  di un’opera intrisa di poetica normalità e dolcezza.

 

Antlers - Peter Silberman

Discografia

ANTLERS
Uprooted(2006, self-released)7
In The Attic Of The Universe(2007, Fall)6,5
Hospice(2009, self-released/Frenchkiss)8
Burst Apart(2011, Frenchkiss)6
Undersea(2012, Anti)6,5
Familiars(2014, Anti)8
Green To Gold (2021, Autoprodotto)7,5
PETER SILBERMAN
Impermanence(2017, Transgressive)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

The Universe Is Going To Catch You
(live session, da In The Attic Of The Universe, 2007)

Two
(da Hospice, 2009)

Kettering
(da Hospice, 2009)

 

Bear
(da Hospice, 2009)

Sylvia 
(da Hospice, 2009)

Putting The Dog To Sleep
(live session, da Burst Apart, 2011)

Every Night My Teeth Are Falling Out
(live session, da Burst Apart, 2011)

 

Drift Dive
(da Undersea, 2012)

  Palace
(da Familiars, 2014) 
  Hotel
(da Familiars, 2014)
  New York
(da Impermanence, 2017)

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